Il secolo psicologico: prodromi di una nuova socialità senza sociale

L’analisi di Castel su evoluzione e collocazione della psicoanalisi, della psicologia e delle tecniche psicologiche nella società contemporanea impone una riflessione profonda sulla scorta dei profondi mutamenti sociali e culturali dal maggio ’68 in poi. Di Riccardo Ierna

28 febbraio 2013

Nel 1982 uscì presso la Feltrinelli un piccolo volumetto dal titolo: “Verso una società relazionale. Il fenomeno “psy” in Francia”[1]. Si trattava di una raccolta di saggi del sociologo francese Robert Castel, intorno a quello che sarebbe divenuto un tema prevalente nel dibattito culturale e politico a cavallo tra la fine degli anni 60’ e la fine degli anni 70’: l’evoluzione e la collocazione della psicoanalisi, della psicologia e delle tecniche psicologiche nella società contemporanea. L’analisi di Castel si inquadrava in un più ampio filone critico di ricerca, che imponeva una riflessione profonda sulla scorta dei profondi mutamenti sociali e culturali dal maggio ’68 in poi. Esso faceva da sfondo alle lotte antiautoritarie, alle esperienze di deistituzionalizzazione e di critica alla medicina e alla psichiatria, che avevano animato quella stagione, culminate nella promulgazione di importanti provvedimenti legislativi in grado di modificare il quadro normativo in tema di salute pubblica.

I saggi di Castel riguardavano il contesto francese, ma con uno sguardo all’evoluzione della situazione italiana, in quel momento paradossalmente più avanti di quella d’oltralpe sul piano operativo e politico[2].

A conclusione di uno dei suoi saggi Castel scriveva:

“Non c’è soltanto nella società contemporanea, un sempre più di psicologia in “sempre più” luoghi inediti; ma è un altro statuto dell’elemento psicologico che si comincia a delineare[3], ancora molto confusamente per la verità. Secondo questa prospettiva, la psicologia non è più soltanto una batteria di tecniche per riparare lo psichismo (psicologia clinica); né soltanto un insieme di strumenti al servizio delle istituzioni per migliorarne il funzionamento o soccorrerne la crisi (psico-pedagogia, psicologia industriale, psicologia militare, ecc.). Non è nemmeno la ricerca “disinteressata” delle leggi di funzionamento della psiche umana (psicologia “ generale” universitaria), e neppure l’esplorazione in profondità di un’altra scena psichica (psicoanalisi). O meglio, la psicologia è tutto questo contemporaneamente, ma sta diventando anche un’altra cosa: una cultura psicologica di massa, caratterizzata da una preponderanza dei codici individualizzanti in quanto griglie d’interpretazione della realtà, delle tecniche di azione psicologica come strumenti della sua trasformazione, e dei modelli di sviluppo personale come ideali sulla riuscita dei quali l’uomo mette in gioco il senso globale della sua esistenza[4].

E più avanti commentava: “In realtà i lavori che hanno cercato di stabilire una relazione fra l’aumento della patologia individuale e certe caratteristiche della civiltà moderna sono lungi dall’essere convincenti. E’ il concetto stesso di salute che è ormai scoppiato: la salute non è più qualcosa da riparare con delle tecniche psichiatriche classiche; non è neanche più qualcosa da preservare con delle tecniche di prevenzione; è diventato qualcosa da coltivare. Per designare questa mutazione gli americani hanno inventato l’espressione “terapia per i normali”. Se la formula ha senso, essa indica un lavoro da compiere sulla normalità stessa, per rinforzarla e farle produrre una sorta di plusvalore di salute. Le tecniche psicologiche inaugurano un nuovo stile d’esistenza, in funzione del quale lo sviluppo della propria personalità diventa, per l’individuo, un fine in sé ed un compito infinito. La psicologia è diventata un insieme di procedure che lavorano il potenziale personale di ognuno per massimizzarne il rendimento.[5].

