Da Roma a Medellín e ritorno

Le rappresentazioni di Medellín tra pittura, narconovele e architetture urbane.

In questi ultimi tempi la Colombia ha conquistato le prime pagine dei giornali: prima con lo storico accordo siglato il 25 agosto scorso all’Avana tra il Presidente Juan Manuel Santos e le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), dopo 4 anni di negoziati; poi con il referendum popolare che lo ha bocciato, sia pure di stretta misura (il 2 ottobre, con il 50,23% di no contro il 49, 76% di sì). Infine con l’assegnazione del Nobel per la pace allo stesso Santos, importante riconoscimento a lui e a tutti i negoziatori dell’inedito processo di pace.

La sanguinosa vicenda colombiana è stata riassunta in modo efficace da Roberto Saviano sul giornale «La Repubblica» (“Il Nobel per la Pace alla Colombia che sogna un domani senza cocaina”, 8/10/2016). A un certo punto Saviano osserva che se ci fosse una fiction sull’argomento, essa riuscirebbe forse a rendere comprensibili i nessi complicati fra le varie parti in campo, e sapremmo che per piegare le organizzazioni criminali bisogna soprattutto riuscire a mandarle in crisi economica. In realtà esiste un genere televisivo di successo, la “narconovela”, che almeno da dieci anni prospera sul biografismo criminale (Cfr. Giacomo Poletti, “Mala Hierba”). Inoltre, sulla piattaforma Netflix di serie in questo momento ne sono disponibili due: la più recente e gettonata è la statunitense Narcos, autori Chris Brancato, Carlo Bernard e Doug Miro. Giunta alla seconda stagione, è incentrata sulla lotta delle autorità colombiane, coadiuvate da diverse e non sempre concordi agenzie americane, contro Pablo Escobar, interpretato da Wagner Moura, e il cartello di Medellin. La vicenda di questo sanguinario quanto geniale “grande nel male” ha veramente dell’incredibile – riuscì a presentarsi agli occhi del popolo come una specie di Robin Hood e a un certo punto fu persino eletto nel Parlamento colombiano. La fiction ha il merito di non fargli sconti, pur indulgendo nella rappresentazione del suo sdolcinato attaccamento alla madre e alla famiglia, tratto che pare tipico dei criminali colombiani particolarmente devoti alla Vergine.

Chi ha visto la fiction si sarà fatto un’idea abbastanza precisa – per quanto elementare –, di Medellín, principale teatro delle imprese di Pablo Escobar e garanzia dell’effetto di realtà della serie stessa. La città è inquadrata molto spesso dall’alto, da cui risulta come un’immensa distesa reticolare di case per la maggior parte basse e strettamente connesse le une alle altre. Durante i numerosi episodi di caccia all’uomo, le telecamere entrano in questi barrios dall’edilizia approssimativa per restituirne l’effetto labirinto, la densità abitativa, le attività illecite, l’alto grado di pericolosità: luogo ideale per nascondersi e appostarsi, quando si dice giungla urbana. La città si sviluppa su una superficie di quasi 400 kilometri quadrati, occupa in gran parte la Valle andina de Aburrá (a 1.400 metri di altitudine), è attraversata longitudinalmente dal Riò Medellín e conta circa tre milioni e mezzo di abitanti. Come spesso nelle città sudamericane, dalla valle la città risale lungo le pendici delle montagne che la circondano, spesso con i quartieri più poveri e informali: il che produce ogni notte un bellissimo spettacolo di luci che avvolgono la città, a effetto natalizio.

Questa conformazione soprattutto permetteva a Escobar di avere un efficientissimo sistema di vedette che lo proteggeva dalle intrusioni esterne. Eppure, grazie a un paziente lavoro di intercettazione, la “tana” in cui si nascondeva fu alla fine individuata e fu così che finì morto ammazzato, fuggendo sui tetti, nel dicembre del 1993. C’è una foto che lo ritrae riverso sulle tegole spezzate con la pancia fuori dalla camicia, con i due americani della DEA che gli davano la caccia in posa accanto a lui. Ci sono anche diversi quadri di Botero che ritraggono Escobar – mito di imprendibile impunità – con il corpo bucato dai fori dei proiettili. Forse il più noto di essi è proprio conservato nel Museo de Antiochia, che dà sulla piazza principale di Medellin, dedicata appunto a Botero, di cui accoglie diverse monumentali sculture in bronzo.

