Rino Daus, i miti del fascismo e la fine della memoria

Domani a Siena, in uno dei territori più attivi nella geografia della Resistenza italiana al nazifascismo, verrà inaugurata una nuova sede di Forza Nuova dedicata allo squadrista Rino Daus. Analizzare e decostruire i miti del neofascismo è un esercizio utile a disinnescarne le turpi provocazioni.

Uno dei punti di forza che hanno consentito al fascismo di durare così a lungo – sostiene Emilio Gentile, fra i più importanti storici del regime – è stato il culto dei suoi miti. Mito e organizzazione furono infatti le componenti fondamentali della politica di massa del fascismo, tanto nel periodo che precede la marcia su Roma quanto nella costruzione del regime. Ma ancor più fondamentale, per il fascismo, fu la stessa organizzazione del mito, attraverso la quale i fascisti interpretarono ed esorcizzarono la complessità irriducibile della moderna società di massa: il mito dei caduti della Grande Guerra, il mito dell’Impero sui colli fatali di Roma, il mito dell’eroica guerra civile combattuta contro i rossi e vinta grazie al colpo di mano favorito da Vittorio Emanuele III del 1922, il mito dello stratega demiurgo di tutti questi miti, il mito del duce.

Il mito non fu esclusivamente strumento di asettica tecnica politica. Fu al contrario categoria fondamentale nell’interpretazione della realtà e in quanto tale architrave del dispositivo totalitario che nel giro di quattro anni dopo la presa del potere, nell’ottobre del 1922, ha cancellato per legge ogni possibile alternativa politica a se stesso. Nessun partito, nessuna associazione, nessun giornale aveva la possibilità di esistere se non accettava il progetto incarnato da (ma non esauribile a) Benito Mussolini. I poteri del prefetto erano stati ampliati fino alla discrezionalità di sopprimere tutto ciò che turbasse l’ordine fascista. La violenza praticata e minacciata, la soppressione delle pur timide libertà garantite dopo la svolta del Codice Zanardelli (1889) nel vecchio Stato liberale, l’incarcerazione dei militanti comunisti e socialisti, la creazione di un Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, il ripristino della pena di morte, l’istituzione di una polizia politica segreta, il confino politico a chi si fosse macchiato anche solo di un commento sfavorevole nei confronti del regime e dei suoi uomini, erano solo alcuni dei segni concreti della svolta totalitaria.

I nomi di Giovanni Amendola, Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, Giovanni Minzoni, Carlo e Nello Rosselli, Antonio Gramsci sono solo i più noti fra le vittime dei fascisti. Di fronte a questo quadro ogni riferimento ad argomentazioni legate al consenso che il regime abbia potuto conquistare assumono una particolare tonalità e devono essere usate con grande cautela. Il mito è stato al tempo stesso strumento di organizzazione di questo consenso e dispositivo di repressione del dissenso.

È in questo senso che Emilio Gentile ha interpretato il fascismo come religione politica, che Furio Jesi ha indagato il lato oscuro della tecnicizzazione dei miti della modernità e che il grande storico George L. Mosse ha scritto sul culto dei miti – violenza rigeneratrice, nazione, bella morte – come strumenti per cementare uno spirito di fratellanza esclusivo e aggressivo, utili per comprendere i motivi e i modi attraverso i quali un sistema politico e un complesso di credenze abbiano potuto resistere vent’anni nella negazione assoluta delle libertà, e nello spirito dell’imperialismo razzista.  

Fra i miti del fascismo e dei fascisti c’era – e nel neofascismo c’è ancora oggi, pare – il culto dei morti, di quelli che venivano definiti “martiri” del fascismo e che solitamente davano poi il nome a una legione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (il corpo militarizzato di partito creato dal fascismo a partire dagli uomini dello squadrismo del 1920-21) ma anche a una scuola o a uno stadio di calcio, come fu per molto tempo quello di Siena intitolato allo squadrista Rino Daus. Erano i “martiri” del fascismo coloro che con le loro azioni squadristiche avevano dato il maggiore contributo all’affermazione del fascismo tra il 1919 e il 1922. Erano i custodi di quella modernità totalitaria che aveva piegato le istituzioni dello Stato al progetto distruzione della democrazia.