Nella parte finale del testo Castel cosi concludeva: L’avvento di una cultura psicologica s’inscrive in un processo di dissoluzione delle strutture familiari, comunitarie, politiche tradizionali. Al loro posto, le relazioni create dalle tecniche psicologiche acquistano una centralità reale che riorganizza intorno a sé gli investimenti primordiali. Queste tecniche creano anche un nuovo modo di esistenza psicologico ed un nuovo tipo di socialità. Una “socialità asociale” nel senso che si esaurisce nell’intensificare la trama del legame sociale nella fragile sovranità di un’esistenza che ha messo fra parentesi tutto quello che, nella vita quotidiana, l’alleggerisce del suo peso di realtà.”[6].

L’analisi di Castel, seppur inquadrata in un contesto storico, culturale e sociale molto lontano dal nostro, mi permette una serie di considerazioni sull’evoluzione della psicologia come sapere e delle sue tecniche di intervento sociali. La prima considerazione è che questa analisi, mi sembra anticipi straordinariamente alcuni esiti di questa evoluzione, e tracci contemporaneamente alcuni vettori su cui poter abbozzare una “diagnosi” del presente.

Mi soffermerò in particolare sulla società italiana, ma credo che molte delle considerazioni che seguiranno possano applicarsi, in linea generale, anche a contesti diversi dalla realtà del nostro paese.

Innanzitutto c’è da rilevare in questi ultimi trent’anni, una crescente proliferazione della psicologia in ogni campo dell’organizzazione sociale. Oltre ai consueti luoghi di intervento (Scuola, Azienda, Ospedale ed Esercito), assistiamo ad una ricollocazione delle tecniche psicologiche nei contesti più diversi ed eterogenei. Basti pensare alla Sanità, dove, oltre all’antica funzione di “dama di compagnia” [7] della psichiatria, nell’intervento clinico e riabilitativo dei servizi pubblici e privati e nell’assistenzialismo del terzo settore, si assiste oggi ad una vera e propria “colonizzazione” delle tecniche psicologiche in altre aree di stretta competenza medica (diabetologia, geriatria, chirurgia, ginecologia, ostetricia, oncologia – solo per citarne alcune).

In occasione di una preparazione al parto o all’intervento chirurgico, di una consultazione medica per un problema alimentare, di un accompagnamento alla morte per una malattia terminale o di elaborazione del lutto per una perdita, di una condizione d’infertilità, di un colloquio per una scelta contraccettiva, di una richiesta di consigli educativi, di un conflitto giudiziario per un affido familiare o di una difficoltà scolastica, è ben evidente il ricorso spesso automatico ed “inconsapevole” all’ “ingegnere degli stati d’animo”[8]. Sembra quasi che la figura dello psicologo sia ormai parte integrante della richiesta d’aiuto come complemento necessario alla sua ragion d’essere. E probabilmente lo è.

Resta da capire il ruolo e il significato che questa funzione psicologica incarna nella società contemporanea e, se possibile, ricondurlo al discorso di Castel sul fenomeno “psy” nella società francese degli anni 70’. L’operazione non sembra essere molto semplice, considerando che sono passati più di trent’anni e che la società di oggi sembra profondamente mutata nelle sue diverse componenti culturali, sociali, economiche e politiche.

Eppure, qualcosa di quella analisi sembra aver trovato oggi una giustificazione storica alle proprie premesse. Se è vero come è vero che, in Italia, tra le nuove proposte di legge in Commissione Sanità alla Camera dei Deputati, ed in parte già attuate in forma progettuale finanziata, ci sono anche quella dell’istituzione dello psicologo di base [9] e l’introduzione della figura psicologica nelle farmacie di quartiere. Cioè la riproposizione di quella inflazione di competenza psicologica in contesti dove, francamente, il suo utilizzo suscita più di un interrogativo e qualche perplessità.

