Ripoliticizzare il mondo

Pubblichiamo alcuni estratti da “Ripoliticizzare il mondo di Didier Fassin, appena uscito per Ombre Corte (2014). La traduzione del volume è a cura di Chiara Pilotto.

Se, secondo la celebre espressione di Max Weber, il disincantamento del mondo è il tratto più significativo del nostro tempo, non è forse più dal lato della religione che dobbiamo cercarne le manifestazioni più evidenti, ma dal lato della politica. Così come all’inizio del XX secolo il sociologo tedesco descriveva l’abbandono della credenza nell’efficacia della magia e nella potenza del sacro, allo stesso modo siamo chiamati a pensare, cent’anni dopo, al declino della fede nella virtù della rappresentanza e del valore delle istituzioni.

Probabilmente bisogna vedere in questa evoluzione la conseguenza dei numerosi scandali di corruzione, subordinazione, abuso di potere, conflitto di interessi e, più in generale, delle tante forme di perversione delle pratiche di governo che hanno segnato la storia recente dei Paesi occidentali, a cominciare da quella dell’Italia, dove gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena sugli Effetti del cattivo governo, ci ricordano che il fenomeno non è comunque nuovo.

Ma la disillusione nei confronti della politica ha sicuramente delle ragioni più profonde e strutturali: la sensazione che i rappresentanti del popolo lo rappresentino male, nel duplice senso dell’azione che essi conducono in suo nome e della loro composizione demografica che differisce di molto dalla sua; l’impressione che le istituzioni non riescano più a istituire il sociale, specialmente in termini di equità di fronte alla giustizia e di uguaglianza delle opportunità, in un periodo in cui aumentano le disuguaglianze all’interno della società.

In altre parole, una larga parte della popolazione non si riconosce più nella politica così com’è, il che spiega tanto l’attrazione esercitata dalle diverse forme di populismo di destra e, in modo minore, di sinistra, quanto il dispiegarsi di forme alternative di azione politica più vicine alle preoccupazioni e alle aspirazioni del popolo. A questo proposito, parafrasando la formula di Marcel Gauchet riguardo al cristianesimo, potremmo dunque affermare che la democrazia è paradossalmente il sistema politico dell’uscita dal politico – il che condannerebbe non tanto l’idea democratica quanto la sua realizzazione concreta, la quale è tuttavia ben più che un semplice incidente di percorso.

È possibile reincantare la politica? O meglio, nelle attuali condizioni di disincantamento nei confronti del modello democratico, si può ripoliticizzare il mondo? Sicuramente si obietterà che perché vi sia una ripoliticizzazione, bisogna che vi sia stata prima una depoliticizzazione, un fenomeno di cui si ammetterà che il nome deriva più dall’intenzione polemica che dall’analisi sociologica – così come Paul Veyne ironizzava sul fatto che si parlasse di depoliticizzazione almeno dal tempo dell’introduzione dell’evergetismo del panem et circenses nelle arene della Roma antica.

Precisiamo dunque l’intento. Ripoliticizzare il mondo significa qui ridare senso alla politica, vale a dire iniziare a interrogarsi su ciò che essa significa. Che cos’è la politica? Questo si chiedeva Hannah Arendt in un’opera rimasta incompiuta, ma che in sostanza voleva essere una risposta a questa domanda, e non una tradizionale discussione di scienza politica sul buon governo. Sappiamo che a questa domanda ha risposto con un dato di fatto, la pluralità, in quanto la politica tratta della comunità e del rapporto tra esseri diversi. Tale definizione porta certamente il segno dei due totalitarismi che hanno caratterizzato il suo tempo. Tuttavia, essa indica la volontà di andare alla sostanza della politica, al suo significato ultimo.

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L’interesse degli antropologi per l’oggetto politico appare tardi nella storia della disciplina. […] Lo spostamento più significativo degli ultimi decenni è consistito nell’interrogarsi sull’oggetto politico stesso. L’idea centrale, ispirata da Karl Marx ma anche da Michel Foucault, e alimentata dalle mobilitazioni sociali quanto dai dibattiti intellettuali intorno agli studi femministi e postcoloniali, è che il politico non sia già presente, ma che sia il prodotto dell’azione umana, che sia ciò che gli uomini e le donne fanno esistere come tale attraverso rapporti di forza e prove di verità. L’immigrazione e la povertà, il genere e la sessualità, la sofferenza e il trauma non sono di per sé oggetti politici: lo diventano.