L’esperienza dello squadrismo, gli anni vissuti pericolosamente, erano per i fascisti il luogo della memoria più viva, più esaltante della loro esperienza. Andare a pescare al passato della lotta ai socialisti e ai parassiti – come venivano definiti i nemici della nazione – serviva sempre anche nei complicati equilibri politici del regime, ormai stabilizzato degli anni Trenta, a ravvivare lo spirito violento e a rivendicare ragioni, istanze ma anche posti o prebende nel gioco politico e nella gestione del potere quotidiano. Lo squadrismo quindi produceva miti, un’epica di fatti tristi e violenze vigliacche alle scaturigini della dittatura, che giocarono poi una loro funzione nella rivendicazione di piccole o grandi fette di potere.

Quali sono gli accadimenti che permisero di organizzare il mito del “martire” Rino Daus?

Per fare luce sulla celebrazione di questo squadrista dobbiamo ritornare ai mesi che precedono la presa del potere, al 1921 e all’avanzata dei fascisti nella Maremma grossetana. In altre parole, per meglio mettere a fuoco e comprendere chi erano gli squadristi e chi era Rino Daus dobbiamo guardare ai documenti storici e mettere da parte, possibilmente nel cestino dell’indifferenziato, le apologie contemporanee ammantate di retorica dei neofascisti di oggi. I numeri delle inchieste – tra cui quella dell’ispettore di pubblica sicurezza Paolella mandato nel grossetano a far luce sulle violenze dopo la strage di Roccastrada – ci dicono che in tutta la Toscana, nel primo semestre del 1921, i militanti squadristi provocarono la distruzione di 3 giornali e tipografie, 11 case del popolo, 15 Camere del Lavoro, 11 cooperative, 2 società di mutuo soccorso, 70 sezioni e circoli comunisti e socialisti, 21 circoli operai e ricreativi.

La regione rossa, dove i socialisti erano riusciti, attraverso elezioni democratiche, a conquistare il 51% dei Comuni, fu oggetto di attacchi violenti per lunghi mesi. Nell’autunno precedente, i socialisti erano maggioranza in 6 Consigli provinciali su 8 e avevano 244 consiglieri provinciali su un totale di 318. In moltissimi dei piccoli centri di collina del grossetano molti Comuni erano stati costretti a dimettersi con la forza dalle aggressioni squadriste. Era una manovra di avvicinamento dalla campagna alla città che era già stata sperimentata in altri luoghi.I documenti conservati all’Archivio Centrale dello Stato, negli archivi di Stato di Siena e Grosseto, i libri e le ricerca di storia ci possono dire alcune cose, ad esempio che la morte di Rino Daus, nato a Perugia nel 1900 e trasferitosi presto a Siena, è da collocare nel quadro della aggressione congiunta alla città di Grosseto da parte dei fascisti fiorentini guidati da Dino Perrone Compagni e Dino Castellani e dei fascisti senesi guidati da Giorgio Alberto Chiurco. Quello che salta agli occhi, nella vicenda dell’aggressione a Grosseto, è la capacità dei fascisti di – come si direbbe oggi – “fare rete”. Gli storici del fascismo hanno messo in luce come in molti casi fossero i fascisti delle città a organizzarsi per andare in provincia a compiere azioni di attacco alle sedi socialiste, alle tipografie ai giornali, sin nelle case sparse dei contadini che facevano parte delle leghe bracciantili. Grosseto fu l’obiettivo di fine giugno: il Direttorio Regionale fascista riunito a Firenze preparò l’azione col metodo già sperimentato del “camion-telefono”. In base a questa tattica paramilitare, nei luoghi che si individuavano come obiettivo venivano inviati alcuni fascisti con funzioni di provocazione: seguivano azioni “di rappresaglia” spesso guidate da militari e ufficiali in congedo, di origini diverse dal luogo dell’obiettivo in modo da rendere difficili le identificazioni dei responsabili in caso di indagini.

