Tredici storie “di vita e di morte”.
Arrestato il 15 ottobre del 2009 Stefano Cucchi attraversa dodici istituzioni pubbliche e muore il 22 ottobre nel reparto detentivo del Sandro Pertini di Roma. Francesco Mastrogiovanni, ricoverato nel servizio psichiatrico di Vallo della Lucania, muore legato al letto mentre le telecamere del reparto riprendono la sua agonia; come Niki Aprile Gatti, morto dopo soli 5 giorni di detenzione, entrambi in circostanze poco chiare; e ancora Katiusca Favero, morta nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) di Castiglione delle Stiviere. Tutte queste sono solo alcune delle tredici storie “di vita e di morte” al centro della narrazione del libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone Quando hanno aperto la cella, Stefano Cucchi e gli altri (Il Saggiatore, 2011). Storie che nell’insieme compongono un interessante osservatorio sulla democrazia, che passa attraverso quei corpi senza vita di cittadini presi in custodia dalle istituzioni pubbliche.
Nel titolo riecheggia La ballata di Miché di Fabrizio De André che cantava la storia di un uomo suicida in carcere per amore, perché il carcere è il luogo dove si muore di più, sia per la violenza del luogo, sia per il sovraffollamento prodotto da leggi specifiche, come quelle che hanno criminalizzato l’uso di sostanze stupefacenti e ridotto le possibilità di accedere a pene alternative. I dati sono allarmanti: oltre 1500 i morti dal 2000 al 2009, dei quali 524 sono suicidi.
Prima di portarci dentro il nostro presente Manconi e Calderone ripercorrono la linea sottile che va dalla morte di Giuseppe Pinelli ai fatti del G8 di Genova nel 2001, mostrando i fattori di continuità di questa violenza che contrasta con il processo di smilitarizzazione e di democratizzazione che ha investito le forze dell’ordine in questi ultimi quarant’anni. Non si muore infatti solo in carcere, ma anche nelle caserme, ovvero in quelle situazioni in cui il “monopolio legittimo dell’uso della forza” inscritto nell’azione dei corpi professionali deputati alla pubblica sicurezza si trasforma in mera violenza. Vacilla in questo modo uno dei capisaldi delle democrazie occidentali: l’habeas corpus, l’inviolabilità della libertà personale garantita in Italia dall’art. 13 della Costituzione che punisce «ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà».
Si muore però anche in luoghi la cui funzione dovrebbe essere la tutela della salute. Luoghi dove dovrebbe costruirsi il diritto alla Salute. Su questo occorre ritornare brevemente in quanto si tratta di questione politiche che – come direbbero Manconi e Calderone- sono soggette a un processo di rimozione, e vengono spesso sottratte ad uno “sguardo pubblico” e una “vigilanza istituzionale” invece necessari. Parliamo in particolare delle modalità con cui molti servizi psichiatrici attuano i Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO), dispositivi per la tutela della salute che comportano limitazioni della libertà personale che dovrebbero realizzarsi «nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici» e accompagnati da misure «volte ad assicurare il consenso di chi è obbligato» lasciando sempre alla persona la «libertà di comunicare con chi ritenga opportuno». Succede invece che il trattamento venga inteso come una questione di ordine pubblico, rispetto al quale il caso di Francesco Mastrogiovanni raccontato nel libro non rappresenta che un epifenomeno. Sappiamo però che esistono in Italia strutture psichiatriche pubbliche che da oltre vent’anni fanno un uso limitato di TSO e hanno abbandonato l’uso della contenzione (si pensi ad esempio Novara e Mantova, per non citare la Trieste di Basaglia) e che in alcune ASL ed in alcune regioni il cambio di dirigenti e di politiche di salute mentale ha comportato un calo dei ricoveri e una diminuzione della contenzione stessa, per poi aumentare con il ritorno dei vecchi dirigenti.
Una seconda questione spesso “rimossa” su cui il libro ha il merito di gettare lo sguardo è quella degli OPG. Non a caso gli autori fanno parte dell’Associazione A buon diritto, una delle sigle che aderiscono al Comitato StopOpg, per l’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari (www.stopopg.it) [1], che si è aperta lo scorso aprile. I 6 OPG italiani sono infatti strutture che agli aspetti della pena sommano quelli del manicomio che, secondo l’indirizzo indicato da diverse sentenze della Corte Costituzionale, dovrebbero essere sostituiti dall’affidamento ai servizi di salute mentale o da altre misure alternative. Se da un lato la Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale (SSN) del Senato, presieduta da Ignazio Marino, sta compiendo un lavoro per superare questi luoghi e denunciarne la violenza, il rischio appare ora che questo superamento avvenga con la costituzione di OPG regionali. Argomenti dunque che interrogano pesantemente le nostre democrazia, sui quali occorrerà ritornare.
Note
[1] Il comitato promotore di StopOpg è composto da: Forum Salute Mentale, Forum per il diritto alla Salute in Carcere, CGIL nazionale, FP CGIL nazionale, Antigone, Centro Basaglia (AR), Conferenza permanente per la salute mentale nel mondo F. Basaglia, Coordinamento Garanti territoriali diritti dei detenuti, Fondazione Franco e Franca Basaglia, Forum Droghe, Psichiatria Democratica, Società della Ragione.