I regimi della politica e le elezioni negli Stati Uniti – Parte Seconda

In attesa dell’esito delle elezioni di domani sera, la seconda parte dell’analisi della campagna elettorale statunitense.

III

La rielaborazione suggerita nella prima parte sosteneva che il regime teologico-politico e quello totalitario, piuttosto che forme alternative e complete in loro stesse di istituzione della società, sono da intendersi come orizzonti, vale a dire come indicatori sia di direzionalità sia di contrasto, che rendono possibili significati e identificazioni differenti, coesistenti e in conflitto tra loro in un tempo e un luogo determinati. Più specificatamente: se è vero che la dissoluzione egualitaria delle marche di certezza e incertezza democratica sembrano essere le caratteristiche salienti delle società che più hanno sperimentato la secolarizzazione delle proprie istituzioni, pratiche e credenze, ciò che sembra problematico è concepire l’orizzonte teologico della politica come qualcosa di definitivamente lasciato nel passato, o l’orizzonte totalitario come una minaccia solo potenzialmente futura e non operativa o istituente in tempi maggiormente democratici.

A partire da questa rielaborazione, potremmo dire che il regime teologico della politica – che non scompare al compimento della rivoluzione democratica, ma è piuttosto temporaneamente sottomesso nella sua capacità di incidere nell’istituzione delle priorità, delle visibilità e dell’auto-percezione complessiva della società – fonda le sue pretese di legittimità in una fonte esterna e costituente l’unità del sociale. Ma l’orizzonte teologico-politico non deve essere letteralmente teologico (anche se evidentemente, come dimostra il presente globale, può ben esserlo); l’orizzonte teologico della politica richiede semplicemente la fascinazione con il gesto dell’incarnazione, ha bisogno cioè di essere sedotto dalla possibilità che l’enigma della esteriorità della volontà, sia divina, di una nazione o di un popolo idealizzato come uno e indivisibile, possa in qualche modo essere materializzato e pienamente rappresentato nel cuore della società.

Al contrario, il regime epistemico della politica – che tanto nella sua forma totalitaria quanto nelle manifestazioni meno pure – nega l’esistenza di quella fonte esterna e rivendica per sé l’accesso a una verità della società che deve essere protetta dalla conflittualità e dall’incertezza. Questo regime epistemico suppone che l’istituzione stessa sia completamente organica, potenzialmente trasparente e spontaneamente organizzata: soprattutto se i processi che sono “noti” come centrali a tale organismo sociale non sono ostacolati da elementi “esterni” al suo funzionamento. Naturalmente, questi elementi esterni possono essere sia la contingenza e la polifonia della politica democratica sia l’“irrazionalità” dell’orizzonte teologico-politico; polifonia o irrazionalità che bagnano di opacità il sociale, facendo sì che questo smetta di essere trasparente dal punto di vista epistemico. In breve, l’orizzonte epistemico della politica è parimenti affascinato dalla fantasia dell’incarnazione, solo che questa non è volontaria, ma razionalista: non è la fede nella volontà della nazione, del popolo o di Dio ciò che deve sfuggire alla contingenza della democrazia, ma la conoscenza tecnica o normativa (di solito poco più che l’ideologia di una rete plutocratica di occupazione del luogo di potere) sul funzionamento dello stato o le leggi della società.

Questi due regimi antagonisti della politica spesso si annullano a vicenda o si scontrano con forza. Ma questo non sempre accade, in quanto non è insolito per loro trovare un terreno comune nel loro rifiuto verso il terzo orizzonte organizzatore della vita collettiva, quello viene visto da questa prospettiva come inaccettabilmente ambivalente e destabilizzante, ma che, negli Stati Uniti, è stato egemonico e crescente (anche se non linearmente) dalla rivoluzione del 1776-1789: il regime estetico della politica, quello che assume il carattere irriducibilmente multiprospettico della società. Il regime estetico (o “democratico”, per usare l’accezione solita del termine “democrazia” e per complicare meno le cose…) della politica, inoltre, è l’orizzonte il cui gesto centrale è l’istituzionalizzazione dell’incertezza – l’istituzionalizzazione dell’accettazione aperta e plurale che non esiste decisione definitiva o soluzione finale all’enigma dell’istituzione della società; che questa è, come detto, illimitata e ciclica, e che l’unica cosa che prevale e deve prevalere è il senso egalitario di questa “multi-prospettività”.

Di cosa permette di rendere conto questa complessificazione della tipologia lefortiana dei regimi della politica, che li rende co-esistenti e in concorrenza tra loro, e che la sua versione rigida invece impedisce? Dell’identificazione degli incrementi relativi della presenza, o delle possibili alleanze, degli orizzonti organizzatori di sensi e di politiche, di visibilità e di “decidibilità”. Così, quando le società contemporanee sperimentano, nello sconcerto di molti, la decisione della Gran Bretagna di lasciare l’Unione Europea o la possibile elezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti, questi eventi dovrebbero essere visti non come l’irruzione improvvisa di un soggetto politico di tipo nuovo, ma come il progressivo emergere di configurazioni che, a lungo termine, possono arrivare a presentarsi con forme di istituzione e orizzonti di senso che coinvolgono il consolidamento di una forma di società di tipo nuovo. Ed è possibile che queste configurazioni si siano spinte ben oltre rispetto a quanto effettivamente riusciamo a percepire.

