In “Victor”, Henri-Pierre Roché racconta Marcel Duchamp.
Henri-Pierre Roché (1879-1959), scrittore e collezionista d’arte francese, è l’autore di Jules e Jim e Le due inglesi e il continente (1956), entrambi poi adattati da François Truffaut per il cinema. In Victor, ora portato nelle librerie italiane da Skira (nella traduzione di Luca Lamberti), Roché si concentra sulla figura di Duchamp, suo amico. Ecco la prefazione di Jean Clair.
Strano destino quello di Henri-Pierre Roché. La pubblicazione, nel 1953, di Jules et Jim portava alla ribalta un debuttante di 74 anni. Nel 1956 un secondo romanzo, Deux Anglaises et le Continent1 confermava il singolare talento di uno scrittore vicino sia a Paul Morand per il suo cosmopolitismo, sia a Jean Girau- doux per la finezza delle analisi psicologiche, sia a Jean Paulhan per la qualità dello stile. La trasposizione sul grande schermo di queste due opere da parte di François Truffaut gli diede fama postuma: Henri-Pierre Roché scompariva il 9 aprile 1959. Aveva schivato gli onori con la stessa discrezione con cui aveva vissuto. Si era eclissato con la medesima concisione che aveva applicato alle sue frasi.
Chi si celava dietro questo scrittore dell’ultima ora, la cui opera è un ritardo in prosa tanto quanto il Grande Vetro di Duchamp è «un ritardo in vetro», e che aspettò mezzo secolo prima di mettere nero su bianco i ricordi che risalivano ai suoi trent’anni? Certo con diversi pseudonimi aveva collaborato a riviste, pubblicato brevi saggi, firmato recensioni. Molti di questi scritti, oggi dispersi, andrebbero riscoperti e fanno di Henri-Pierre Roché uno spirito curioso e dai gusti raffinati. Ma la sua vera importanza è altrove: essere stato, in ogni istante della sua vita e attraverso ciascuna delle persone che furono sue amiche, un testimone raro dei grandi movimenti intellettuali del Novecento.
Studente a Sciences Politiques, ignora la carriera diplomatica che lo aspetta e parte per la Germania nel 1907. Da aprile a maggio di quell’anno si colloca un soggiorno a Monaco che sarà determinante per la sua vita. Lì incontra un giovane scrittore ebreo, Franz Hessel, che diventerà il Jules del suo romanzo, e le due eroine, Lucie e Gertrude. In quella Nuova Atene che era allora la capitale della Baviera, in piena effervescenza artistica e nel clima particolarissimo alimentato da uno Stefan George, Roché frequenta un personaggio stravagante, la contessa Franziska zu Reventlow, con cui manterrà una lunga corrispondenza. Lì incontra anche il filosofo Paul Stern e l’artista Lotte Pritzel, celebre all’epoca per le strane bambole che realizza.
Tornato a Parigi, per guadagnarsi da vivere diventerà, nel 1914, corrispondente di “Le Temps”. Pratica la boxe, sport allora molto amato dagli intellettuali – specie di religione del coraggio (Nietzsche era molto letto) – di cui Tristan Bernard era il gran sacerdote. Sul ring, un giorno, incontra Braque. La sua passione per la pittura lo porta a collezionare più che a dipingere: prima Marie Laurencin di cui diviene l’amante, poi, poco dopo, Picasso. Sarà Roché a organizzare il primo incontro tra questi e Gertrude Stein.
Nella stessa cerchia di amici incontra Erik Satie, la cui influenza sarà determinante. Più tardi, negli Stati Uniti, incontra un altro musicista, Edgar Varèse, di cui diventerà amico.
Nel 1916, dopo essere stato dichiarato “inadatto alla guerra di trincea”, è inviato negli Stati Uniti – probabilmente grazie all’appoggio di John Quinn – per redigervi la traduzione del rapporto stilato dall’American Industrial Commission to France sulla situazione delle industrie francesi durante la guerra. Sarebbe dovuto rimanervi quindici giorni; vi rimarrà tre anni, fino alla cessazione delle ostilità, essendo diventato ben presto attaché all’Alto Commissariato francese a Washington. Aveva 37 anni.
