Ripensare il geologo

Dall’Italia a Cochabamba, attualità del mestiere che si fa con i piedi.

ripensare il geologo

Ho sempre seguito con un po’ di distacco e di ignoranza il mestiere che mio padre svolge da quarant’anni: il geologo. Dalla classica domanda che le maestre mi rivolgevano a scuola ho dovuto barcamenarmi tra frasi fatte e giri di parole per spiegare di cosa si occupa, in fin dei conti, uno scienziato della terra. “Studia i sassi” era quasi sempre la battuta conclusiva di questa imbarazzante prova che, se da un lato descrive bene la noia suscitata normalmente dalla geologia, dall’altro ci parla di una tendenza ben più inquietante e pericolosa. Del resto la geologia è una scienza relativamente recente. Si separò e divenne autonoma dalle altre solo alla fine del 1700, quando James Hutton pubblicò il suo Teoria della Terra con prove e illustrazioni, dove per la prima volta si concedeva al pianeta di essere antico milioni di anni invece dei classici 6000 dedotti dalla Bibbia. Oggi i corsi di geologia non contano più di una quindicina di iscritti, con i presidenti dei corsi stessi sempre alla ricerca d’una via d’uscita dalla perenne crisi.

Un numero di Le vie d’Italia, rivista del Touring Club del 1947, elogiando il turismo, in senso ampio e migliore, insito nel lavoro “che si fa con i piedi”, contava addirittura soltanto “una cinquantina di veri geologi” nel nostro paese. Da questa storica vocazione minoritaria deriva lo scherno tradizionalmente rivolto ai geologi. Ma se ciò è più comprensibile da parte di scienziati il cui campo d’azione non tocca la crosta terrestre – un esempio per tutti è il fisico Sheldon Cooper che nella serie The Big Bang Theory non perde occasione per farsi beffe dei geologi e della geologia – ciò risulta molto meno comprensibile da parte di scienziati che hanno proprio nella crosta terrestre il loro banco di prova.

Sono molte le categorie che competono con il geologo. Non a caso il fondamentale volume di Ardito Desio Geologia applicata alla ingegneria si apre con un’invocazione affinché geologi e ingegneri imparino a attenersi ai rispettivi campi d’azione e a collaborare per un miglior risultato. Le stesse leggi e decreti ministeriali non sono chiari su dove finisca il campo d’azione di uno e cominci quello dell’altro e più volte il Consiglio nazionale dei geologi, che esiste appena dagli anni ’60 per impegno dello stesso Desio, ha dovuto redigere considerazioni in reazione a circolari ministeriali dove si è cercato di complicare la nomenclatura per limitare o confondere le aree di appannaggio dei geologi – vedi la Circolare dell’8 settembre 2010, n. 7619/STC, dove si compie una separazione apparentemente pretestuosa tra indagini geognostiche e geotecniche.

Scriveva l’allora vice presidente del Consiglio Nazionale dei Geologi Vittorio D’Oriano: “[…] lo studio del sottosuolo e della superficie terrestre nelle sue trasformazioni è l’essenza stessa della geologia e di conseguenza è materia propria dei geologi. Chi non abbia studiato geologia, nell’accezione più ampia di questo termine, quindi stratigrafia e sedimentologia, geomorfologia, idrogeologia, mineralogia e petrografia è fuori discussione che non possa ricostruire modelli di un qualche realistico utilizzo pratico anche ai fini geotecnici.” In parole povere basterebbe dire che il geologo si occupa di ciò che sta sotto, mentre l’ingegnere (e l’architetto, il geometra, il progettista) di ciò che sta sopra. Scherzi a parte, non è evidentemente così semplice. Al contrario la diatriba fra geologi e ingegneri assume spesso toni infuocati.

Alla luce di questa confusione di fondo non ci si può meravigliare se nel nostro paese soffriamo di un dissesto idrogeologico tra i più gravi in Europa. Limitandoci alle frane, il rapporto ISPRA del 2018 conta 620.808 fenomeni in un’area pari al 7,9% del territorio nazionale, mentre oltre 6 milioni di persone vivono in zone a pericolosità idraulica media. Alluvioni, smottamenti e crolli d’infrastrutture sono legati a doppio filo all’ignoranza e alla delegittimazione di cui abbiamo detto, aspetti culturalmente non meno radicati dell’abusivismo e dei condoni edilizi, tanto che in tv siamo ormai abituati a vedere i geologi invitati a dire la loro soltanto dopo i cosiddetti disastri naturali, finalmente “legittimati” a assumersi le colpe di una mancata previsione.

Anche nell’ambito della ricerca dell’acqua le cose non cambiano. In Italia è normale richiedere una consulenza confermativa a un rabdomante per costruire un pozzo dopo aver eseguito il rilievo geologico o appaltare direttamente al sensitivo il lavoro di un tecnico. I rischi di un comportamento del genere, la contrapposizione tra una scienza vera e propria, un metodo fondato su realtà oggettive, verificabili e tramandabili a terzi, e un’esperienza soggettiva e spesso di difficile decifrazione da parte dello stesso rabdomante, riguardano la prassi operativa conseguente al ritrovamento dell’acqua e la possibilità di mettersi in mano a un ciarlatano di cui nessuno può farsi garante.

