Ribolla, 4 maggio ore 8.15

Chi da Siena scende in autobus verso la Maremma grossetana oppure sale in Val di Cornia, attraversa Ribolla. Dalla Strada Provinciale Collacchia, che collega lo svincolo per Montemassi a Potassa, il mezzo fa una curva a sinistra ed entra in paese. La fermata obbligata è di fronte a un complesso monumentale composto da diverse figure; sale qualche adolescente con YouTube senza cuffie, senza biglietto. Tenendo la destra si riprende la strada principale, verso Bagno di Gavorrano, Puntone, Follonica e, se qualcuno vuole proseguire la corsa, Piombino, alle porte dell’Elba.

Oggi è il 4 maggio 2014 e le tratte degli autobus Tiemme mi sembrano modellate all’insegna di un “viaggio della memoria”. Quella dell’attività mineraria nella Toscana meridionale del Novecento. Ma la memoria ha una storia che si annoda al presente e quelle strade ferrate o sterrate che collegavano i siti minerari e gli stabilimenti di raffinamento tra il grossetano e il livornese descrivono anche i tentavi degli ultimi decenni di rifunzionalizzare il territorio in campo industriale e turistico, lungo la costa.

Sessant’anni fa, alle otto e un quarto del mattino, un’esplosione di grisù nella sezione “Camorra” della miniera di lignite di Ribolla provocava la morte di quarantatré persone. Le condizioni di lavoro nella miniera della Montecatini, da tempo destinata alla chiusura, non rispettavano i parametri di sicurezza per i lavoratori. Il processo si sarebbe concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati; la strage sarebbe stata archiviata come fatalità.

Di quelle ore di emergenza, di quei giorni di rabbia e di lutto restano le parole di Luciano Bianciardi, il senso di smarrimento, l’impressione che sia tutto perduto: «Sono arrivato a Ribolla la mattina del 4 maggio, alle undici […] Per le strade si aggira una folla stordita, che si muove incerta qua e là, muta, senza saper che fare, dove andare»[1].

Dopo la strage di Ribolla, Bianciardi non sarà più lo stesso: «la cerimonia si scioglie: le bare partono con i furgoni, seguiti dalle auto piene di donne vestite di nero. La gente se ne va, in una grande confusione di grida, clakson, motori. Mi trovo solo a girare per le strade polverose, e non riesco a credere che sia proprio tutto finito, e che non ci sia niente da fare»[2].

Aveva messo su il “Bibliobus” che partiva dalla Biblioteca Chelliana di Grosseto per raggiungere i paesi dell’entroterra; era stato un sacco di volte da quelle parti a parlare di pallone, di letteratura, di cinema e di tutt’altro coi minatori, come se non ci fosse altro modo che quello per fare il lavoro culturale o come si chiama. Lo scoppio di Ribolla avrebbe aperto la strada di Milano, la vita agra, il progetto di far esplodere “il Torracchione” dove aveva sede la Montecatini, l’integrazione, la grappa gialla, il mito del Risorgimento come archetipo di resistenza.

Ma intanto, il 4 maggio 1954 annotava che «Quando suona il campanello dell’arganista il silenzio si fa ancora più grave, perché vuol dire che arriva la gabbia. La gabbia, affiorando, sferraglia contro le guide di acciaio e si blocca: ne scende un ragazzo, pallido in volto pur sotto la maschera di polvere nera, qualcuno gli si fa incontro, vuole sapere cosa succede laggiù, ma la guardia della Montecatini lo afferra sotto il braccio e lo trascina, barcollante, dentro la cabina dell’arganista, e grida: “Via, Via!”. Ma la voce si è già sparsa, arrivano tre corpi. Gli infermieri si avvicinano alla bocca del pozzo brandendo tre coperte di tipo militare, il medico dà ordini a bassa voce»[3].

Quarantatrè morti a Ribolla e lo smarrimento generale, l’“ira e le lacrime”. Il lutto, la chiusura della miniera, la perdita del lavoro, l’identità sospesa.

 

Chi sale sull’autobus a Ribolla dà le spalle al monumento “per il minatore italiano” che rende omaggio alle vittime di questa esplosione come a quelle di Morgnano, di Cave del Predil, delle solfare siciliane… Forse chi è diretto a Siena o Follonica, a Grosseto o Piombino non sa di cosa si tratta: suscita ormai poco interesse quest’insieme di figure di bronzo in mezzo a palazzi che sembrano fuori misura per un paese di duemila abitanti.

Forse, al contrario, chi sale sull’autobus lo sa bene di cosa si tratta, in una trama di discorsi familiari e istituzionali, mezze parole che ancora additano un vuoto vecchio di sessant’anni e suscitano il rifiuto, le scorciatoie dell’evasione.

 

Io non lo sapevo che il monumento di Ribolla davanti al quale passo davanti da diversi anni è stato realizzato nel 1984 da Vittorio Basaglia, autore della scultura di Marco Cavallo, il grande animale azzurro che nel 1973 ruppe i muri del manicomio di San Giovanni di Trieste, diventando il simbolo di una rivoluzione in ambito psichiatrico e politico.