Alla firma del trattato di pace rientra in Europa e riprende la sua vita errante sulle ali della fantasia. Diventa amico di uno scrittore russo di nome Semënov, e con lui percorre l’Italia dall’Adriatico a Napoli, a piedi e senza bagagli. Ma è sempre in Italia, questa volta in condizioni più comode, che accompagna John Quinn e la poetessa americana Jeanne Robert Forster. Poco prima della morte di Quinn, nel 1925, scopre, arrotolata e di- menticata nella cantina di Kahnweiler, La Bohémienne endormiedel Doganiere Rousseau, che gli fa subito acquistare.
Poi c’è l’episodio forse immaginario del suo soggiorno in India. Per una decina d’anni, Roché diventa il consulente di un personaggio uscito direttamente dalle Mille e una notte, il Rajah di Indore. Man Ray ci ha lasciato di lui foto stupefacenti che verranno riscoperte successivamente, e Bernard Boutet de Monvel un impressionante ritratto che ancora non molto tempo fa era esposto a Parigi.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, troviamo Henri-Pierre Roché rifugiato a Dieulefit nella Drôme. Diventa amico di Étienne-Martin e Wols. Frequenta due scrittori, Pierre-Jean Jouve e Pierre Emmanuel. Si mantiene dando lezioni di francese, di scacchi e… di ginnastica. Ha 61 anni.
Nel 1953, con la complicità di Jean Paulhan, esce Jules et Jim. Il romanzo ripercorre l’anno 1907, il soggiorno a Monaco e nella Foresta Nera. Nel 1956 è la volta di Les Deux Anglaises: incentrato sugli anni precedenti (dal 1901 al 1907) e su un soggiorno a Londra. Le due opere sono autobiografiche, i personaggi appena mascherati: Claude e Jim sono l’alter ego di Henri-Pierre Roché. L’11 febbraio 1957 inizia un terzo romanzo, basato questa volta sul 1916 e sul soggiorno a New York: si tratta di Victor. La morte lascia il testo incompleto.
Se Roché ha atteso a lungo prima di fare della sua vita un romanzo, è perché la sua vita stessa era stata un romanzo. Ma è anche perché non aveva mai smesso di trascriverne tutti gli episodi, anche i più piccoli, e di edificare così, giorno dopo giorno, ciò che è destinato forse a diventare la sua opera più importante, se non la più singolare del secolo, una volta che si troverà il coraggio di pubblicarla. Un diario intimo: si tratta di circa 330 quadernetti e quaderni di scuola, riempiti con scrittura uniforme, che cominciano dall’ottobre 1901 e terminano il 7 aprile 1959, due giorni prima della morte. La maggior parte dei grandi uomini politici, artisti, scrittori del nostro secolo vi si trovano citati. Una lettura parallela di Victor e del diario del 1917 basta a mostrare il loro perfetto parallelismo.
Ma non c’è bisogno di andare tanto lontano. Nei suoi Sou- venirs de Marcel Duchamp, pubblicati nel libro di Robert Lebel8, Roché ci ha già narrato il suo incontro con l’autore del Grande Vetro: «Quella notte, mi apparve così vittorioso (e non conoscevo ancora il suo nome di battesimo) che lo chiamai per sbaglio, verso le tre del mattino ‘Victor’, poi all’alba ‘Totor’…».
In un articolo su Francis Picabia, egli racconta quello che diventerà l’episodio di apertura del romanzo: «Una sera, verso mezzanotte, Duchamp e Picabia arrivarono a casa mia con unagirl che non conoscevo, decretando a modo loro che “avevamo bisogno, io e lei, di un’ora di conversazione a tu per tu”. Ripartirono subito dopo. La accompagnai al Café Brevoort: avevano colto nel segno, siamo rimasti amici, io e lei, da 35 anni».
La girl in questione, la Patricia del romanzo, era Beatrice Wood.
Nata nella “buona società” newyorkese, ragazza romantica, appassionata di teatro, ha raccontato lei stessa come, nel momento in cui stava per raggiungere Gordon Craig in Italia, sua madre glielo avesse impedito, chiedendole con voce agonizzante: «Did you know that Gordon Craig was an immoral man?». Qualche tempo dopo, facendo visita a Edgar Varèse, in ospedale per via della frattura a una gamba, incontrò Marcel Duchamp.