Il 29 giugno arrivarono a Grosseto 700 fascisti da ogni parte della Toscana, dall’Umbria e dal Lazio, armati. Fu in questo contesto che gli scontri che ne seguirono provocarono l’uccisione di Rino Daus.

Avvenne infatti che in questo contesto da stato d’assedio, alcuni uomini asserragliati sulle mura medicee fingendosi fascisti si fecero incontro agli squadristi senesi fuori Porta Nuova. Partirono quindi alcuni colpi d’arma da fuoco, uno dei quali colpì e uccise proprio Rino Daus. La diffusione della notizia dell’inganno fu l’occasione per dare seguito alla spedizione che era stata preparata: i fascisti si riversarono nella campagna circostante la città commettendo ogni sorta di violenze. Rino Daus e quei buontemponi dei suoi camerati non erano partiti da Siena per andare a Grosseto a fare una gita fuori porta. No, Rino Daus era andato a dare fuoco alla camera del lavoro e alle tipografie socialiste assieme a una banda di squadristi. E com’è che uno squadrista che aveva già partecipato ad azioni violente diventa un martire fascista? Attraverso un sistema dittatoriale che ha fatto della morte un dispositivo di autorappresentazione. Rino Daus non era un martire, era un manovale del sistema squadristico di assalto del comune socialista e democraticamente eletto di Grosseto. Dopo che la schiera di fascisti riuscì a sfondare le misere difese del popolo grossetano, in città rimasero a terra diversi cittadini, sgozzati dai sodali di Daus. Ricordare Daus è farsi complici di morti che ancora offendono la memoria civile di questo Paese.

La vicenda dell’uccisione di Rino Daus ha un epilogo se è possibile ancora più violento, ancora più amaro. Il “martire” fascista trascina dietro il suo feretro una striscia di sangue ancora più lunga, alimentata da un clima di impunità se non di malcelata collaborazione da parte delle forze dell’ordine. Leggiamo da PCSP (piccola controstoria popolare) di Alberto Prunetti ciò che avvenne un mese dopo l’assedio fascista di Grosseto, questa volta a Roccastrada, borgo reo di essere limitrofo al percorso in cui il feretro scortato dagli squadristi di Daus era stato attaccato durante il ritorno a Siena:

Il 24 luglio 1921 gli squadristi arrivano con due camion, uno sottratto dal deposito Rama, l’altro fornito da un agrario. Li guida il fascista Castellani. Saccheggiano il bar dell’anarchico Bartoletti, si ubriacano di Marsala, poi se ne vanno. È ormai buio quando, a pochi chilometri da Roccastrada, a qualcuno parte un colpo che lascia a terra lo squadrista Saletti. In seguito si ammetterà che si trattava di colpo partito dalla mano malferma di uno squadrista ubriaco, o più probabilmente di un regolamento di conti tra i fascisti. In ogni caso l’episodio è imbarazzante per i neri e per imputarlo ai sovversivi non c’è strategia migliore di simulare un agguato e di far poi ritorno in paese per comminare una rappresaglia esemplare. Gli squadristi tornano a Roccastrada e sparano, in un’orgia di sangue, a caso, per le strade. Quando se ne vanno rimangono esanimi i corpi di nove persone. Solo uno dei caduti è anarchico, il calzolaio anarchico Tacconi. Gli altri non professano idee sovversive. Circa cinquanta persone lamentano delle ferite. I carabinieri di Roccastrada non uscirono dalla caserma per tutto il giorno.

La strage di Roccastrada e le innumerevoli violenze che seguirono ad opera degli squadristi senesi-grossetani non impedirono alla memoria di Rino Daus di ascendere al cielo dei “martiri” del fascismo, che di lì a poco avrebbe finto di assediare e, non del tutto inaspettatamente, conquistare anche Roma. Possiamo solo immaginare l’angosciata rabbia dei grossetani testimoni di quei giorni che, facendo una gita a Siena nei giorni più cupi del fascismo al potere, si fossero imbattuti nel feretro dello squadrista Rino Daus in san Domenico, fra sacre reliquie e cori angelici.

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