Fernando Botero infatti non è solo “il pittore delle persone grasse”, come vuole uno sciocco stereotipo. Per la Colombia è un eroe nazionale al pari di Gabriel Garcia Marquez, ha ritratto costantemente la gente, la sua storia, la violenza, la quotidianità di questo paese dall’anima “paisa” che ha così straordinariamente sofferto. La sua collezione personale d’arte ha costituito il nucleo del Museo di Bogotá, e ha voluto rendere omaggio con le sue opere anche a Medellin, sua città natale.

Non so quanto Narcos sia una rappresentazione fedele, come si dice, di quel che accadde in quegli anni maledetti in Colombia, benché lo dichiari in molto modi: con la formula di rito che compare nei titoli di coda, in cui afferma che la storia raccontata è vera, salvo i cambiamenti introdotti per motivi drammaturgici; con l’ambientazione realistica; con la costante inserzione di foto e filmati d’epoca che attestano la relazione fra i fatti e il racconto; con i narcos che parlano sempre in spagnolo con i sottotitoli; con la voce narrante di uno dei due agenti speciali della DEA, che compaiono di persona in un cameo nella seconda seria, attori che assomigliano discretamente ai reali protagonisti della vicenda.

Ma non è tanto questo che qui mi interessa. Mi interessa il focus su una città che era molto simile all’inferno sulla terra, una metropoli fuori controllo sotto tutti gli aspetti, una vera giungla urbana con leggi appunto da giungla, e che oggi, cioè poco più di vent’anni dopo, vince premi come città modello e è additata e presa a esempio in tutto il mondo di un percorso riuscito di vasta rigenerazione urbana.

Per questo nel mio ultimo viaggio in Colombia – in occasione del Convegno IECO FELS 2016 organizzato da Neyla Pardo Avril, la mia scout in Colombia – ho espresso il desiderio di passare per Medellin, e l’ho potuto fare grazie all’invito di Jorge Uruena, giovanissimo professore dell’Università di Antiochia. Nel poco tempo a disposizione qualcosa ho visto e molto altro intuito, a parte i campus delle tre ottime università che ci ospitavano. Intanto l’aeroporto è in alto, a quasi un’ora dal “centro” città – anche se l’idea di centro, nella metropoli sudamericana, è piuttosto relativa. Ci porta “giù” lungo un’ottima strada a tornanti e controtornanti dai terrapieni curati come se si fosse in Svizzera, un autista che si diverte un po’ con una guida “sportiva”. Nei numerosi tragitti in auto nella città, mostrandomi grandi architetture nuove di zecca, come la sede del nuovo incubatore di ricerca, mi spiegano i tratti del mutamento radicale di Medellín, avvenuto grazie anche allo spirito illuminato di un sindaco matematico, e del suo gruppo di riferimento. Mi raccontano che ancora oggi, costantemente, l’amministrazione mantiene aperto un rapporto di consultazione con le università e con tutti gli altri cosiddetti stakeholder della città.