Da qui, sarà facile per il lettore identificare gli altri personaggi del romanzo. Alcuni vi sono indicati con il loro nome, come Arthur Cravan e le sorelle Stettheimer. Particolarmente interessante la descrizione delle serate da Louise e Walter Arensberg – Alice e Gontran – e del piccolo cenacolo intellettuale che la loro casa ospitava. Si potranno confrontare queste testimonianze con quelle, ad esempio, che ci ha consegnato Gabrièle Buffet-Picabia.
Per ironia della sorte Roché somigliava fisicamente a Marcel Duchamp: alto, snello e secco, la fronte ampia. Secco anche lo stile, come quello che Duchamp cercava con la sua arte. Per arrivare a questa secchezza, correggeva i suoi manoscritti, li scarnificava all’estremo, fino a raggiungere quella perfetta concisione che ha fatto la grazia di Jules et Jim. Anche in questo del tutto simile a Duchamp, artigiano perfetto e paziente, che grattava il suo Vetro per mesi interi.
Nonostante avesse qualche anno in più, faceva parte di quella generazione arrivata a maturità con la Grande Guerra, che voleva “vivere velocemente”, perché la velocità era all’ordine del giorno. In questo molto vicino a L’homme pressé come lo ha descritto Morand, vicino forse anche a Lewis, l’eroe di Lewis et Irène, collezionando amori brevi con nonchalance ma anche con passione, così come collezionava dipinti. Ma quella velocità aveva come presupposto l’ozio più completo: una perpetua vacanza, una disponibilità assoluta che escludevano qualsiasi mestiere, qualsiasi legame familiare, qualsiasi desiderio dunque di ciò che, oggi, si definirebbe riuscita sociale. Don Giovanni è al tempo stesso l’uomo che non ha mai tempo e colui che ha il tempo dalla sua parte. Il dongiovannismo di Roché seguiva questa regola. La conclusione che dà al suo saggio su Duchamp, «La sua opera più bella è l’uso del suo tempo», si può tranquillamente applicare anche a lui: ecco un uomo che, nell’arco di tre quarti di secolo, non avrà avuto per morale che la ricerca del proprio piacere; viaggiatore instancabile da un continente all’altro, intimo dei più alti spiriti del suo tempo, autore infaticabile di epistolari, innamorato e ancor più amante di tutte le donne desiderabili che si trovassero a portata di mano… Ma attenzione: questa morale era altrettanto rigorosa, altrettanto ascetica quanto la nostra è divenuta produttivista e triste.
Essa supponeva, in effetti, un impiego minuzioso del tempo, in cui la pratica quotidiana delle cose da fare era la base materiale, come la lettura del messale lo è per chi conduca una vita religiosa. A questo riguardo, le ultime pagine di Victor, là dove si parla di etica sessuale, sono particolarmente significative. Si applicano alla vita di Marcel Duchamp, eremita, asceta, che possedeva tutto ma non aveva nulla, nobile di spirito e misera- bile nei fatti, così come si applicano a Roché, che a New York il giorno di paga si accontentava di 25 cents13, ma la notte gustava insieme le gioie della carne e dello spirito.
Più di un passaggio di Victor, per quanto il manoscritto rimanga incompleto e faticoso, scritto così poco tempo prima della morte dell’autore, ricorderà al lettore che abbia familiarità con Henri-Pierre Roché diverse situazioni di Jules et Jim o delle Deux Anglaises: i rapporti tra i personaggi si intrecciano e si sciolgono secondo il gioco dei triangoli erotici di cui, volta a volta, questo o quell’eroe, Victor, Pierre, Patricia o Alice occupa il vertice. I dialoghi sono di una franchezza totale, senza che si possa mai capire se si tratta di cinismo o di innocenza, o di entrambi insieme. Le ultime note del manoscritto, che preparavano il seguito, sono rivelatrici: «Fatto anomalo, base del libro: la franchezza di Pierre e dei tre (Alice, Geneviève, Victor). I quattro o cinque eroi cercano, trovano, hanno una morale severa che appartiene solo a loro. La espongono, senza teoria, nei dettagli concreti, con particolari concreti».
Oggi si troverà curiosa, per non dire inquietante, questa ricerca esclusiva e appassionata di una certa art de vivre. Perlomeno si trattava di arte. Roché e Duchamp sono tanto lontani da noi quanto il Cortegiano di Baldassar Castiglione. Con loro è scomparsa una certa morale, individualista ed esigente. Ma una morale.