L’Italia è però quel posto dove un rabdomante, il docente autoproclamatosi di una disciplina integrativa tra tecniche yoga e radioestesia, può chiedere danni da 6 milioni di euro per diffamazione all’ordine dei geologi piemontesi, rivendicando di aver trovato l’acqua grazie al suo “biocomputer”, laddove gli scienziati, con il loro computer, non erano riusciti. L’Italia è anche quel paese dove le pastoie burocratiche sono tali e tante che è facile, per un geologo, sentirsi impossibilitato a svolgere il proprio mestiere. Così, aprendosi alla vocazione descritta nel Touring club, mio padre ha deciso di affacciarsi sul mondo non meno periglioso della cooperazione internazionale.

ripensare il geologo

Con la sua onlus Acquifera, fondata nel 2008 insieme ad altri colleghi, ha iniziato progetti dal Camerun all’Etiopia, dal Sahara Occidentale al Kenya, dal Guatemala alla Bolivia. In questi luoghi l’acqua è un oggetto tanto prezioso quanto conteso e spesso ciò che manca sono le opere di captazione, la costruzione di bottini di presa o di trincee che facciano colletta delle poche risorse idriche a disposizione.

In Bolivia, nell’area intorno a Cochabamba, in un territorio dove la stagione delle piogge si è ridotta da tre mesi a uno mettendo in grave difficoltà i campesinos e i loro raccolti, un consorzio di multinazionali, fra cui la statunitense Bechtel e l’italiana Edison, cercarono di privatizzare l’acqua o, come dicono gli analisti, di “petrolizzarla”. Nel 1999 i prezzi di consumo salirono del 300% e la popolazione locale scese in piazza a manifestare.

La cosiddetta “guerra dell’acqua” inaugurò il nuovo millennio con 7 vittime accertate fra i manifestanti, centinaia di feriti e arrestati e la cacciata delle multinazionali che, con il beneplacito della Banca Mondiale e del governo Banzer, avevano messo le mani sull’oro blu. È stato il primo caso in cui una rivolta popolare ha avuto la meglio contro delle multinazionali – el David contra Goliath, come scrissero i giornali.

Si deve a Morales, il primo presidente indigeno della Bolivia, la legge dove si dice che “ogni persona ha diritto all’acqua e all’alimentazione”. Ancora adesso nel paese, lungi dall’essersi liberato del giogo neoliberista, l’acqua potabile è confezionata dalla Coca Cola e costa più della famosa e zuccherata bevanda – e il diabete è solo uno dei tanti danni collaterali dell’aridità, quando è unita all’avidità dell’uomo.

Nel distretto di Vila Vila, sulle Ande orientali, dove Acquifera ha aperto un progetto nella primavera del 2018 per facilitare l’accesso all’acqua, i villaggi vivono ritagliandosi campi di mais fra i terreni crepati dal sole. Quello che ho potuto constatare, accettando l’invito di mio padre a seguirlo nel primo viaggio orientativo, è che le delegittimazioni subite in patria dal geologo sono un lontano ricordo in posti dove si vive un’emergenza idrica costante e dove solo un intervento prettamente tecnico, scevro dalle credenze e dalla confusione burocratica, può fare la differenza. Sopralluogo dopo sopralluogo, incontro dopo incontro con le comunità quechua che popolano le magnifiche valli andine, ho capito di avere accesso a un punto di vista privilegiato, ancorché da esterno, nei confronti di una disciplina tanto fondamentale quanto invisibile. Nell’invito di mio padre stava, malcelato, l’accorato appello di un’intera categoria.

In Italia in realtà i dati sulla siccità non sono meno spaventosi. Dai ghiacciai che fondono a febbraio ai fiumi e ai laghi già ai minimi in inverno, gli eventi siccitosi sono ormai una costante nelle economie agricole di tutto il paese, basti pensare ai danni riportati dalle coltivazioni di mais nella pianura padana. In un tale contesto, il lavoro di Acquifera o di altre organizzazioni come Geologia senza frontiere ci aiuta a rivalutare il mestiere che si fa, oltre con i piedi, con “la mente e il martello”, come dice il motto, mostrandoci il suo lato più umano e sociale e la sua stringente attualità. Dopo la pandemia e la crisi economica torneremo infatti a fare i conti con il vero grande problema dei nostri tempi, il cambiamento climatico, e i geologi potranno giocare una parte essenziale solo se tenuti nella giusta considerazione.

Dal canto mio, oltre a rimettermi a studiare per colmare, almeno in parte, le mie lacune, ho potuto togliermi dall’imbarazzo di certe domande scomode. Dopo la festa d’inaugurazione dei lavori a base di grasso di lama e foglie di coca, mentre aspettavamo il taxi che ci avrebbe riportato all’aeroporto, il receptionist dell’ostello di Cochabamba mi ha chiesto cosa fa di preciso un geologo. La mia risposta, questa volta, è stata più sicura: «Busca el agua».

Print Friendly, PDF & Email
Close