Un libro che fa il punto sulle problematiche in gioco quando si parla di patrimonio: concetto meno innocente di quanto possa sembrare, e che ha molto da spartire con la cultura di massa e l’industria culturale.
Il tempo rievocato. Antropologia del patrimonio e cultura di massa in Toscana (Mimesis 2014) nasce da più esperienze etnografiche maturate a Siena – di recente “scalzata” da Matera nella sua corsa a Capitale europea della cultura – e nei suoi dintorni. Luoghi che hanno dato modo a Meloni di partecipare come etnografo a operazioni legate all’archiviazione e alla salvaguardia del patrimonio culturale materiale e immateriale: in città, ha collaborato a una rassegna di cortometraggi (BarbiCORTOne) dedicata al “tempo fuori dal Palio” e realizzata dai giovani contradaioli, e a un progetto di digitalizzazione del patrimonio promosso dalla Fondazione Musei Senesi; fuori città, tramite la stessa fondazione, si occupa della realizzazione di un “ecomuseo virtuale” relativo alle aree di Chanti, Val di Merse e Val d’Elsa, e ha già collaborato con il Comune di Castelnuovo Berardenga alla creazione di un “archivio della memoria”. Esempi emblematici, questi ultimi, della crescita di interesse locale verso il “patrimonio culturale immateriale”, canonizzato nel 2003 dall’Unesco:
… le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana. [1]
Il grande merito del libro sta nell’analizzare la problematicità dei processi di patrimonializzazione e il loro rapporto con la cultura di massa attraverso l’etnografia di esempi concreti, ma con un costante raffronto con tutti i contributi teorici capaci di guidare la riflessione: non solo quelli che più strettamente si sono occupati della questione patrimoniale e del rapporto con la tradizione, come i “classici” Bausinger, Hobsbawnm, Ranger, Kirshenblatt-Gimblett, Palumbo, Clemente, Nora, ma anche quelli altrettanto classici eppure meno citati in questo campo quali Goffman, Bourdieu, De Certeau, Appadurai, De Martino.
La figura dell’antropologo, sulla scorta dell’ondata riflessiva iniziata a partire dagli anni Settanta, si delinea come attoriale e invasiva, un vero e proprio protagonista dei processi di patrimonializzazione. Per questo è necessario che egli prenda in carico la responsabilità del suo ruolo, in un mondo in cui la sua professionalità è sempre più spesso invischiata nelle politiche istituzionali di salvaguardia e promozione del territorio a fini commerciali e turistici. Destino crudele, il suo: liberatosi di recente e a fatica dall’ipoteca coloniale, lo ritroviamo goffo e imbarazzato al gran buffet della promozione turistico-patrimoniale. La novità della attuale diffusione di tecnologie digitali per l’archiviazione e la riflessione sul patrimonio, inoltre, assieme all’ipertrofia patrimoniale dettata dalle politiche appena citate, pongono, accanto alle vecchie, nuove problematicità. Così, un po’ per dare conto in modo schematico della grande complessità di nodi teorici sollevati da Il tempo rievocato, un po’ perché alla furia tassonomica dell’Unesco finiamo tutti, compresa chi scrive, per pagar dazio, ho provato a ripercorrere in dieci punti a mio avviso fondamentali il filo del discorso di Meloni:
1. Il patrimonio celebra il passato come bene inalienabile per eccellenza, ma così facendo lo adatta alle esigenze contemporanee del consumo, rendendolo fruibile dal turismo di massa: il passato, nelle logiche patrimoniali, svela la sua natura di risorsa cui attingere. Il desiderio di tornare alle origini nasce come necessità di presa di distanza dalla cultura di massa, ma è creato dall’industria culturale e dall’immaginario da essa prodotto. Il patrimonio è dunque il frutto di un’operazione di negoziazione con la modernità: l’orizzonte dal quale si pretende di isolarlo è lo stesso che lo rende necessario e possibile.