Mi ero sempre domandato per quale motivo il monumento al minatore italiano, l’omaggio più esplicito ai morti sul lavoro di tutta la zona delle Colline metallifere, adottasse un impianto iconografico e passionale orientato alla rappresentazione di un lavoro triste, a capo chino − identificabile nella sua durezza come forma di redenzione −, e alla pietà per le vittime. Per quale motivo il campo di tensioni sociali e politiche restituite dalla cronaca bianciardiana e dall’intera produzione letteraria dello scrittore grossetano tendono a scomparire nella rappresentazione plastica monumentale?

«Quando torno in paese – scriveva Bianciardi – si è scatenata l’onda del terrore, e le donne son scese in strada, così come si trovavano, con quattro stracci addosso: urlano davanti alla saracinesca abbassata del garage, dove trasportano i cadaveri, man mano che li trovano. Due poliziotti, a tratti, alzano quanto basta perché entri un uomo, una barella: Un vecchio cammina avanti e indietro gridando solo una bestemmia, sempre quella»[4].

«Quanti modi di piangere a Ribolla!», esclamava poco oltre nel medesimo articolo. Ma dov’è finita l’eterogeneità passionale del lutto, dove sono i gesti di resistenza e di lotta dei mesi precedenti al disastro,  i sorrisi dei minatori che escono dal turno o all’arrivo del “Bibliobus”, la rabbia di un uomo che parte per Milano con la testa piena di tritolo? Si tratta di domande retoriche e di mancanze che non possono di certo essere imputate all’autore del monumento ai minatori al quale danno le spalle quelli che salgono sull’autobus a Ribolla.

Come immaginare, del resto, un “monumento alla rabbia” e con quali risultati politici?

 

Dieci anni fa, per il cinquantenario della tragedia, le amministrazioni avevano molto investito in termini economici e organizzativi, favorendo la pubblicazione di importanti ricerche storiche[5] e articolando narrazioni sul territorio all’insegna della parola chiave “memoria”.

Per i sessant’anni nessun evento “spettacolare”; neppure Cristicchi s’intravede all’orizzonte.  L’importanza del ricordo assume forme misurate ma resta presente nell’agenda del Comune di Roccastrada con cortei verso il monumento di Basaglia nel centro del paese e verso quello realizzato da Emilio Trabella nei pressi del pozzo “Camorra”, oggi proprietà Zonin. Contemporaneamente, tra aprile e maggio, la tradizione contadina della poesia d’improvvisazione in ottava rima s’intreccia alla commemorazione della strage; ne ha parlato Alberto Prunetti in un bell’articolo su “la Repubblica”, qualche giorno fa.

Forse è la crisi che sottrae la memoria ai rischi della retorica. O forse è che il tema del lavoro si è imposto, come una minaccia, nella cronaca, nel quotidiano di migliaia di persone a pochi chilometri da Ribolla, lungo quelle stesse tratte coperte dall’azienda di autotrasporti Tiemme.

Nei giorni scorsi ho pensato all’anniversario rileggendo le pagine di disperazione di Bianciardi e osservando le sculture prive di pianto ma dai volti in cui tutto piange di Vittorio Basaglia. Sessant’anni di pura distanza: il bianco e nero e il fustagno, il combustibile fossile, gli oggetti e i mestieri desueti. Una distanza che d’improvviso si accorcia osservando nelle forme del lavoro odierno la persistenza di dinamiche di sfruttamento e precarietà che minano ogni possibile “sicurezza”. La consapevolezza che né ieri né oggi il rischio è un mestiere, comunque troppo caro per qualsiasi padrone, per qualsiasi filantropo del giorno dopo.

La storia della memoria finisce continuamente ogni trenta secondi e impone di mantenere a lavoro la forza della denuncia e il sentimento della pietà, nell’emergenza del presente. C’è una politicità delle passioni che si esprime per mezzo di testimonianze giornalistiche e letterarie, pittoriche e scultoree; mantiene viva la memoria dell’evento e allo stesso tempo travalica le sue contingenze. In questo senso ci riguarda.

Eppure, detto questo seriosamente, mi pare che manchi ancora qualcosa. Ciò che trasforma la gioia in politica e viceversa. Il piacere di dare vita a nuove passioni; condividere e progettare un mondo senza “emergenze”, indifferentemente nei giorni feriali e festivi non solo a ridosso del ricordo traumatico.

Il Bibliobus di Bianciardi che si ferma di fronte al monumento e fa rinascere l’urgenza di discutere di oggi e di ieri, importa idee tra un paese e l’altro, contamina soluzioni ai problemi, innesta bestemmie.

Marco Cavallo, non tanto arrabbiato ma imbizzarrito, che fa sbalzare di sella Guidoriccio da Fogliano lungo la Strada Provinciale Collacchia, giusto all’altezza dello svincolo di Montemassi.

Si ringrazia Giuliano Franchi per le fotografie del Monumento per il minatore italiano.

Note

[1] Luciano Bianciardi, Ira e lacrime a Ribolla, “Il Contemporaneo”, 15 maggio 1954, ora in Luciano Bianciardi, L’antimeridiano. Opere complete. Volume secondo, a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Coppola, Alberto Piccinini, Isbn – ExCogita, Milano 2005, p. 676.

[2] Ivi, p. 680.

[3] Ivi, p. 678.

[4] Ivi, p. 679.

[5] Si ricorda in particolare il volume a cura di Matteo Fiorani e Ivano Tognarini, Ribolla. Una miniera, una comunità nel XX secolo: la storia e la tragedia, Atti del Convegno nazionale di Studi svoltosi a Ribolla il 5 e 6 giugno 2004, Polistampa, Firenze 2004.

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