Pubblichiamo in anteprima web alcuni estratti dall’introduzione e dal primo capitolo di Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti locali, curato da Rocco Sciarrone per l’editore Donzelli. Il volume è il frutto di un lavoro promosso dalla Fondazione RES di Palermo e condotto da tredici ricercatori in diverse aree del centro e del nord Italia.
Il fenomeno mafioso si è sviluppato storicamente in aree circoscritte del Mezzogiorno: la Sicilia occidentale per quanto riguarda Cosa nostra, la Calabria meridionale in relazione alla ’ndrangheta, il Napoletano con riferimento alla camorra. Sin dall’inizio, i gruppi criminali più strutturati rivelano la capacità di impegnarsi in attività sovralocali e, ben presto, anche in traffici di lunga distanza. A parte il caso emblematico di Cosa nostra americana[1], processi di vera e propria espansione territoriale – che danno luogo a insediamenti stabili – si verificano però soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, quando il raggio d’azione delle mafie si estende sia in zone contigue a quelle originarie sia in zone distanti, in altri paesi e nelle regioni del Centro e Nord Italia.
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La capacità di accumulare e impiegare capitale sociale, ovvero di manipolare e utilizzare relazioni sociali, costituisce – insieme all’uso specializzato della violenza – il principale punto di forza delle mafie[2].Combinando legami forti, che assicurano lealtà e senso di appartenenza, con legami deboli, vale a dire laschi, flessibili e aperti verso soggetti esterni all’organizzazione, i mafiosi possono contare su un ampio ed eterogeneo serbatoio di risorse relazionali, grazie al quale sono in grado di riprodurre la loro rete criminale nei contesti di radicamento originario e di estenderla in nuovi territori.
Osservare l’espansione delle mafie in aree non tradizionali è dunque, da un lato, rilevante in sé, poiché permette di ricomporre e interpretare il quadro emerso dalle recenti indagini giudiziarie, che hanno portato alla luce la presenza di gruppi mafiosi insediati in zone sempre più vaste del Centro e Nord Italia. D’altro lato, costituisce un ambito privilegiato per l’analisi di alcuni meccanismi attraverso cui le mafie si riproducono, nelle aree non tradizionali come in quelle di genesi storica.
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Molte interpretazioni dei processi di diffusione delle mafie fanno riferimento – direttamente o indirettamente – a un modello analitico che chiama in causa fattori di attrazione e di espulsione, ovvero opportunità favorevoli che attirano i gruppi criminali in un nuovo contesto oppure condizioni difficili che li spingono ad abbandonare quello di origine. La distinzione, pur efficace sul piano descrittivo, rischia di offrire una visione idraulica dei processi di diffusione, come del resto accade a tutte le spiegazioni che si limitano a evidenziare in modo meccanicistico le dinamiche push-pull.
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Tra Sud e Nord si stabiliscono rapporti di interdipendenza: non sono all’opera dispositivi di invasione, bensì meccanismi circolari di retroazione. Quanto accade nelle aree di nuova espansione ha spesso ricadute assai rilevanti su quelle di origine: in genere gli effetti sono combinati e reciproci, ma non mancano casi in cui gli assetti dei gruppi criminali si decidono più nelle prime che non nelle seconde.
Nel dibattito pubblico la diffusione territoriale delle mafie è frequentemente indicata tra le cause della crescita dell’illegalità nelle regioni del Centro-nord. In realtà, l’espansione mafiosa è di norma connessa a una situazione preesistente di «sregolazione»[3]. Questo tipo di criminalità è infatti complementare all’esistenza di fenomeni di corruzione e a pratiche diffuse di illegalità, ovvero alle esigenze dei tanti e variegati soggetti che sono portatori di interessi particolari e si muovono con disinvoltura nell’area grigia delle complicità trasversali. Le mafie sono accolte in questo spazio in cui si costruiscono e si rafforzano rapporti collusivi in campo economico e politico, mettendo a sistema l’appropriazione particolaristica di risorse collettive.
Da questo punto di vista, partecipano a pieno titolo «alla formazione e all’utilizzo di reti che si sviluppano lungo la strada di quello che Weber chiamava “capitalismo politico”, cioè di avventura, di rapina, di uso predatorio delle risorse politiche»[4]. È questa una situazione che forse si è aggravata nell’ultimo periodo.