2. La rievocazione non è mai un atto neutrale: al contrario, è un modo di presentarsi, il frutto di una selezione e allo stesso tempo di una “postura del ricordante”, la messa in gioco di processi di rimemorazione. Il tempo rievocato è sottoposto a un “regime di riproducibilità” che deve tener conto di diversi fattori: l’identità in cui ci si riconosce, l’immagine di sé che si sceglie di dare, la refrattarietà temporale necessaria a un evento affinché si possa ripescarlo da un passato tanto più legittimante quanto più è lontano nel tempo (un funzionamento in atto anche nelle logiche di mercato: il famoso “since…” scritto sulle etichette dei prodotti di consumo quotidiano cos’è se non un rassicuraci sulla bontà che solo l’origine in un passato lontano può garantire?)
3. La ricostruzione di un ricordo e della sua narrazione è complessa e crea “frizioni”: conflitti, attriti, negoziazioni. Questo aspetto è acuito dalla promozione della partecipazione attiva delle comunità ai processi di tutela e valorizzazione. Alla fine, il risultato è sempre il frutto della ricomposizione di tali attriti, di una negoziazione delle spinte e delle esigenze dei vari attori sociali coinvolti nel processo.
4. Accanto al patrimonio “istituzionale” assistiamo sempre di più alla proliferazione di “piccoli patrimoni”, il cui valore non è assoluto ma personale o legato a una singola comunità: potremmo chiamarli patrimoni del quotidiano. Tra questi si possono annoverare oggetti che vanno dalle foto di famiglia alle targhe per meriti sportivi, o beni materiali il cui valore storico e artistico è altissimo per la comunità ma non universalmente riconosciuto. Ma la memoria individuale o di comunità si inscrive nel processo “fluido e condiviso” della produzione di memoria collettiva: la ricostruzione del ricordo deve trovare la propria collocazione entro una cornice narrativa condivisa, e per farlo si ritrova a correggere gli scarti che lo separano da essa. Perciò il risultato della singolarizzazione dei patrimoni, spesso, è la produzione di narrazioni che tendono a essere standardizzate.
5. Quello del “filologicamente corretto” è un falso problema, poiché non tiene conto dell’aspetto in ogni caso costruito e selezionato del patrimonio. Lo scopo di una tradizione, di una rievocazione, non è solo quello di raccontare “come sono andate le cose”. Molto di più: è quello di creare una comunità, un sentimento di appartenenza e di accordo attorno a un passato nel quale riconoscersi. L’autenticità semmai è una certificazione che sopraggiunge da parte delle istituzioni o degli studiosi di folklore, che definiscono – sulla base di criteri fluttuanti – cosa debba essere considerato autentico e cosa no, e che intreccia relazioni problematiche con le strategie di marketing che «si propongono di “vendere la tradizione” allo stesso modo in cui, solo pochi decenni fa, “vendevano la modernità”» (p. 164).
6. A questo fa da contraltare un altro falso problema, quello del folklorismo e del kitsch: non è mai possibile stabilire una distinzione netta tra il folklore autentico e quello “contaminato”. Come insegna Hermann Bausinger, il folklore è l’antitesi del reale perché è pienamente coinvolto dal processo di spettacolarizzazione innescato dal turismo di massa e dall’industria culturale. Laddove c’è un turista che si aspetta di vedere qualcosa di “autentico”, ci sarà una popolazione locale disposta a mostrarglielo. Sta all’ingenuità del turista la responsabilità di crederci o meno, e agli studiosi del patrimonio, le istituzioni e le politiche locali quella di farsi carico di tali processi. L’effetto Euro Disney è sempre in agguato. E forse, a volte, consapevolmente ricercato.
7. La patrimonializzazione non assicura la sopravvivenza culturale quanto, piuttosto, una seconda vita culturale, nuova e diversa dalla precedente, caratterizzata dall’esposizione: niente più sarà come prima, ora che gli altri ci guardano. E, rimanendo nella metafora biologica, questa seconda vita è frutto di quella che Gérard Lenclud ha chiamato “filiazione inversa”: «Non sono i padri a generare i figli, ma i figli che generano i propri padri. Non è il passato a produrre il presente, ma il presente che modella il suo passato. La tradizione è un processo di riconoscimento di paternità». [2]
8. L’istituzione da parte dell’Unesco di una definizione (e di una lista) del “patrimonio immateriale dell’umanità” aggiunge ambiguità e incertezza di confini a una nozione già paradossale come quella di “patrimonio dell’umanità”. Oltre al paradosso di essere singolare e universale allo stesso tempo, infatti, la nozione di patrimonio immateriale sconta il vizio di essere necessariamente ancorata a un supporto materiale: come separare due categorie, materiale e immateriale, che nel patrimonio e nella sua trasmissione giocano di converso? E come non tener conto dei problemi che comporta la registrazione del patrimonio immateriale in un archivio digitale?