Una ricerca di Manuel José Morales Morales, professore all’università di Antiochia, intitolata La proxémia urbana de Medellin (1996), mi aiuta a capire meglio come si sia realizzato questa specie di miracolo in una città cresciuta smisuratamente negli anni 60 e 70 del Novecento per l’immigrazione dalle campagne, per la maggior parte autocostruita, in cui regnava la miseria, l’abbandono, la disgregazione sociale, la guerra per bande, in cui negli anni 80 e 90 fiorivano le “scuole dei sicari” per rifornire gli eserciti dei vari “cartelli” – a parte i pochi nuovi quartieri delle élite ben organizzati e soprattutto ben presidiati. Se non tutti gli abitanti di una città sono sicarios, tutti a Medellin hanno pagato il prezzo della vera e propria stigmatizzazione della città, che ha quindi dovuto pensare a come togliersi di dosso un’immagine terribile. Dal punto di vista dei riferimenti simbolici, si è cercato di cucire fra loro due temporalità “altre” rispetto al presente: da un lato il passato meno prossimo, in una sorta di mito delle origini, con le sue tradizioni, i luoghi ameni, i mestieri, gli abiti caratteristici, la musica e le feste popolari. D’altro lato la speranza in un futuro migliore, da realizzare però sin da subito. La ricetta sembra semplice: investire in infrastrutture, servizi, istruzione e integrazione sociale, cambiare radicalmente la percezione di ciò che è “pubblico” trasformandolo da simbolo di corruzione a punto di riferimento, soprattutto per i giovani da contendere ai facili guadagni promessi dalla malavita. Le EPM (Empresas Publicas de Medellín) sono la principale azienda pubblica di servizi della città: in attivo, realizzano grandi guadagni, che reinvestono proficuamente in nuove opere pubbliche.

Un ruolo fondamentale nel processo di rigenerazione della città, oggi centro economico importante, l’ha avuto lo sviluppo del sistema dei trasporti, di cui è simbolo la metropolitana, che collega longitudinalmente e trasversalmente tutti i quartieri della città, assistita da altri mezzi, dagli autobus alle scale mobili. La cosa più interessante è la cura che è stata posta nel costruire snodi e spazi pubblici, enfatizzando i punti in cui i vari tipi di trasporto, comprese le tante biciclette, si incrociano, rendendo possibili continui collegamenti.

Ma questo è niente in confronto all’enorme lavoro di coinvolgimento della popolazione in questa straordinaria impresa: fin dal progetto, la metropolitana è stata “comunicata” e “partecipata” come il simbolo del riscatto della città, il “nuovo” che soltanto i suoi abitanti potevano custodire, difendere e mantenere “limpia”, parola chiave di facile interpretazione etica oltre che materiale. Per la gente che ha iniziato a risparmiare in media due ore per recarsi al lavoro non sarà stato così difficile aderire a un programma di questo tipo. La prima linea, che collegava il nord e il sud della città, è stata inaugurata il 29 novembre 1995. La ha seguita una seconda linea e poi tre audaci teleferiche, con un sistema ora esportato anche altrove. Lungo questi percorsi sono poi sorte biblioteche, centri sociali e ricreativi. Le università hanno potuto istituire corsi serali per gli studenti lavoratori, sono aperte fino alle 10 di sera. Dopo il convegno, ci attardiamo nella mega piazza di uno dei grandi Parchi pubblici di nuova concezione che sono sorti a Medellin in questi ultimi anni, il Parque de los deseos, chiamato dei desideri per la quantità di attività che vi si possono svolgere gratuitamente, h24, che si richiamano ai temi dell’acqua, dell’energia e della comunicazione. Una parte del suolo è in sabbia, i bambini giocano con l’eco delle orecchie giganti che si fronteggiano da un lato all’altro della piazza.

Se negli anni 80 prendevamo in giro i primi teorici della comunicazione, che si ispiravano ai modelli degli ingegneri, ora dobbiamo ammettere che il principio della connessione fisica spesso rende possibile anche lo sviluppo della comunicazione immateriale.

Penso a Medellín e alle sue trasformazioni, alla vitalità delle persone che vi ho incontrato, all’efficienza delle università che vi ho visitato ogni volta che si dice che a Roma non si può cambiare niente: è una città troppo vecchia, troppo piena di concrezioni stratificate, di interessi contrapposti, dove i servizi non possono funzionare perché costano troppo, dove è meglio non progettare nulla per non aiutare il malaffare e la corruzione che ormai vi si sono insediati.

A un certo punto della conversazione si evocano sempre il fatalismo e il cinismo dei romani come se fossero un dato culturale, mentre sono una lagna che può essere ingombrante e assolutoria, mentre il degrado avanza sulla bellezza, piccola o grande che sia.

 

 

Print Friendly, PDF & Email
Close