Leggiamo la notizia sabato sera su alcuni siti israeliani. La condividiamo in privato via mail. Cercando di leggere le immagini dell’attualità in quanto accostamenti e innesti di tempi ed esperienze storiche tanto diverse quanto inseparabili e interconnesse, ci chiediamo se siamo di fronte a una montatura o a un montaggio.
Domenica la notizia viene ripresa dai giornali italiani e internazionali, che offrono maggiori informazioni, inquadrano meglio la vicenda: da gennaio 2015, ventuno richiedenti asilo sono ospitati nella regione della Ruhr presso alcuni edifici, costruiti negli anni Cinquanta, situati all’interno dell’ex campo di concentramento di Buchenwald, dove tra il 1937 e il 1945 furono uccisi 56 mila internati, di cui 11 mila ebrei.
Martedì la notizia viene almeno parzialmente smentita, ridimensionata. I rifugiati non sarebbero ospitati direttamente nel campo di sterminio ma in un ex campo di lavoro forzato annesso al campo di sterminio e situato a qualche centinaio di chilometri da Buchenwald.
Ben prima che la vicenda attirasse l’attenzione internazionale, alcuni esponenti politici locali avevano già sollevato alcune polemiche. Da parte sua, il sindaco Henry Bockelür si è difeso sostenendo che «Un edificio con quella storia può ora servire a uno scopo utile». Del resto non è certo la prima volta che gli alloggi dell’annesso aprono le loro porte, visto che «nel corso dei decenni vi hanno trovato rifugio immigrati, artisti, senza casa».
Ma che cosa ci racconta questo riuso delle strutture concentrazionarie in chiave di accoglienza per richiedenti asilo?
Che ci siano eventi storici la cui gravità ha assunto una tale portata da non poter essere accostati a nient’altro è una delle frasi più volte ripetute negli ultimi vent’anni. Attorno a questo imperativo hanno dibattuto scrittori, storici e filosofi, si sono accapigliati – e si accapigliano ancora – artisti e montatori d’immagini, di visioni e orizzonti politici opposti. Ma nonostante le interdizioni morali ed estetico-politiche, e nonostante i montaggi e le montature pericolose, l’inaccostabile continua ad accostarsi, di fatto, continuamente, al presente e nel presente.
Un accostamento non è mai una pura e semplice equivalenza di termini e non avrebbe alcun senso dire che la condizione d’asilo degli ospiti di un ex campo di lavoro forzato e gli internati del periodo nazista sono la stessa cosa. Non lo sono. Tuttavia, il sindaco e le istituzioni tedesche hanno operato un montaggio storico non di poco conto. Attraverso il riuso architettonico del campo come rifugio hanno riavvicinato le esperienze storiche di esseri umani che hanno occupato e occupano i margini della comunità politica o che da quella comunità sono stati espulsi.
Con questa maldestra rifunzionalizzazione del campo di lavoro forzato che ha fatto gridare allo scandalo, sembra che ci abbiano ricordato che lungo i margini delle comunità politiche e negli spazi di confinamento che li caratterizzano si riproduce costantemente un meccanismo di accostamento di tempi ed esperienze storiche lontane-ma-limitrofe. Un meccanismo che manda in cortocircuito i “mai più”, così come i tentativi di musealizzazione dei campi e tutti i desideri impotenti di liberarci della logica concentrazionaria senza liberarci dalle condizioni che, in potenza, la riproducono.