Pubblichiamo un importante articolo di Giovanni Gugg sul “rischio Vesuvio” visto con la lente delle scienze sociali.
Le fotografie che accompagnano questo testo sono un’anteprima di un reportage intorno al Vesuvio effettuato da Flaviana Frascogna che, con testo di Giovanni Gugg, sarà pubblicato prossimamente su Artwort.
Il Vesuvio e il contributo delle scienze sociali
Il Vesuvio non è solo un’espressione della natura, ma è una costruzione culturale. È sia oggetto, quando lo si guarda, sia sguardo, quando lo si visita; ciò ne favorisce la declinazione come simbolo, ovvero, come evidenza storica, culturale, estetica, ma anche come questione sociale e politica per i suoi risvolti legati all’ecosistema, all’urbanistica e, com’è intuitivo, alla sicurezza e alla prevenzione.
Da questa prospettiva, il Vesuvio è descritto spesso da politici, operatori di protezione civile e opinionisti come “un mostro che dorme”, “una polveriera”, “il più grande problema che abbiamo”, “il vulcano più pericoloso del mondo”. Dal punto di vista mediatico, il vulcano napoletano è un attrattore come pochi, per cui ogni articolo che presenta il suo nome nel titolo ha un potenziale di visibilità molto alto; ciò ha come effetto collaterale quello di essere frequentemente oggetto di disinformazione o di sciatteria giornalistica, perché, com’è evidente, l’importante è l’audience che riesce a raggiungere, specie attraverso i social media.
Grazie all’apporto delle scienze sociali, concetti fortemente tecnocentrici come “disastro” e “rischio”, negli ultimi anni hanno assunto una dimensione più ampia: si è capito, ad esempio, che l’entità degli effetti di un disastro non dipende soltanto dalla fisica dell’evento, ma anche dalle risposte sociali messe in atto durante e dopo l’emergenza, le quali, a loro volta, dipendono dal contesto culturale del luogo disastrato; il rischio, dal canto suo, non è una mera espressione probabilistica, ma un prodotto storico e culturalmente gerarchizzato, un’elaborazione collettiva che assume significati diversi a seconda degli ambienti.
In questo senso, tanto un disastro quanto una condizione di rischio sono eventi sociali, osservabili nel tempo e nello spazio, i quali, riguardando il punto di connessione fra società, tecnologia e ambiente, causano o possono causare un “collasso del quotidiano”.
Negli ultimi due decenni del secolo scorso, soprattutto la sociologia ha fornito numerosi contributi con i lavori di Enrico Quarantelli, Ulrich Beck, Anthony Giddens, Niklas Luhmann; allo stesso tempo, anche l’antropologia si è interessata al tema, specie con l’opera di Mary Douglas, Anthony Oliver-Smith, Åsa Boholm e i ricercatori de LA RED, un network di studi sociali sulla prevenzione dei disastri in America Latina. Più di recente, proprio l’antropologia, ha sollevato quesiti nuovi intorno ad alcune parole-chiave e a determinate pratiche che, nel frattempo, hanno avuto molto successo nel campo della sicurezza e degli aiuti umanitari, come resilienza e vulnerabilità (Mara Benadusi), governance e preparedness exercises (Sandrine Revet), ecologie dell’expertise (Aihwa Ong) e advocacy del disastro (Kim Fortun).[1]
Questi studi ci permettono di guardare al caso del Vesuvio con occhi nuovi rispetto alla logica esclusivamente emergenziale con cui è stato affrontato dalla metà degli anni Novanta. Andando al di là del mero allarmismo, dunque, è possibile porre questioni diverse ed elaborare risposte inedite.
Una pluralità di razionalità
Alla fine dell’estate del 1995 la Protezione Civile italiana ha presentato il tanto atteso “Piano Nazionale di Emergenza” in caso di eruzione del Vesuvio. L’area intorno al vulcano è stata divisa in zone di pericolosità (rossa, gialla e blu) e tale certificazione del territorio come “a rischio” ha contribuito a modificare la relazione con i luoghi (nella zona rossa, ad esempio, vige la totale inedificabilità) e anche il senso attribuito al tempo: la catastrofe non è più un’eventualità ipotetica ma, in qualche misura, è stata ufficialmente annunciata.
