L’antropologa Rita Ciccaglione ha condotto una ricerca etnografica a Mirandola, l’epicentro del sisma emiliano. Ad un anno dal terremoto, la ricerca analizza la memoria che si è prodotta attorno all’evento e le trasformazioni sociali prodotte dalla catastrofe.
Resilienze nel post sisma emiliano
Il terremoto tra frattura e processo
Nella rappresentazione collettiva il terremoto, o un evento catastrofico in genere, viene avvertito come una frattura epocale che crea un prima e un dopo rispetto all’evento. La percezione di questa rottura della continuità storica è ciò che produce l’evento catastrofico in quanto tale, a partire da un fatto improvviso che spezza gli orizzonti culturali e crea la necessità di inventarne dei nuovi. Il senso comune, in quanto atto di familiarizzazione, codifica il mondo quotidiano attraverso l’immediata evidenza dei fenomeni manifesti, per cui la frattura che un sisma crea nello spazio su cui impatta si traduce nella dimensione temporale tra ciò che prima era riconoscibile e ciò che poi non lo è. In questo senso un evento, come un terremoto, è un fatto che viene socialmente e culturalmente costruito e riconosciuto come tale.
Dovremmo, allora, nell’analisi di questo fenomeno, riflettere su quelle che sono le componenti socio-culturali di una catastrofe, sia nella configurazione culturale locale, sia nella produzione del discorso ufficiale. Ciò non vuol dire cedere alla facile dicotomizzazione tra cultura dal basso e cultura dall’alto, ma piuttosto seguire l’interazione delle dinamiche culturali e rendere evidente la molteplicità dei discorsi sociali.
Il 29 maggio il terremoto emiliano ha compiuto un anno. Questa data è ufficialmente riconosciuta come l’anniversario del sisma, perlomeno a Mirandola, dove si è svolta la mia ricerca etnografica. Alla scossa del 20 la popolazione aveva infatti prontamente reagito. “Gli Emiliani che si tirano su le maniche e vanno avanti” avevano riaperto capannoni e negozi. Il 29 maggio, invece, si è fermato tutto ed è arrivata l’emergenza. A questo giorno è stata dedicata una via, lungo la quale, attualmente, si colloca uno degli insediamenti M.A.P. presenti nel territorio comunale.
Già da questi pochi elementi è osservabile un’istituzionalizzazione dell’evento puntuale, ma è anche possibile notare come la sua cristallizzazione temporale sia, nella pratica dello spazio, direttamente ricondotta al suo effetto presente senza produrre alcuna cesura temporale. Più in generale, a Mirandola, il senso comune non ha dato vita a un taglio netto tra un prima e un dopo terremoto, ma l’evento viene percepito nella sua continuità processuale: si è ancora in pieno terremoto, si vive “durante”.
Sebbene un anno costituisca un lasso di tempo troppo breve per produrre una sedimentazione dell’evento come rottura tra passato e futuro, vorrei cercare di sottolineare, nel tentativo di evidenziare la pluralità e la commistione dei discorsi, alcuni motivi che contribuiscono alla costruzione di una rappresentazione collettiva in cui il terremoto è, invece, vissuto nella sua continuità presente.
L’incorporazione della cultura dell’emergenza
Ciò che viene ritenuto passato è l’emergenza. Da un lato essa può considerarsi conclusa poiché lo sciame sismico è andato progressivamente diradandosi, dall’altro l’emergenza è finita perché dalle tendopoli i senzatetto sono passati ai M.A.P., destinazione meno precaria. Il terremoto, invece, è ancora presente rispetto alle forme appena indicate. C’è ancora una fortissima paura nelle persone che si risvegliano al primo tremolio, realmente dovuto a un movimento sismico o semplicemente provocato da un camion che passa o dal partner che durante la notte si muove nel letto. Inoltre, il terremoto è presente perché la ricostruzione è partita solo in minima parte e la sensazione comune è quella che i cambiamenti siano in atto ora, nel presente, e rivolti al futuro.