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La situazione rilevata nella sfera economica trova una sua corrispondenza in quella politica, dove si assiste alla «pervasività crescente del denaro», che «finisce per mutare nella sostanza il meccanismo stesso della rappresentanza, le sue logiche e i suoi codici»[5], provocando una «privatizzazione» delle funzioni politiche e favorendo orientamenti finalizzati a massimizzare il consenso in un orizzonte temporale di breve termine. Non è quindi casuale che i servizi della mafia possano essere considerati appetibili anche in questo ambito, soprattutto in quelle circostanze in cui la politica «deve comprarsi quanto non sa più (e non può più) produrre da sé, a cominciare dalla fiducia degli elettori»[6]. I mafiosi trovano così spazio nei processi di finanziarizzazione dei circuiti del sostegno elettorale, come rivelano i casi di scambio politico-mafioso emersi ancora una volta in Lombardia, ma anche in Piemonte e Liguria. Indipendentemente dalla loro effettiva capacità di controllo del voto, i mafiosi sono ricercati dai politici per svolgere funzioni di intermediazione rispetto a clientele e gruppi di elettori, o più in generale come referenti di presunti bacini di consenso nel territorio.
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Il tema della presenza delle mafie in aree non tradizionali è rilevante non solo per comprendere come queste organizzazioni criminali si spostano e agiscono all’esterno dei territori di origine, ma anche per esaminare aspetti relativi alla natura e ai tratti distintivi del fenomeno. In particolare chiama in causa due ordini di problemi tra loro collegati: da un lato, i processi di riproduzione delle mafie, dall’altro, il loro ri-conoscimento. Indagare come le mafie si riproducono nel tempo e nello spazio richiede infatti di affrontare anche la questione relativa a «che cos’è la mafia», ovvero individuare (e, appunto, riconoscere) i confini che la definiscono, tenendo conto della specificità e della variabilità dei contesti in cui è presente.
D’altra parte, il «profilo» delle mafie è costituito da una trama irregolare, i cui intrecci principali sono dati dalle definizioni e rappresentazioni che si sono sedimentate nel corso del tempo, prodotte e veicolate in diversi ambiti del dibattito pubblico e politico, più specificamente tra la comunità degli studiosi e, ancor più in dettaglio, in sede giuridica e soprattutto giudiziaria. Bisogna peraltro tenere presente che il fenomeno della mafia prende forma e si trasforma insieme a quello dell’antimafia, non solo nelle aree di genesi storica ma anche in quelle di più recente insediamento.
Studiare i processi di espansione territoriale ha dunque una valenza più generale, in quanto consente di analizzare modalità di azione, di funzionamento e di organizzazione delle mafie, e al tempo stesso se e come il problema è stato rappresentato, riconosciuto e affrontato.
Come si diceva, il tema dell’espansione mafiosa sollecita anche interrogativi riguardanti la natura del fenomeno: chiedersi quindi chi sono i mafiosi o come si diventa mafiosi, ma anche come mafia e mafiosi sono percepiti e valutati dall’esterno. In altri termini, per il nostro oggetto di analisi è rilevante sia come la mafia si costituisce e come stabilisce criteri di distinzione per chi entra a farvi parte, sia come essa viene definita e individuata da chi non vi appartiene, secondo modalità assai diverse tra chi in qualche modo la sostiene e chi invece la contrasta.
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Ricorrendo al linguaggio delle scienze sociali, potremmo dire che in gran parte delle interpretazioni correnti la mafia è considerata sempre una «variabile indipendente», cosicché si corre il rischio di proporre spiegazioni tautologiche (l’obiettivo è spiegare la mafia, ma alla fine si ritiene che sia la mafia a spiegare tutto). Si tratta di un vizio di fondo che caratterizza questo campo di studi: il fatto di considerare la mafia prevalentemente come un explanans, una variabile in grado di spiegare qualche altro fenomeno, piuttosto che un explanandum di cui analizzare logiche e meccanismi specifici.
Note
[1] Il caso di Cosa nostra americana va interpretato come esito di un processo di ibridazione tra vecchio e nuovo continente: strategie di azione e modelli organizzativi si diffondono infatti dalla Sicilia all’America, si adattano al nuovo contesto, e così trasformati ritornano nei luoghi di origine. Cfr. S. Lupo, Quando la mafia trovò l’America, Einaudi, Torino 2008. In questo processo si incrociano e si sovrappongono, da una sponda all’altra, traiettorie di carriere criminali e reti di traffici leciti e illeciti.
[2] R. Sciarrone, Mafie vecchie mafie nuove. Radicamento ed espansione, Donzelli, Roma 2009.
[3] Cfr. C. Donolo, Disordine. L’economia criminale e le strategie della sfiducia , Donzelli, Roma 2001.
[4] C. Trigilia, Sviluppo locale. Un progetto per l’Italia, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 44.
[5] M. Revelli, Finale di partito, Einaudi, Torino 2013, p. 87.
[6] Ibidem, p. 85.