Nei vent’anni successivi, il Piano di Emergenza è stato aggiornato nel 2001 e nel 2013: nel primo caso è stato ridotto il margine di tempo necessario alla previsione di un’eruzione da due ad una settimana, mentre nel secondo caso si è avuta una nuova perimetrazione della zona di maggior rischio, la quale ha portato alla ridefinizione dei gemellaggi che i 24 comuni dell’area hanno con le altre regioni d’Italia.
Il Vesuvio non erutta dal marzo del 1944 e, secondo la maggior parte dei vulcanologi, il suo futuro risveglio potrebbe avere una potenza simile all’eruzione subpliniana del 1631, per cui è su questo scenario che è stato elaborato l’attuale Piano di Emergenza. Non mancano voci discordanti, naturalmente, specie tra gli scienziati che sottolineano l’eventualità di un’eruzione ancora più catastrofica, tuttavia le principali critiche al Piano provengono da una parte della popolazione che ritiene “punitiva” l’attuale strategia di salvaguardia del territorio e dei suoi abitanti perché, bloccando soprattutto il settore edilizio, avrebbe penalizzato l’economia locale.
In effetti, nel corso degli anni il discorso sul “rischio Vesuvio” è andato avanti tra leggi più o meno efficaci contro l’abusivismo edilizio e per la decompressione demografica, dispute tra scienziati, sparute esercitazioni, trasmissioni televisive, allarmi, allarmismi e qualche scossa sismica vera. Difficilmente, invece, si è tentato di declinare in senso pratico quell’auspicata “convivenza con il vulcano” che molti speravano nel momento dell’istituzione del Parco Nazionale del Vesuvio, sempre nel 1995.
Anche le risposte socio-culturali al rischio sono state largamente ignorate, schiacciate da stereotipi piuttosto abusati: da politici e tecnici, infatti, è frequente ascoltare dichiarazioni che dipingono gli abitanti dell’area vesuviana come «insensibili al rischio», “irrazionali e irresponsabili”, “superstiziosi e fatalisti”.
Si tratta di giudizi di valore che svelano l’implicito etnocentrismo di chi li esprime e che mostrano una chiara incomprensione della complessa realtà socio-culturale locale. Dallo studio sistematico di comportamenti che sembrano assurdi, però, emerge che l’atteggiamento degli abitanti riflette forme “altre” di ragionevolezza, ovvero risulta che localmente non vige una sola logica, ma una molteplicità razionalità. Queste, per quanto incomprensibili per chi vive altrove, qui ed ora invece danno senso all’esserci individuale e collettivo e possono addirittura rappresentare un meccanismo di difesa da una potenziale “angoscia territoriale”.[2] Ciò non significa che si rimuova o si neghi il rischio, ma solo che lo si mette da parte, tra parentesi: gli abitanti della zona rossa del Vesuvio, in altre parole, vedono e non vedono il rischio, sanno e non sanno cosa può accadere. Attuano, cioè, una selezione del sapere che può sembrare paradossale, eppure è facilmente decifrabile perché, spiega Gianluca Ligi, «non tutto ciò che è spiegabile è per ciò stesso comprensibile».
Governare il rischio vesuviano
Tale condizione non deriva dall’ignoranza dei fenomeni fisici o da un’inadeguata preparazione scolastica: “manca una cultura del rischio”, si sente spesso ripetere. Piuttosto, ciò che caratterizza gli abitanti alle pendici del vulcano è un vero e proprio “blocco di senso”, un’incapacità sociale e individuale a credere nella distruzione “definitiva”. Come fare, dunque, ad impostare un discorso credibile sul rischio, che riesca a farsi proposta e azione?
Sandrine Revet e Julien Langumier[3] suggeriscono di accantonare la nozione di “cultura del rischio” e di concentrare le analisi sugli strumenti normativi e mediatici (leggi, piani di evacuazione, esercitazioni, simulazioni, vincoli, ecc.), cioè su dei veri e propri “attori sociali non umani” che sono in grado di influenzare le pratiche quotidiane e di produrre senso. Il “mito della sicurezza”, infatti, ha sempre una componente di “finzione sociale” e tende a concretizzarsi in pratiche e politiche di prevenzione sempre più pervasive e sistematiche che, al tempo stesso, individualizzano e privatizzano.
In altre parole, l’idea di un rischio costante, per cui un disastro può avvenire ovunque e in qualsiasi momento, determina il bisogno di essere ininterrottamente preparati, secondo un modello che non porta a governare il rischio, ma ad essere governati da esso.
