Wittgenstein, il metodo e la ricerca.
1. Ouverture
Nella storia della filosofia contemporanea, Ludwig Wittgenstein è l’autore che oppone la maggiore resistenza a qualsiasi schematizzazione del proprio pensiero. Fra sintassi e semantica, fra grammatica e logica, fra dire ed esprimere, fra teoresi e pedagogia, la sua provocazione vive ancora, adombrata o rimossa: ci sono filosofi ma non ci sono problemi filosofici.
Nato a Vienna nell’aprile 1889, morto a Cambridge poco dopo il sessantaduesimo compleanno, la parte più voluminosa della sua opera è costituita da manoscritti e dattiloscritti. Un modo di fare filosofia con Wittgenstein è accompagnare questa parte sommersa della sua filosofia del linguaggio e vedere che cosa di veramente innovativo abbia da offrire alle discipline con «vocazione scientifica».1 Un altro modo invece è quello di attribuirgli la forma mentis contemporanea di pensatore errante fra le componenti naturali e le componenti sociali del mondo: in questo caso, purtroppo il più frequente presso gli interpreti italiani contemporanei, Wittgenstein avrebbe da offrire solo malintesi ed esempi confusi. Hanno ragione?
Fra le vittime più celebri della guerra civile che separa in due schieramenti opposti il regno dello scibile, Wittgenstein occupa un posto particolare, quello di Elena di Troia e dell’arciduca Francesco Ferdinando nelle guerre a cui questi nomi vengono rispettivamente associati. A metà tra casus belli e capro espiatorio, la sua filosofia è un mutilato di guerra che prova dolore ai suoi arti fantasma: un “primo Wittgenstein” a cui manca la propria seconda parte, e viceversa, un “secondo Wittgenstein” a cui manca la prima parte. In ogni fase iniziale, il filosofo apparirebbe dotato di protesi di legno e di metallo. In ogni fase successiva, egli semplicemente scambierebbe di posizione gli apparati ortopedici.
2. Suite
“Scienze naturali più dure, scienze sociali più liquide”: non si vuole forse attribuire alla conoscenza scientifica qualcosa che semanticamente riguarda più coloro che soggiornano regolarmente nel regno dello scibile? “Gli scienziati più duri si applichino nello studio della natura, gli scienziati più liquidi invece nello studio della società”: ora che due maniere di studio si sono galvanizzate sui rispettivi oggetti, è più facile immaginare il campo di battaglia, i fuochi in mezzo ai quali Wittgenstein perse una fase e rimase mutilato. Il darsi di una conflittualità fra le due culture, l’opposizione fra l’epochè degli scienziati duri e l’epochè degli scienziati liquidi, queste sono in ultima istanza i motivi per cui l’habitus di immaginare lo spartiacque fra primo e secondo Wittgenstein vive fino a oggi.
Certamente, si potrebbe modificare ancora la forma della dichiarazione della “guerra civile” culturale: “gli scienziati caratterizzino la natura come dura e la società come liquida”. Ne seguirà che le scienze da essi prodotte saranno dure o liquide, le conoscenze che metteranno in circolazione riguarderanno oggetti naturali o culturali, i quali compongono il mondo. A mo’ di corollario dunque, un primo Wittgenstein concentrato su oggetti naturali si distinguerebbe da un secondo Wittgenstein concentrato su oggetti sociali, o viceversa, un primo Wittgenstein concentrato su oggetti sociali si distinguerebbe da un secondo Wittgenstein concentrato su oggetti naturali. Eppure, potrebbe obiettarsi che una tale divisione per oggetti del regno dello scibile sia da sempre stata estranea al filosofo; forse, non possiamo che esprimerci tramite malintesi ed esempi confusi, o forse il linguaggio non è fatto per tenere ben distinti i due tipi di oggetto, a prescindere delle nostre specifiche formae mentis.
Due metodi, uno per gli oggetti naturali e un altro per quelli sociali, non sono un problema, finché non si voglia definire quale dei due sia il Metodo, finché non si voglia asserire tassativamente quale gruppo di oggetti sia riducibile all’altro. Due metodi, insomma, sono un problema se i rispettivi portastendardo insistono in una condotta bellica, provando a fare di ogni mancato incontro fra i due metodi una lotta per il Metodo. Sul mondo possono esprimersi un sonetto e un sistema di equazioni: la lotta ci costringe a individuare due formae mentis distinte, una per la “durezza” delle componenti naturali del mondo, un’altra per la “liquidità” delle componenti sociali nel mondo. Ma la cognizione della durezza e della liquidità precede qualsiasi formalizzazione, poiché la presunta epochè si deve fare a partire da qualche istanza non-formale. La durezza sono le Leggi, le quali garantiscono l’effettività del Metodo. Oppure, la liquidità è la Libertà, la quale garantisce la buona volontà del Metodo.