9. Il risultato della promozione della partecipazione delle popolazioni locali alla valorizzazione del proprio patrimonio ha l’effetto paradossale di essenzializzarlo, rendendolo oggetto da difendere strenuamente contro le “invasioni” della cultura di massa, le influenze e gli scambi, le degradazioni o presunte tali. Le comunità, invece di concepire il proprio patrimonio come una possibilità di apertura e condivisione, si arroccano intorno a esso esacerbando il senso di appartenenza ed esclusività, innescando spesso una sorta di gara a “chi possiede il patrimonio migliore”, o più autentico, e una lotta aperta contro la società di massa – la stessa che lo ha reso possibile: «… se, come hanno scritto diversi autori, la tradizione è figlia della modernità, potremmo sostenere allo stesso modo che l’avversione alla società di massa è figlia delle politiche del patrimonio. […] Spesso, adeguandosi alle politiche del patrimonio – quelle ancorate all’idea di autenticità, di originario, di capolavoro – gli stessi abitanti locali finiscono con l’interpretare un ruolo che è stato scritto da altri, o che hanno imparato con il tempo e sul cui significato non riflettono più» (p. 161-162).
10. L’Unesco funziona dunque, per citare Bourdieu, come un habitus, «struttura strutturante» che diventa «struttura strutturata», «principio generatore di pratiche oggettivanti classificabili e sistema di classificazione (principium divisionis) di queste pratiche».[3] Istituzioni, enti e associazioni puntano a riprodurre a livello locale le politiche del patrimonio elaborate a livello globale. Di recente queste pratiche si avvalgono di piattaforme e applicazioni digitali il cui utilizzo testimonia ancora una volta la compenetrazione della cultura di massa in quella tradizionale.
E così, il cerchio si chiude. L’habitus patrimoniale finisce per esacerbare la contrapposizione fra cultura popolare e cultura di massa, un’opposizione il cui falso fondamento pare non essere sottolineato mai abbastanza. E l’etnografo continuerà a indicare la luna, tra le pratiche di consumo, i piccoli patrimoni e le intimità culturali, sperando che qualcuno abbia abbastanza curiosità da spingersi oltre il dito.
– Noi non siamo qui per cogliere un’immagine, ma per perpetuarla. Ogni foto rinforza l’aura. Lo capisci, Jack? Un’accumulazione di energie ignote.
Quindi ci fu un lungo silenzio. L’uomo nell’edicola continuava a vendere cartoline e diapositive.
– Trovarsi qui è una sorta di resa spirituale. Vediamo solamente quello che vedono gli altri. Le migliaia di persone che sono state qui in passato, quelle che verranno in futuro. Abbiamo acconsentito a partecipare di una percezione collettiva. Ciò dà letteralmente colore alla nostra visione. Un’esperienza religiosa, in un certo senso, come ogni forma di turismo.
Seguì un ulteriore silenzio.
– Fotografano il fotografare, – riprese.
Poi non parlò per un po’. Ascoltammo l’incessante scattare dei pulsanti degli otturatori, il fruscio delle leve di avanzamento delle pellicole.
– Come sarà stata questa stalla prima di venire fotografata? – chiese Murray. – Che aspetto avrà avuto, in che cosa sarà differita dalle altre e in che cosa sarà stata simile? Domande a cui non sappiamo rispondere perché abbiamo letto i cartelli stradali, visto la gente che faceva le sue istantanee. Non possiamo uscire dall’aura. Ne facciamo parte. Siamo qui, siamo ora.
Ne parve immensamente compiaciuto. (Don DeLillo, Rumore Bianco, traduzione di Mario Biondi, Einaudi 1999).
[1]. Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, articolo 2, Parigi 2003 (ratificata in Italia nel 2007).
[2] . Gerard Lenclud, La tradizione non è più quella di un tempo, in Oltre il folklore, a cura di Pietro Clemente e Fabio Mugnaini, Carocci 2001
[3] Pierre Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna 2001.