Una recensione a Resistenze. Pratiche e margini del conflitto nel quotidiano di Pietro Saitta, ombre corte 2015.
In un tempo in cui la figura dell’intellettuale si riduce a fornire opinioni senza pensiero nella giungla del dibattito pubblico e quella dell’accademico si trova costretta a seguire i rigidi dettami di una scienza sociale sempre più succube dell’astrattismo quantitativo e delle regole messe in atto dai dispositivi di valutazione, ha ancora senso provare a scrivere testi sociologici in grado di dire del mondo parlando al mondo? La risposta è sempre positiva quando si sceglie lo “stile” giusto e soprattutto quando si trasforma il sapere sociologico in sapere vivo, incarnato, posizionato, senza mai cadere nella trappola del lessico giornalistico o, al contrario, nella trappola di una parola “muta” al di là dei confini della comunità accademica. E diventa doppiamente positiva quando quello stesso “stile” anziché collocarsi dall’esterno per descrivere “oggettivamente” un fatto sociale, si posiziona al suo interno, praticando la scrittura del “partire da sé” che nel lessico sociologico si traduce con “auto-etnografia”, con una postura che getta continuamente ponti tra il sapere dell’esperienza e l’epistemologia: in altre parole quando la stessa sociologia viene vissuta come una pratica di resistenza messa in atto contro le due trappole e la dicotomia accennate sopra. E’ infatti questo l’esercizio che Pietro Saitta, sociologo presso l’Università di Messina, cerca di fare dalla prima all’ultima pagina di Resistenze. Pratiche e margini del conflitto nel quotidiano, un libro agile e densissimo che sposta, con estrema eleganza, tutti i luoghi comuni della stessa nozione di “resistenza”.
Attraverso un innesto teorico di base tra Bourdieu e Foucault, gli studi etnografici e la sociologia della devianza nella sua variabile più feconda, ovvero la criminologia critica inaugurata in Italia e in Europa da Alessandro Baratta, Pietro Saitta, fin dalle prime pagine del volume, disvela le sue mosse e le sue scelte di campo interpretativoe metodologico: la nozione di resistenza non è solo annoverabile all’interno dei gruppi organizzati come i partigiani o i vari movimenti di liberazione, ma è pensabile anche nelle sue forme “individuali, quotidiane, estemporanee o sistematiche” attraverso cui, ogni giorno, gli attori sociali provano ad aggirare o ad evadere il soggiogamento del potere, restando al margine, al lato, nel campo dell’invisibile; la resistenza non come un “restare fermi”, ma come un processo, un “andare avanti”; le resistenze, al plurale, intese come pratiche di contro-discorsi quotidiani, come micro-conflitti e come potenziale sempre aperto, come via attraverso cui liberare il potenziale del proprio desiderio. Il quadro di insieme è dato dal neoliberismo e dalla sua straordinaria capacità di produrre soggetti già antropologicamente intrisi del suo nettare onnipervasivo e da quella “inclusione subordinata” in grado di rispondere solo alle leggi del mercato. Le variabili che invece usa l’autore per spiegare – peraltro attraverso un’enorme ricchezza di esempi e casi – le varie posture resistenziali nelle società vecchie e nuove sono interessanti perché comprendono ogni aspetto della vita quotidiana, al di là della militanza e dei suoi ordini discorsivi.
Esse, ad esempio, possono essere rintracciabili anche nel portato affettivo, emozionale e sentimentale, così come sono sempre situate, posizionate, all’interno e all’esterno di uno spazio che può andare dalla famiglia alla scuola, dal proprio luogo di lavoro alla strada, da una contrada rurale ad una banlieueì, da una città media ad una grande metropoli. Saitta attinge molto, a differenza di molti altri nostri colleghi, dagli studi femministi e antropologici per dimostrare quanto, di fatto, la funzione del corpo emotivo ed affettivo, anche isterico volendo, stia già lì e da secoli, a dirci come possa essere possibile resistere a un ordine dato attraverso micro procedure di risignificazione e di evasione in grado di scombinare i piani nel quotidiano; così come sta lì, aggiungo io, a ridisegnare – a partire dalla messa in parola dell’esperienza – gli ordini discorsivi e i piani dell’epistème fondativa delle scienza umane e sociali.
Ma non è solo il corpo in sé a dimostrarci quanto possano non tornare i conti del potere, c’è anche il ruolo, lo status, l’habitus. Nella parte centrale del volume, ad esempio, Saitta si sofferma sul rapporto che intercorre tra le forme di resistenza dei subalterni e l’apparato di inclusione subordinata che spetta loro, quasi in automatico, all’interno delle cosiddette “economie informali”. Anche qui il suo è un gesto “s-combinante”. L’autore, infatti, dice subito che occorre togliersi dalla contrapposizione tra universi criminali ed economie legali perché la dicotomia in sé, oltre a nascondere il potenziale criminogeno della forma Stato nel neoliberismo, non ci può dire niente di tutti quegli infiniti mondi che si innestano proprio nel rapporto tra Stato e criminalità, quei “mondi di mezzo” balzati agli onori della cronaca durante l’inchiesta su “Mafia Capitale”. Casi-esempio, potremmo dire, dell’onnipervasività del mercato e dell’inevitabile intreccio tra pubblico-privato-comportamenti criminali. Qui si gioca, a mio avviso, un altro snodo importante del volume. L’autore, ovviamente, oltre a dire la verità sul potenziale criminogeno degli Stati si sofferma molto sulle pratiche discorsive che tendono a condannare le economie informali e i loro attori sociali senza considerare che essi sono già esito ed effetto del neoliberismo. E la resistenza qui dove può collocarsi? Dentro o fuori il rapporto tra Stato criminogeno ed economie informali? Il cosiddetto “mondo di mezzo” non è già esito ed effetto di questo rapporto? Bisognerà leggere il testo per comprendere bene il terreno scivoloso su cui l’autore si muove con astuzia e destrezza e senza alcuna ipocrisia di maniera. Qui solo qualche considerazione in chiusa, in ordine sparso.
La prima cosa che mi viene da dire è che questo è un libro femminista (nel senso di pensiero per tutte e tutti, dunque non di un pensiero di donne per le donne, come spesso si intende erroneamente lo stesso femminismo) per via della scelta epistemologica originaria (partire da sé, etnografia, uso di esempi, attenzione al corpo e alle sue funzioni emotive, uso narrativo di un linguaggio sociologico, esperienza, saperi sempre situati e posizionati, mai teorico-astratti ecc.); la seconda è che questo bel testo tende a nascondere o comunque tiene assai lontana la prospettiva di un legame tra tutte queste resistenze. L’esaltazione dell’individualità nelle resistenze, per quanto importante da studiare e capire, non ci dovrebbe anche interrogare su quanto di fatto, il neoliberismo, generi già individualità ormai del tutto prive di legame sociale e che proprio da qui occorrerebbe ripartire per andare al di là dell’individuo? Se ognuno resiste da se e per sé sarà mai possibile cambiare questo terribile mondo? La terza, infine, è molto semplice: libri come questo restituiscono dignità pubblica al sapere sociologico, ripristinano la funzione originaria della sociologia che, evidentemente, non è quella di trasformare gli attori sociali in numeri da sciorinare nei salotti della politica, ma di rendersi strumento indispensabile per l’acquisizione di uno sguardo e di una coscienza critica rispetto al mondo e ai suoi innumerevoli dispositivi di potere.