Questo tipo di rappresentazione si produce tramite l’incorporazione di una specifica forma culturale del terremoto, parte integrante del discorso istituzionale, che vorrei definire “cultura dell’emergenza”. Essa si basa su una definizione tecnocentrica di disastro dove le discipline chiamate a operare ruotano nell’orbita delle scienze fisiche. Ci si trova, dunque, di fronte a un sistema rappresentazionale che regola l’approccio interpretativo globale del fenomeno e, orientando le strategie di intervento e di gestione, tanto nella fase dell’emergenza quanto in quella della ricostruzione, si incentra sullo schiacciamento della significazione dell’evento sui suoi effetti fisici e sposta la risoluzione dei danni esclusivamente su tale aspetto, attraverso un interventismo volto all’efficacia, basato innanzitutto su saperi tecnici e specialistici.
Tale modalità può essere inscritta nella prassi della shock economy come strategia di un capitalismo di conquista dove l’emergenza costituisce un momento in cui l’azione e la scelta possono essere contratte in nome della necessità e dell’urgenza, fino a far diventare l’aiuto una forma di controllo.
Sebbene in Emilia l’emergenza non sia stata gestita in maniera tanto accentrata e istituzionalizzante quanto nel precedente caso aquilano, è possibile indicare alcuni elementi evidenti dell’adozione di una strategia gestionale legata a tale declinazione. Ad esempio, l’organizzazione dello spazio collettivo e individuale passa attraverso l’istituzione delle tendopoli e della zona rossa. Inoltre, l’uso di una certa psicologia dell’emergenza, tesa a sottolineare gli effetti ma dimentica delle differenze culturali pur presenti, è parte di un complesso di saperi rispondenti a diffuse retoriche umanitarie fortemente avvallate a livello istituzionale. Ancora, le organizzazioni di volontariato e di sostegno logistico, presenti in questa fase, corrispondono a corpi istituzionali e a soggetti privati ormai inscritti nella mappa mondiale dell’imprenditoria umanitaria.
La produzione di una cultura del terremoto
Gli aspetti appena elencati si incrociano con una particolare configurazione culturale del territorio in cui non esiste, in pratica, una “cultura del terremoto”. Con tale espressione si intende, generalmente, una sorta di conoscenza popolare memorialmente trasmessa in merito a comportamenti, rappresentazioni e attribuzioni di significato localmente dati agli eventi sismici. Rispetto a ciò, la popolazione locale registra di per sé una bassissima percezione del rischio dovuta innanzitutto a una mancanza di memoria storica, essendo gli ultimi terremoti lontani cinque secoli. A ciò si aggiungono i detti popolari che prevedevano scarsi danni in seguito a un sisma essendo il suolo composto da sabbie miste.
“Ora questa è zona sismica!” è l’affermazione più ricorrente. In realtà, la zona colpita si trova nella mappa di pericolosità sismica in zona 3, da ritenere, dunque, a basso rischio; ma di fatto tale mappa è costruita in base alla ripetitività registrata di tali eventi nella storia conosciuta della nostra penisola. In questo caso la cultura del terremoto e la cultura dell’emergenza vengono a coincidere. La debolissima percezione del rischio riflette la sua mappatura scientifica. Inoltre, l’incorporazione della cultura dell’emergenza (frutto del discorso istituzionale) nel sistema locale di rappresentazioni è ulteriormente osservabile in quel repentino aumento della percezione del rischio che è riscontrabile nella popolazione emiliana a un anno dal sisma. Essa si traduce in comportamenti concreti quali la rielaborazione delle mappe mentali che erano abituali nella fruizione dell’abitazione e soprattutto nella maggiore attenzione ai modelli costruttivi da applicare sul territorio. Più in generale, si produce un senso comune orientato dal discorso scientifico grossolanamente acquisito per cui un po’ tutti sono in grado di discorrere del fenomeno utilizzando una certa terminologia, anche impropriamente, o seguendo teorie travisate dal tam tam popolare.