Mi chiedo, infatti, quale funzione potrebbe assumere la figura dello psicologo all’interno di un ambulatorio medico, se non quella di affiancare ad un vecchio specialismo (quello medico), un nuovo specialismo (quello psicologico). A nulla pare valere, inoltre, la giustificazione posta dai promotori dell’iniziativa di un recupero delle spese farmaceutiche, recupero prontamente vanificato dalla stretta commistione che da sempre esiste tra tecniche psicologiche e terapie farmacologiche. Basti pensare che, “curiosamente”, la proposta di legge sull’istituzione dello psicologo di base prevede che, all’esercizio di questa nuova funzione possano accedere solo gli psicologi con dieci anni di iscrizione all’albo o i medici chirurghi od odontoiatri [10]. Prevede altresì la possibilità per lo psicologo di dare indicazioni per una terapia farmacologica, previa consultazione e rimando al medico di base per l’eventuale prescrizione (sic!)[11]. L’istituzione, inoltre, di una consulenza psicologica in farmacia [[12] costituisce, per certi versi, una versione ancora più inquietante di questo scenario. [13].

Non si riesce a comprendere perché un paziente che va in ambulatorio e parla con il medico delle sue preoccupazioni circa alcuni disturbi o che semplicemente voglia essere rassicurato sulle sue condizioni di salute, non possa essere aiutato dal medico stesso, attraverso la sua capacità relazionale e psicologica (cosa che ogni medico dovrebbe avere se vuole fare questo mestiere).

Abbiamo invece una nuova situazione in cui, con il pretesto apparentemente fondato di offrire un ventaglio più allargato di soluzioni e servizi possibili, si crea di fatto una separazione delle competenze e una discriminante sulle condizioni cliniche, per cui per la natura di ogni sintomo c’è un professionista disponibile a trattarlo separatamente.

In tal modo, il rischio è che si innesti presto un meccanismo di delega deresponsabilizzante dove l’uno, il medico, si occupa esclusivamente del sintomo fisico e l’altro, lo psicologo, di quello psichico od emotivo. Il paziente continua cosi a rimanere passivamente sullo sfondo come fruitore finale delle diverse opzioni di scelta, divenendo consumatore di servizi, più che protagonista attivo della propria cura, senza che possa riuscire a sottrarsi al perverso meccanismo della delega, ispirato dal nuovo servizio ambulatoriale (alla faccia della tanto sbandierata centralità della persona).

Il medico-psicologico rischia dunque di saturare ogni possibile alternativa, come era nelle previsioni di Castel. Psiche e soma sono ora nuovamente scindibili e ricomponibili in due diverse specialità (medica e psicologica). L’unità della persona è nuovamente ridotta ad una “parcellizzazione” quasi anatomica delle sue condizioni cliniche ed esistenziali.

L’altro pericolo, insito in questa operazione di ricollocazione specialistica delle competenze, è legato alla funzione apparentemente “preventiva” della consulenza psicologica, che viene cosi a configurarsi come un evento sentinella di disagio esistenziale da trattare, ed eventualmente re-veicolare, in altri circuiti di gestione del “disagio psichico” (servizi di psichiatria, psicoterapie private, etc..). In realtà, questa falsa prevenzione coinciderebbe con un meccanismo di individuazione precoce del disagio (cosi come avviene già nel contesto scolastico), una sorta di psicologizzazione (psichiatrizzazione) forzata delle difficoltà emotive.

La consultazione per un qualsiasi problema è cosi immediatamente sequestrata dall’intervento medico-psicologico combinato che la razionalizza, facendola diventare sintomo fisico o psicologico da curare. Producendo quindi un effetto di rafforzamento e non di allentamento della sua morsa gestionale .

Possiamo rilevare quindi tre diversi effetti combinati di questo nuovo statuto del sapere/potere psicologico nel sociale:

1- Quello di ricollocarsi come sapere storicamente squalificato all’interno di un discorso scientifico (medico), attraverso la riabilitazione “medica” del suo oggetto di indagine (la relazione). Ponendosi quindi rispetto alle tecniche analitiche propriamente dette (Psicoanalisi), come strumento più flessibile e in grado di coprire una più ampia fascia di reddito sociale.
2- Quello di costituire il nuovo braccio armato della Medicina nell’individuazione precoce di una sempre maggiore e variegata forma di disagio esistenziale, da inquadrare diagnosticamente e nosograficamente [14] e da trattare con interventi specifici (tecniche psicologiche).
3- Quello di creare una nuova forma di socialità (socialità asociale) attraverso l’uso di un “relazionale” che di fatto utilizza codici individualizzanti e spersonalizzanti di interpretazione della realtà, determinando la dissoluzione del soggetto collettivo e partecipante.

Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, quanto questa nuova “funzione psicologica” sia il prodotto delle condizioni storico-sociali, economiche e politiche di una società e quanto, invece, della sua stessa riproduzione come sapere/potere al servizio dell’ideologia dominante.

L’ipotesi di Castel è che questa inflazione psicologica, che egli chiama “cultura psicologica di massa”, piuttosto che rappresentare esclusivamente un effetto della manipolazione del sapere da parte delle istituzioni, e quindi di riproduzione della sua ideologia di controllo, sia essa stessa produttrice di un nuovo ordine di senso e di rapporto tra le persone. La “socialità asociale” di cui parla Castel è il nuovo statuto con cui la società si affaccia alle soglie del nuovo millennio. La società diviene “relazionale” nel momento in cui lo “psicologico” sequestra il sentimento collettivo di appartenenza ad una realtà sociale e lo interiorizza come discorso prettamente individuale e intimistico.

Il problema allora non diviene più quello di ricollocare il soggetto nell’azione sociale e farlo riappropriare di un sentimento collettivo e partecipato di appartenenza alla polis, ma quello di una massimizzazione delle sue prestazioni e del benessere individuale, un’ottimizzazione dei suoi rendimenti individuali: un’ipersoggettività implosa su se stessa. Quindi una soggettività apolitica, asociale e anomica. Cioè una soggettività che usa il relazionale come fine ultimo di ogni suo rapporto con la realtà. Anche le cosiddette tecniche di gruppo (psicoterapie gruppali), apparentemente protese verso un lavoro di ricollocazione del soggetto nelle appartenenze sociali, non farebbero che riprodurre un discorso puramente familistico ed intimistico del relazionale, finendo per ricreare una condizione di mero riadattamento del soggetto all’ambiente anomico da cui era stato temporaneamente “escluso”. Ciò che è relazionale, in questo modo, diviene l’unica realtà possibile e l’unica forma possibile di ricomposizione del soggetto e dei suoi conflitti sociali.

Giovanna Procacci, nell’introduzione al volume di Castel, coglie bene gli effetti di questo nuovo scenario:

“Il lavoro sulla normalità, che è il terreno comune a queste tecniche, sta ormai prendendo la forma di una cultura specifica: al suo centro, una nozione della normalità come “sintomo” delle costrizioni, della disciplina, delle forzature che la socialità impone alla spontaneità del soggetto, ostacolandone il pieno sviluppo; di conseguenza un sospetto sulla socialità, e la proposizione di un ideale del Sé la cui realizzazione è un compito senza fine, e che richiede il sistematico impiego di tecniche psicologiche. Ma al suo centro anche, inevitabilmente intrecciata, una nuova forma di socialità che il lavoro psicologico stesso inventa, con una sopravvalutazione della relazione interpersonale quale momento costitutivo di questo lavoro per sviluppare il proprio potenziale: una cultura dunque, della relazione, oltre che una cultura del Sé”[15].

Concludiamo infine, con le parole di Castel: “L’inflazione dello psicologico e del relazionale rimanda ad una mutazione sociale che opera una deflazione delle costrizioni economiche e sociali di un dato settore. […] L’autonomia relativa dello psicologico non corrisponde dunque alla liberazione dei determinismi, ma piuttosto ad una situazione drammatica in cui l’azione sociale e politica è colpita dall’impotenza, in cui l’attore storico è scisso in soggetto psicologico e in ricettacolo di pressioni esterne, ed in cui esso non può mai mobilizzare l’insieme delle sue possibilità pratiche, se non nel quadro di un lavoro su se stesso, il che comporta sempre qualcosa di derisorio.”[16]

Se questa analisi è corretta, noi avremo sempre più una psicologia al servizio di una “società relazionale”, una società cioè che ha perso progressivamente la capacità di agire collettivamente per la trasformazione di se stessa. Per poter contrastare questa deriva del sapere psicologico, occorrerà allora diagnosticarne “la malattia relazionale”, riportandola ad una dimensione di sapere al servizio della liberazione della società dalla sua schiavitù anomica, quindi ad una dimensione “politica”. E’ quello che auspichiamo prima che la sua “istituzionalizzazione” ci distrugga. Ma forse è già troppo tardi. Il nuovo potere della psicologia è già un potere produttivo. E’ già l’istituzione di una nuova socialità. E’ già corpo sociale senza una socialità. Il nuovo secolo sarà psicologico. La società relazionale è già compiuta.