3. Fuga
Riduzione. Pensare vuol dire giudicare, ma giudicare vuol dire ridurre, ne segue che pensare vuol dire ridurre. Spesso i responsabili (non gli esecutori materiali) della mutilazione di Wittgenstein hanno messo l’enfasi su quelle zone dei suoi scritti inediti in cui si parla di ripensamenti, di errori, di mancata comprensione: per forza di cose, alcune fra le più cruciali osservazioni di questo tipo riguardano il Tractatus logico-philosophicus (1921), l’unico libro pubblicato in vita. La partizione fra “primo” e “secondo” si riduce allora alle osservazioni di questo tipo: per citare E. Severino, l’errore è consistito nella «pretesa di elaborare il linguaggio perfetto, laddove [l’atteggiamento metodologico] esige soltanto l’indicazione del linguaggio entro cui ci si muove».2 Se il linguaggio perfetto parla di oggetti naturali, allora il metodo cerca di naturalizzare ciò che è sociale; viceversa, se il linguaggio perfetto parla di oggetti sociali, allora il metodo cerca di socializzare la natura. Naturalizzare e socializzare sono esempi di riduzione del non-formale al formale, mutilare Wittgenstein equivale ad affermare che la differenza fra formale e non-formale era una variabile fuori controllo nelle sue concettualizzazioni. Ma nulla di simile può concludersi dalla lettura del Tractatus.
Ovvero: Wittgenstein prima voleva risolvere tutti i problemi della filosofia, in un secondo momento voleva spiegare cosa andava male in quell’unico tentativo; egli prima scriveva, dopo spiegava; prima elaborava sugli oggetti naturali e poi scopriva le applicazioni sociali; prima commentava gli oggetti sociali e poi li metteva davanti a istanze naturali. Si può fare scuola di pensiero a partire da tutte queste preposizioni temporali e avversative, però si tratterà evidentemente della Scuola di pensiero, accreditata per formare menti, nella quale avviene una trasmissione coordinata di significati da maestri a discepoli. Infatti, così è sopravvissuto l’habitus: da G.E.M. Anscombe in poi, fa Scuola affermare che la pubblicazione delle Ricerche filosofiche (1953) sancisce questa uscita dal presunto sonno dogmatico della prima fase verso la crisi della seconda fase. Gli allievi stessi di Wittgenstein hanno promosso questa chiave di lettura, il metodo consisterebbe in riconoscere questo tipo di sfasamento fra le considerazioni del “primo” e le rassegnazioni del “secondo”. Ridurre allora è gestire una crisi salvando i dogmi? Il mondo del mutilato è un mondo ridotto?
Il metodo parla rivolto a ciò che sta fuori dal regno dello scibile, o meglio, il metodo è un effetto della spiegazione, scientifica e ostensiva. Il problema è «che scambiamo questo uscire dal segno scritto per un’applicazione del linguaggio, magari per una descrizione di ciò che vediamo»,3 fiduciosi dell’equilibrio che il Metodo ha stabilito fra aspetti formali e aspetti non formali del mondo. Non si dà però in Wittgenstein una minorazione di ciò che è al di fuori di un qualsiasi regno dello scibile: ammettere lo sbaglio non equivale a confessare una colpa. Wittgenstein del resto lo sapeva benissimo, non si può mai dire esattamente quello che si vuole esprimere, deve esserci la possibilità di sbagliare senza che essa implichi l’esistenza di un vero e proprio problema. È stata proprio la ricerca di un problema filosofico in Wittgenstein, per salvarlo dall’immagine di un filosofo monco e zoppo senza problemi filosofici, che ci ha restituito il volume più grande dei suoi scritti, ma questa stessa ricerca fa emergere la provocazione di Wittgenstein con ancora più forza. Cosa è veramente problematico? La natura e la politica in quanto oggetti di una filosofia, o sono solo i filosofi a importunarci con i loro oggetti naturali e sociali.
[L’autore ringrazia Gianluca De Fazio e Anna Ilenia Ciullo, per l’educazione filosofica].