Riconoscere le resistenze

Pubblichiamo in anteprima un estratto da Resistenze: Pratiche e margini del conflitto nel quotidiano, Ombre Corte, Verona 2015, di Pietro Saitta.*

Per lo meno nelle intenzioni, il discorso sulle resistenze – declinate al plurale perché infiniti sono gli esempi, gli attori e le motivazioni delle pratiche di opposizione ai poteri del quotidiano – così come lo si propone qui, non risponde alle istanze di quella “volontà di sapere” che caratterizza l’operato delle scienze nell’età moderna e contemporanea. Descrivere le resistenze non ha infatti come fine quello di neutralizzarle – una funzione tipica per esempio della prima antropologia, così come in fondo di parte dell’ultima (tipicamente quella prestata ai potere militari o al marketing, specie negli Stati Uniti). Né ha l’obiettivo di partecipare anche soltanto indirettamente alla governance, riducendo gli attriti e i disagi e parlando in vece dei “senza voce” e dei “marginali”. Infatti se è vero che parlare delle resistenze significa anche restituire dignità alle azioni di coloro che subiscono la condizione di paria, riconoscendo loro una sorta di diritto alla devianza[1] nella cornice delle disuguaglianze attuali, esso è innanzitutto un contributo alla revisione di molte delle categorie adoperate dalla dottrina giuridica, dalla politica, dalle scienze sociali più “integrate” e dal senso comune per riordinare il mondo. Se è vero, come recita il celebre dictum di Foucault (2003, pp. 125-126), che “là dove c’è potere c’è resistenza” e che questa “non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere”, parlare delle resistenze ha meno a che fare con l’alterità che con il suo contrario. Significa, cioè, rivolgerci a noi stessi, alle nostre “dottrine” e ai nostri modi di definizione dell’esistente. E farlo persino quando questi modi di definizione, intimamente gerarchici e discriminatori, celano in realtà fini emancipatori.

Per chiare il senso di quest’ultima asserzione occorre notare che i primi discorsi scientifici sulle resistenze, da tenersi distinti rispetto a quelli di matrice aristocratico-borghese sulla riottosità delle classi popolari, volti a denotare perciò l’episodica indocilità di queste ultime, appaiono infatti dentro una cornice rivoluzionaria e “socialista”. Il problema che i primi teorici-militanti delle resistenze si trovavano a fronteggiare era quello della scarsa propensione al conflitto organizzato delle classi subalterne, specie in ambiente rurale (ma non solamente in questo, dacché ritroveremo la stessa preoccupazione in ambiente urbano e industriale). Le pagine pionieristiche e, probabilmente, ambivalenti di Hobsbawm (1966; 2000) sul soggetto resistenziale e quelle invece più univoche di Scott (1985; 1990) gettano luce sui meccanismi attraverso cui i subalterni “si lavorano il sistema”[2] segretamente. Come osserva Scott (1985, p. xv):

La maggior parte delle classi subordinate sono dopo tutto molto meno interessate a trasformare le più estese strutture dello Stato e del diritto che a fare ciò che Hobsbawm ha appropriatamente chiamato “lavorarsi il sistema … a proprio minimo svantaggio”. L’attività politica organizzata, anche se clandestina e rivoluzionaria, è tipicamente la riserva delle classi medie e dell’intellighentsia; ricercare le politiche contadine in quell’ambito è cercare invano. Incidentalmente, è anche il primo passo verso la conclusione che il mondo contadino è una nullità politica a meno che non sia organizzata e guidata da soggetti esterni.