Occorrerà allora che la lotta si ricomponga nella microfisica del quotidiano, negli interstizi della comunicazione e del linguaggio, nelle azioni resistenti dei saperi assoggettati. Che rimangono i saperi degli esclusi, dei folli, dei reietti e di tutti coloro che non si rassegnano a questa anomia del nostro tempo.

 

Note

 

[1] R. Castel, Verso una società relazionale. Il fenomeno “psy” in Francia, Feltrinelli, 1982.

[2] Nel 1978, in Italia, era stata appena promulgata la legge 180, che sanciva la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici, confluita successivamente nella legge 833 che istituiva il nuovo Servizio Sanitario Nazionale.

[3] D’ora in avanti, l’eventuale uso del grassetto è mio.

[4] Ibid. p. 44.

[5] Ibid. p. 50.

[6] Ibid. p. 70.

[7] La definizione non è ironica. Da sempre la professione psicologica si è configurata nei servizi pubblici e privati, come parte ausiliaria e protesica della cultura psichiatrica, assumendone spesso i connotati, attraverso una riconversione dei suoi ambiti di intervento e di ricerca in senso prevalentemente psicopatologico e diagnostico.

[8] La felice espressione che designa il nuovo tecnico della relazione (psicologo/psicoterapeuta) è dello stesso Castel.

[9] Nel 2010 è stato presentato alla Camera, un disegno di legge (Ddl n. 3215) sull’istituzione della figura professionale dello psicologo di base reperibile qui.

[10] Art. 3, comma 2, par. a) del Ddl n. 3215 “Istituzione della figura professionale dello psicologo di base”.

[11] Art. 2, comma 5, Ddl n. 3215 “Istituzione della figura professionale dello psicologo di base”.

[12] Si vedano alcune iniziative già operanti ed attive nel territorio della Regione Lazio, come ad esempio quella promossa dall’associazione AVIOS con il patrocinio della provincia di Roma: http://www.psicologoinfarmacia.com.

[13] Non si riesce a comprendere perché se un cittadino si reca in farmacia per comprare un’aspirina, debba necessariamente sapere che quella farmacia è provvista di uno psicologo che in caso di necessità è pronto ad offrire la sua consulenza gratuita per il suo benessere psicologico. Perché allora non collocare la stessa figura in un negozio di alimentari o in un centro commerciale? Semplicemente perché la mutazione sociale ed antropologica del sapere psicologico, va oggi nella direzione sempre più chiara di un affiancamento del discorso medico, potenziandone gli effetti. O meglio la medicina è ora in grado di utilizzare questo sapere non più come forza antagonista al suo discorso, ma come strumento più raffinato di intercettamento della cosiddetta “nuova maggioranza deviante” (la “terapia dei normali” per gli americani). Si parla infatti di “benessere psicologico”, proprio quel plusvalore di salute, quel rafforzamento della normalità di cui parlava Castel nella sua analisi.

[14] A maggio è prevista l’uscita della quinta versione aggiornata del DSM, il manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali (DSM5) dell’A.P.A. (American Psychiatric Association), che ha già suscitato diverse perplessità negli addetti ai lavori. Perplessità inerenti i criteri diagnostici utilizzati per classificare nuove forme di patologia psichiatrica (un esempio macroscopico è costituito dal lutto, non più considerato come un evento normale della vita quotidiana, ma come una condizione sintomatologica assimilabile alla Depressione Maggiore).

[15] Nota introduttiva a R. Castel “Verso una società relazionale”, Feltrinelli, 1982. p. 12

[16] Ibid. p. 89

Print Friendly, PDF & Email
Close