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Il fine ultimo della politica, scrive Aristotele, è la vita, da un lato come “semplice fatto di vivere”, e richiama l’“attaccamento alla vita”, e dall’altro come “vita felice”, allo stesso tempo “degli uomini che vivono in comune e di ciascuno preso individualmente”. In altre parole, essere in vita e vivere bene sono le due ragioni ultime della politica. Questa definizione dell’oggetto della politica ha un’implicazione morale, ed è importante notare a questo proposito che il grande libro di Aristotele sull’etica si apre con un’apologia della politica in quanto “scienza suprema” che mira a difendere il “bene supremo”. È questa infatti che ha come fine il “bene per l’uomo”, vale a dire il “bene per il singolo” e sopra questo il “bene per la città”.

Di conseguenza etica e politica sono indissociabili in questo progetto normativo. Riassumendo: la politica ha la vita come fine e la morale come principio. È su queste fondamenta che si costruisce l’architettura concreta rappresentata dalla Costituzione e dalle istituzioni, dal legislatore e dai politici. Tra la vita e la morale si può tuttavia pensare che manchi un elemento che costituisce la materia dell’una e dell’altra, cioè il corpo. Esso trova certo spazio nella psicologia di Aristotele, in quanto è del resto legato all’anima, ma non è l’oggetto materiale su cui si esercita la politica.

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È in particolare sui e nei corpi che si leggono le disuguaglianze, che si imprimono le violenze, che si iscrivono le norme di condotta e di cattiva condotta. La tesi proposta può dunque essere espressa nel modo seguente. Ripoliticizzare il mondo significa riporre la questione della politica e dei suoi fondamenti: la vita, il corpo, la morale. La politica governa delle vite, si manifesta sui corpi, deriva da scelte di natura morale.

Dell’entrata della vita nel campo della politica Michel Foucault ha fatto la soglia della modernità biologica. Tuttavia, paradossalmente rispetto all’etimologia di questa parola, ciò che ha chiamato biopolitica non riguarda la vita in quanto tale, ma la regolazione delle popolazioni per mezzo di diverse tecnologie come la demografia e l’epidemiologia o la pianificazione familiare e la salute pubblica.

È dunque all’importante formula di Georges Canguilhem che bisogna ritornare per capire il senso delle politiche della vita: egli scrive infatti che tutto accade come se una società avesse la mortalità che le compete, in altre parole, come se le scelte politiche che ogni società compie in materia di giustizia e di protezione sociale esprimessero un giudizio di valore sulla vita dei suoi membri.

L’aspettativa di vita media, ma anche le disuguaglianze esistenti tra le diverse aspettative di vita, riguardano quindi una forma di etica politica che in Francia si manifesta per esempio con il fatto che a un operaio non specializzato di trentacinque anni restano nove anni in meno da vivere rispetto a un professore o a un medico della stessa età, e che negli Stati Uniti il tasso di sopravvivenza a sessantacinque anni è due volte più debole tra i neri dei quartieri poveri rispetto all’insieme della popolazione bianca.

Qui risiede una delle contraddizioni più radicali del mondo contemporaneo. Da un lato la vita, come semplice fatto di vivere, è l’oggetto di una forma di sacralizzazione: piuttosto che il biopotere è dunque la biolegittimità, intesa come il riconoscimento della vita in quanto bene supremo, che caratterizza l’ethos delle società occidentali, così come aveva già intravisto Walter Benjamin. Dall’altro lato le vite, questa volta al plurale, hanno valori differenti: questa disuguaglianza è segnata quantitativamente, in termini di durata, e qualitativamente, attraverso le condizioni stesse dell’esistenza.

Si tratta innanzitutto di rendere conto delle logiche di morte fisica e di morte sociale all’opera nel cuore delle nostre società, dall’interminabile conflitto omicida nella regione dei Grandi Laghi al naufragio delle barche cariche di migranti indesiderati nel Mediterraneo, dalla discriminazione razziale in Sudafrica al soffocamento militare in Palestina. Ma si tratta anche di dare spazio all’etica di sopravvivenza rivendicata da coloro che sono minacciati da tale estinzione fisica o sociale e i cui discorsi e atti rifiutano la presunta alternativa tra la vita nuda e la vita qualificata.

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La vita, il corpo, la morale – piuttosto che le istituzioni, i partiti, le elezioni. Ripoliticizzare il mondo significa spostare lo sguardo dalle forme della politica alla sua stessa materia. La politica è ciò che trasforma le vite, agisce sui corpi, mette in moto la morale. Pertanto la questione della democrazia non si pone più soltanto in termini di rappresentanti e di governanti, ma di uguaglianza e di giustizia, di trattamento degli stranieri e delle minoranze, di risposta ai problemi della disoccupazione e della povertà, di riconoscimento delle forme di violenza e di dominazione esercitate all’interno della società.

Didier Fassin è professore all’Institute for Advanced Study di Princeton e all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Oltre a Ripoliticizzare il mondo, in italiano è disponibile il suo La forza dell’ordine. Antropologia della polizia nelle periferie urbane (La Linea, 2013), di cui abbiamo pubblicato questo estratto.

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