In questo senso, il particolare contesto vesuviano, prima ancora che riflessioni sulla sicurezza e sulla prevenzione, impone una considerazione sul modello economico intrapreso negli ultimi settant’anni, sull’espansione urbana, sulla vivibilità delle città; richiede un esame approfondito del rapporto attuale con l’ecosistema, nonché sullo stato della rappresentanza democratica e della partecipazione nelle istituzioni.[4]
Ciò che va imbastito, pertanto, è un ampio e autorevole discorso pubblico sulla fase di post-sviluppo che stiamo vivendo: l’emergenza non può essere l’unica logica con cui si affronta il rischio vulcanico, c’è la possibilità di prepararsi al peggio perché l’eruzione è un evento relativamente prevedibile, ma allo stesso tempo c’è anche il dovere di mitigare la vulnerabilità “costruita” di pari passo all’enorme urbanizzazione realizzatasi intorno al Vesuvio nella seconda metà del Novecento. Fuggire in caso di allarme è ovvio, ed è chiaro che bisogna organizzare al meglio una enorme operazione di evacuazione con il miglior Piano d’Emergenza possibile, ma il rischio vesuviano è molto di più, per cui bisogna avere consapevolezza che come è stato “prodotto”, così può essere mitigato, attenuato, ridimensionato. Si tratta di comprenderne la valenza politica e, di conseguenza, di trovare il coraggio per affrontare temi arditi come il decementificare, decomprimere, decongestionare, deurbanizzare. Questo cambio di prospettiva può apparire una sfida vertiginosa, eppure, per quanto complessa e lunga, è l’unica strada per ritrovare quella che Antonio di Gennaro chiama «misura della terra».[5]
[Questo articolo è già apparso su LABSUS]
Note
[1] Una presentazione dello stato degli studi socio-culturali sui disastri è di Mara Benadusi: Antropologia dei disastri. Ricerca, attivismo, applicazione. Un’introduzione (si veda il riferimento bibliografico).
[2] Sull’elaborazione culturale del rischio in un paese della zona rossa vesuviana si è concentrato lo studio dottorale dell’autore, discusso nel 2013 presso l’Università di Napoli “L’Orientale”.
[3] S. Revet, J. Langumier, Le gouvernement des catastrophes, Karthala, Parigi, 2013. Il volume è stato recentemente tradotto in inglese: Governing Disasters. Beyond Risk Culture. Palgrave MacMillan, New York, 2015.
[4] Per un approfondimento, si veda il saggio di G. Gugg: Rischio e post-sviluppo vesuviano: un’antropologia della “catastrofe annunciata”, nel volume al riferimento bibliografico [1].
[5] A. Gennaro, La misura della terra. Crisi civile e spreco del territorio in Campania, Clean, Napoli, 2012.
Bibliografia essenziale in italiano
- Mara Benadusi, Antropologi dei disastri. Ricerca, attivismo, applicazione, Antropologia Pubblica, I (1), Società Italiana di Antropologia Applicata, 2015 (con saggi di I. Falconieri, R. Ciccaglione e S. Pitzalis, E. Pietrangeli, G. Salome, G. Gugg).
- Fabio Carnelli, Stefano Ventura, Oltre il rischio sismico. Valutare, comunicare e decidere oggi, Carocci, Roma, 2015.
- Antonello Ciccozzi, Parola di scienza. Il terremoto dell’Aquila e la Commissione Grandi Rischi. Un’analisi antropologica, DeriveApprodi, Roma, 2013
- Gianluca Ligi, Antropologia dei disastri, Laterza, Roma-Bari, 2009.
- Roberto Malighetti, Oltre lo sviluppo. Le prospettive dell’antropologia, Meltemi, Roma, 2005. In particolare, si veda il saggio di Arturo Escobar: “Immaginando un’era di postsviluppo”.
- Pietro Saitta, Fukushima, Concordia e altre macerie. Vita quotidiana, resistenza e gestione del disastro, Editpress, Firenze, 2015 (con saggi di: F. Dovigo, K. Cleveland, M. Benadusi, A. Pop, A. D’Ascenzio, O. Shevchenko, D. Olori, R. Castorina e G. Roccheggiani, F. Carnelli, S. Pitzalis, I. Falconieri, M. Barberis Rami, S. Ventura, E. Marcorè, F. Pirone e E. Rebeggiani, M. Musmeci, S. Zizzari, R. Salvatore e R. Mastromarini).