“Perché non si ribellano?” è l’interrogativo che in epoche diverse ha afflitto generazioni di studiosi e militanti di diverse latitudini, a “occidente” così come a “oriente”. In questo interrogativo, diversamente formulato a seconda dei contesti e dei problemi, ma comunque fondamentalmente uguale a sé stesso, sono implicite delle assunzioni essenzialmente “classiste” e “coloniali”, oltre che antistoriche, radicate nella cultura collettiva (inclusa quella dei radicali) e fondate sull’idea che esistano individui e classi disposte più di altre ad accettare la propria condizione di subalternità e, perciò, fondamentalmente refrattarie alla libertà. Infatti nel notare che in tanti non si oppongono apertamente e congiuntamente al potere, si asserisce altresì che questi non comprendono la propria condizione e interesse, e che sono offuscati da una “falsa coscienza”: ossia da un annebbiamento dello spirito che è compito degli intellettuali e dei militanti, posti su un piano superiore di consapevolezza, diradare.

Nel valutare con sdegno l’estemporaneità delle ribellioni (considerate jacquerie o poco altro), negando che le lotte potessero condotte con mezzi non convenzionali diversi da quelli individuati e accettando il discorso sulla predatorietà di certe classi (tipicamente quelle sottoproletarie; ma anche tra i contadini di differenti provenienze furti e truffe erano comuni), questo discorso scientifico-rivoluzionario maturato nell’Ottocento e sopravvissuto molto a lungo, non solo appariva plasmato dai modelli classificatori dominanti (di matrice positivista e coloniale; si pensi a tal riguardo al successo delle teorie di Lombroso, che fu peraltro socialista), ma negava anche che potessero esistere vie alla trasformazione radicale dell’esistente che includessero classi sociali più ampie di quelle individuate dai teorici della rivoluzione proletaria. Applicando in maniera rigorosa e ortodossa le categorie marxiste e dubitando fortemente dell’opportunità di includere le componenti rurali e sottoproletarie della popolazione all’interno del proprio discorso e delle proprie prassi, per lungo tempo i teorici militanti hanno fallito sia nel proposito di estendere il consenso sia in quello di comprendere che i subalterni posti al centro del loro disprezzo erano tutt’altro che passivi.

Furti ai danni dei padroni, pratiche non cooperative, sabotaggi, menzogne, discorsi segreti e, in generale, l’impiego di quello che potremmo chiamare il “repertorio del danno”, da praticarsi preferibilmente in modo occulto e, eccezionalmente, in modo manifesto (attraverso la rivolta o la jacquerie), erano allora come in parte oggi, sia nelle campagne che nella città, le forme di opposizione politica più comuni tra i “marginali”.[3] Queste pratiche costituivano infatti l’“infrapolitico dei senza potere” (Scott 1990, p. xiii): erano cioè dei modi di opposizione alla potenza degli agrari, considerata enorme, inscalzabile e, in fondo, naturale. Una forza cioè che non poteva essere combattuta, tranne rare eccezioni e momenti, che a viso coperto e, per quanto possibile, invisibilmente.

Si tratta, come forse apparirà evidente, di un sentimento che non vacillerà veramente nel corso del tempo e delle trasformazioni politiche, sociali ed economiche. Nell’ottica radicale così come in quella politologica più istituzionale, anche dentro i regimi democratici e in presenza di prospettive di mobilità sociale e di classe superiori rispetto al passato, la relazione tra individui e potere – e non soltanto tra i membri delle classi subalterne – rimarrà infatti di relativa e sostanziale “passività”. Per quanto in tali regimi la possibilità di “farsi potere”, sperimentare forme di ascesa nei campi della politica o dell’economia, oppure di impegnarsi in movimenti e partiti, siano opzioni più o meno teoricamente praticabili per ciascun individuo, anche in essi la percezione delle asimmetrie disincentiva la partecipazione e tiene bassa la fiducia nella possibilità di potere contribuire a determinare significative trasformazioni nell’ordine sociale. Persino nel corso di stagioni storicamente caratterizzate da significative mobilitazioni di massa il problema del crumiraggio o quello di allargare la sfera del consenso e della partecipazione – percepita forse come eccessiva dai poteri, ma comunque sempre troppo bassa dai movimenti – ha assillato i soggetti rivoluzionari e anche quelli semplicemente riformisti.