Per gli Emiliani il terremoto, che era stato sempre qualcosa di lontano, diventa un fenomeno da interpretare necessariamente e per questo si produce una griglia di lettura adatta a tale necessità. Dalla cultura dell’emergenza viene ricavata una forma di cultura del terremoto.
La convergenza tra configurazione culturale locale e cultura dell’emergenza
La cultura del terremoto non riguarda, però, solo la percezione del rischio. C’è poi da riconoscere un’ulteriore componente che, a mio avviso, contribuisce a incrementare il suddetto processo. Per dimostrare tale relazione è possibile considerare le dimensioni spazio-temporali così come fruite nel comune sentire.
Nel sistema culturale locale la percezione del tempo è essenzialmente rivolta al futuro, tant’è che la reazione immediata al sisma è stata quella della ripresa delle attività. La volontà di non interrompere la produzione si basa su un sistema di valori i cui principi fondanti sono il lavoro e l’operosità. L’impiego delle persone nella forza-lavoro è ciò che permette tale stato di cose a Mirandola (più in generale nella Bassa emiliana a forte vocazione imprenditoriale) e funziona come garanzia al benessere collettivo percepito come diffuso. La fretta nel ripartire significa, dunque, non rischiare di perdere la garanzia del futuro. In questo senso la percezione del tempo è orientata a cancellare la frattura con il passato in nome di un ricominciamento, ovvero di una prospettiva per il futuro.
La risposta culturale elaborata a un anno dalla catastrofe si colloca in questa linea di rappresentazione, propria delle società complesse a economia capitalista. Secondo alcuni autori[1] le temporalità scaturite da questo sistema culturale sarebbero prodotte da un’esperienza individuale del tempo data da orari istituzionalizzati e organizzati, propri della modernità. La temporalità del processo lavorativo, annientando il tempo della trasformazione del prodotto a favore della fruizione sincronica della merce, comporterebbe l’opacizzazione della componente diacronica del tempo. In questo modo il passato sarebbe facilmente dimenticato favorendo l’immediata ripresa della prospettiva futura. Ciò che viene avvertito come imprescindibile è una continuità del tempo rispetto una reale trasformazione dello spazio.
Infatti, sebbene il processo di esternalizzazione dello spazio urbano non sia stato a Mirandola immediato e improvviso, ci si trova concretamente di fronte a una trasformazione dei punti di riferimento all’interno della città. La zona rossa è stata nel corso dell’anno progressivamente e abbastanza rapidamente riaperta; alcune attività commerciali sono ritornate in centro, qualcuno è anche ritornato a viverci. La piazza cittadina è periodicamente protagonista di una serie di iniziative fortemente volute dall’amministrazione comunale come atto di riappropriazione simbolica di tale spazio. Nonostante ciò, il centro storico appare ai più vuoto e privo di vita. Inoltre, è possibile osservare la nuova vitalità di una zona prima considerata periferica. In quest’area, infatti, ad un unico centro commerciale preesistente vanno sommandosi tutta una serie di attività variamente strutturate e organizzate che si trovavano in centro e sono ora delocalizzate. Allo stesso modo agisce la concentrazione dei M.A.P. in aree al limite dello spazio urbano. Questi moduli abitativi sono stati localizzati in zone già edificabili, destinate ad una futura espansione dello spazio urbano, che però non erano, prima del terremoto, appetibili al mercato immobiliare.
Pur tuttavia, la popolazione sembra non percepire tali cambiamenti in atto come una frattura rispetto al passato, ma piuttosto come una continuità temporale rimarcata da una tensione verso il futuro inteso come ricominciamento. Tutto è, insomma, vissuto nel presente e non c’è la percezione che un dopo si sia realizzato.