IV

Concludo con alcuni riferimenti più concreti al processo elettorale del 2016, intrecciati con una delle modalità con cui quelli che ho chiamato orizzonti o regimi politici sono stati recentemente teorizzati negli Stati Uniti. Il teorico in questione è Bruce Ackerman, costituzionalista eterodosso per il quale il problema “costituzionale” non è quello di un testo sacro e originale, eredità saggia per i posteri di un’entità politica, ma piuttosto quello di un “regime” che si estende nel tempo – di solito per periodi non trascurabili, come anni o pochi decenni – come conseguenza di processi istituenti. Ma quest’ultimi alla fine si stabilizzano, inaugurando un nuovo regime di politica “normale”, in cui tribunali e avvocati, giudici e leggi, si dedicano soprattutto ad assicurare la sua durata: e questo si verifica solo durante intensi e non insignificanti periodi di tempo, in cui “We the People” riesce a consolidare, sia nelle istituzioni sia nell’immaginario collettivo, un nuovo regime costituzionale.

In questa dialettica tra “momenti costituzionali” e “politica normale” teorizzata da Ackerman, le crisi politiche sono quelle che tendono a diventare ciò che ho definito scene deliberative, scene che possono dar luogo o meno a un momento costituzionale. Per Ackerman, i momenti costituzionali nella storia degli Stati Uniti sono stati sostanzialmente tre: 1) la fondazione propriamente detta, 2) la guerra civile e la ricostruzione, e 3) il New Deal e l’istituzionalizzazione dei diritti civili. Dico “sostanzialmente” perché quello presente potrebbe essere un quarto momento costituzionale in germe, per quanto resti ancora da vedere quale sarà il suo sviluppo. La situazione attuale è stata anticipata da tre amministrazioni repubblicane: quella di Nixon, nell’episodio di criminalità presidenziale noto come Watergate; quella di Reagan, nell’episodio di criminalità presidenziale noto come Iran / Contras; e quella di Bush, nell’episodio di criminalità presidenziale noto come guerra contro il terrorismo.

Il problema è che, mentre i primi due episodi di criminalità presidenziale sono stati seguiti da momenti di “politica normale”, in cui alcuni elementi furono respinti dai tribunali e dal Congresso in quanto anti-costituzionali (che, per intenderci, in Ackerman significa “anti-regime costituzionale” e non “anti-testo costituzionale”), l’ultimo al contrario sembra aver inaugurato un periodo che Ackerman non ha alcun dubbio nel definire come declino e caduta della repubblica nordamericana. Nella sua concettualizzazione, il nuovo regime costituzionale, dominato da un iper-presidenzialismo di guerra illimitato, non fa scomparire più i regimi precedenti (e in tensione con questo), legati a un nozione ampia di uguaglianza davanti alla legge e nel processo politico. Ciò che tuttavia non è ancora definito è come sarà stabilizzata questa tensione. La mia ipotesi è pessimista: credo che l’episodio chiave di questa tensione sia stato risolto nelle primarie di entrambi i partiti, e in entrambe i partiti ha trionfato questo iper-presidenzialismo di guerra illimitato – uno dominato dall’orizzonte teologico della politica (Trump) e, l’altro, da quello epistemico (Clinton).

Certamente, l’evento politico del 2016 è stato Trump, perché il suo discorso e le sue pratiche, l’orizzonte che delinea le sue politiche, sono chiaramente di rifiuto dell’incertezza egualitaria e della separazione di diritto, conoscenza e potere; e perché lo fa deliberatamente ed esplicitamente. Ma è altrettanto vero che l’altro evento politico dell’anno è stata la campagna Sanders, l’articolazione cioè di un orizzonte egualitario, democratico e anti-neoconservatore, critico tanto dei repubblicani in quanto agenti in prima linea di questo iper-presidenzialismo di guerra illimitato, quanto di Obama e Clinton come in parte corresponsabili della realizzazione plutocratica del potere. Un evento che però è stato sconfitto, pur per un piccolo margine. L’8 novembre, chiunque vinca, la domanda allora è: stiamo già vivendo in un nuovo regime costituzionale? O, ancora oltre, dato che la dimensione chiave della guerra contro il terrorismo è la sua natura illimitata: questo fenomeno ha la capacità di diventare la pietra angolare di un cambiamento nella forma della società?

Come accennato all’inizio, l’interrogarsi di una società sulla propria istituzione è un processo permanente, quindi questa particolare scena istituzionalizzata deliberativa – queste elezioni presidenziali – non chiuderanno definitivamente il processo aperto durante le primarie di entrambi i partiti. Una vittoria di Hillary Clinton potrebbe aiutare il partito repubblicano a tornare a un discorso meno populista e più liberista, ma ugualmente xenofobo, nazionalista e militarista – queste sono state le caratteristiche principali del discorso e delle pratiche del partito per decenni. Allo stesso tempo, è possibile che questa vittoria della Clinton inauguri un periodo di crisi tra i Democratici, dato che le notevoli differenze nella diagnosi del presente, dei principi politici e delle politiche pubbliche tra gli elettori di Sanders e l’establishment del partito saranno esacerbate dalla responsabilità di governare da “alleati”. Una vittoria per Donald Trump, in cambio, ci proietterà sicuramente in un territorio molto meno prevedibile. Rimangono un paio di giorni per sapere in quale direzione si guarderà da ora in avanti.

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