Se in questa cornice la tentazione dei militanti è quella di ritenere, per l’appunto, che la gran parte delle persone non facciano politica o siano passive, il compito dell’osservatore critico dovrebbe essere quello di indicare che esse la fanno quotidianamente, difendendo le proprie posizioni, opponendosi individualmente a quelli che percepiscono come soprusi amministrativi, cercando alleati influenti, costituendo reti, aggirando il fisco, tentando di neutralizzare le pressioni sperimentate negli ambienti di lavoro, in quelli familiari e nelle relazioni di genere; oppure impiegando gli interstizi del diritto e delle politiche pubbliche per trarre piccoli benefici e adoperando un’infinità di “tattiche” atte a contrastare le “strategie” dei poteri e mitigare la varietà dei disagi esperiti.

E vale proprio qui la pena di precisare che, nella prospettiva influente di De Certeau (2001, p. 71), il termine “strategia” denota il calcolo dei rapporti di forza resi possibili nel momento in cui un soggetto dotato di una propria volontà e di un proprio potere si isola in un “ambiente” che, pure condizionato dall’altro, è almeno temporaneamente irraggiungibile da questi. La strategia, insomma, presuppone un luogo che possa essere circoscritto come proprio e fungere, dunque, da base a una gestione dei rapporti con un’esteriorità distinta. Mentre col concetto di “tattica” – per noi forse più interessante – si intende quel calcolo privo di un luogo proprio, di una visione globalizzante, “cieca e perspicace come lo si è nei corpo a corpo senza distanza […] La tattica è determinata dall’assenza di potere così come la strategia è organizzata dal postulato di un potere” (De Certeau 2001, p. 74). Inoltre la tattica:

deve pertanto giocare sul terreno che le è imposto così come lo organizza la legge di una forza estranea […] è movimento “all’interno del campo visivo del nemico” […] Si sviluppa di mossa in mossa. Approfitta delle “occasioni” dalle quali dipende, senza alcuna base da cui accumulare vantaggi, espandere il proprio spazio e prevedere sortite. Non riesce a tesaurizzare i suoi guadagni […] È insomma astuzia, un’arte del più debole.

(De Certeau 2001, p. 73)

Note

* L’estratto qui pubblicato corrisponde al Cap I, par II

[1] Intendo questo concetto, per alcuni potenzialmente problematico, alla maniera di Mezzadra (2006, p. 11), che, con la sua nozione di “diritto di fuga”, indica nell’ambito delle migrazioni le istanze contenute in “un insieme di comportamenti sociali, che tendono spesso a esprimersi nella forma di una rivendicazione ‘di diritti’ ma che eccedono strutturalmente il linguaggio e la grammatica del diritto”.

[2] Appare significativo che anche Goffman (1968) impieghi la stessa espressione di Hobsbawm (working the system) per riferirsi alle interazioni strategiche che gli individui, incluse figure subalterne come gli internati psichiatrici, mettono in atto per ridurre le asimmetrie esperite sul “palcoscenico” dell’azione sociale. Per inciso, la cornice drammaturgica dell’interazionismo simbolico appare profondamente intrecciata con i temi della resistenza, anche se gli antropologi e gli storici preferiscono certamente impiegare altre categorie per descrivere azioni e intrecci resistenziali registrati nel campo.

[3] In realtà il mondo rurale europeo ha conosciuto decine di movimenti, più o meno organizzati e visibili, ispirati a una molteplicità di utopie, a sfondo politico, di tipo messianico-religioso e criminale-redistributivo (il banditismo – ma forse sarebbe meglio dire i banditismi, considerato che molti paesi al di qui e al di là dell’Atlantico sono stati interessati dal fenomeno – ne è l’esempio più evidente). Si veda Hobsbawm (1966) per una controversa disamina di alcuni di questi movimenti.

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