Nella stessa modalità percettiva e rappresentazionale, il tema della ricostruzione degli edifici storici si sviluppa in un rapporto con il passato che prevede l’inserimento di tali luoghi nel campo semantico del turismo e dell’uso culturale. Ciò che è storico deve essere come tale riconosciuto e categorizzato. La stessa progettazione in atto, rispetto al centro cittadino, si colloca in una prospettiva di rielaborazione funzionale dello spazio rispondendo a criteri di obsolescenza per cui alcuni edifici sono da ritenersi incongrui rispetto ai bisogni presenti-futuri.
Continuità e resilienza
La coerenza interna alla configurazione culturale locale, sebbene metta a repentaglio una sostenibilità culturale intesa nella sua relazione con il passato, garantisce in realtà una forma di resilienza per la popolazione colpita. La continuità verso il futuro, temporalmente percepita, riesce a superare nella rappresentazione la frattura data dall’evento. Proprio grazie ad un sistema culturale che non si scontra frontalmente, ma piuttosto accoglie l’impianto rappresentazionale attraverso cui è stata disposta la gestione dell’emergenza e del suo post, la popolazione riesce a strutturare le proprie griglie di lettura del mondo in termini di continuità e a ripartire di fronte ad un evento potenzialmente traumatico.
A questo punto, però, vorrei tentare di far luce su un aspetto non certamente secondario. In Emilia, lo si è già detto, la pratica della cultura dell’emergenza è stata più morbida e meno accentratrice demandando la funzione di controllo sociale alle autorità locali e, in questo modo, garantendo una maggiore autonomia decisionale. A ben guardare, però, tale autonomia non è data tanto dal modello di gestione, ma da quelle che sono le condizioni socio-economiche di partenza dei soggetti.
La sicurezza economica di cui si gode all’interno del nucleo familiare costituisce un elemento di garanzia contro la precarietà esistenziale data dal sisma. Il fenomeno dei campi spontanei (concentrazioni di tende nei giardini e nei parchi cittadini) è generato, tra le varie motivazioni, proprio da questa condizione favorevole. Nelle tendopoli si erano concentrati gli immigrati extracomunitari o provenienti dall’Italia meridionale. Gli immigrati, non godendo infatti di una rete di relazioni forte a cui riferirsi, né di un supporto economico di base, rimanevano senza una scelta alternativa.
Quasi come in uno specchio, la forte stratificazione socio-culturale esistente in questo contesto territoriale si ripercuote sulle capacità di elaborare risposte resilienti nella situazione attuale, come nella fase di prima emergenza. Chi, a Mirandola, è stato in grado di riaprire la propria attività commerciale e chi è partito con i lavori di ristrutturazione o ricostruzione della propria abitazione, lo ha fatto attingendo alle proprie risorse economiche personali. I contributi statali sono per ora bloccati da una burocrazia fitta e farraginosa che urta con l’ansia di riprendere in mano la propria vita. Chi era invece in una condizione di precarietà lavorativa lo è ancora di più oggi; chi vive attualmente nei M.A.P. è colui che ha subito l’intero iter di provvisorietà abitativa istituzionalizzata, passando dalle tende agli alberghi e poi ai moduli stessi. In queste persone è possibile osservare un processo di passivizzazione per cui le condizioni di partenza vengono istituzionalmente orientate in un sistema che non permette la possibilità di scelta, ma solo l’accettazione dello status quo, non potendosi personalmente permettere una diversa soluzione.
È possibile osservare anche in questi casi la coerenza di un sistema culturale che garantisce continuità. Ciò che continua, però, in questo caso è la precarietà esistenziale. Il futuro si connota per un’accelerazione dei processi già presenti nella struttura sociale, si tratta quindi di una configurazione culturale che permette resilienza, ma una resilienza a doppia velocità.
Note
[1] Per approfondimenti: M. Augè, Le forme dell’oblio, Milano, Il Saggiatore, 2000; P. Connerton, Come la modernità dimentica, Torino, Einaudi, 2010.