Il dovere di un lavoro? Sul reddito di base

Il dibattito su reddito minimo e reddito di cittadinanza non si arresta. Quali sono i nodi critici e irrisolti? Il lavoro è veramente la panacea di tutti i mali? Alcune riflessioni a partire da una lettura de “Il reddito di base”, di Elena Granaglia e Magda Bolzoni, recentemente pubblicato da Ediesse.

Il Reddito di Base di Granaglia e Bolzoni (2016) è un libro che dichiaratamente intende portare chiarezza e dati a un dibattito che, almeno in Italia, è finora rimasto nell’ambito delle parole, ovvero quello riguardante l’unificazione delle misure di sostegno al reddito, in particolare quelle di ultima istanza, destinate al supporto degli individui al di sotto della soglia di povertà. Il primo aspetto da cogliere positivamente è la scelta di includere in una parallela analisi due misure diverse, talvolta intese in opposizione: il Reddito Minimo e il Reddito di Cittadinanza. Il primo è definito come un trasferimento di denaro a sostegno dei soggetti più poveri, incentrata sulla prova dei mezzi, ovvero sulla dimostrazione di avere un livello di reddito al di sotto di una determinata soglia. Il secondo è invece un trasferimento generalizzato alla collettività. La scelta di intenderle come forme diverse della stessa misura, denominata Reddito di Base, si rivela felice, poiché rende sensata l’una in funzione dell’altra, assumendo entrambe in quanto forme di trasferimento inclusive, aperte e dispensatrici di libertà di azione per i soggetti che le ricevono.
Oscillando tra descrizioni specifiche, argomentazioni di natura morale e di giustizia sociale, il libro si configura come un utile strumento per policy makers ed esperti, ma non rinuncia alla necessaria accessibilità per un pubblico più ampio che voglia informarsi sulle possibilità offerte da questa pur variegata tipologia di welfare.

Il focus sul nostro paese, anche in forte relazione con il resto dell’Europa comunitaria, è affrontato con rigore. Nel terzo capitolo, non a caso titolato “Le carenze dell’Italia”, le autrici evidenziano i limiti e le mancanze del sistema di welfare italiano in una prospettiva storica, descrivendo i molti episodi di tentativi, progetti, disegni di legge, sperimentazioni abbandonate, e sottolineandone la frammentazione territoriale, che è sempre causa di disparità. Nel parallelo con l’ambito Europeo, pur sottolineando le evidenti incongruenze del sistema italiano rispetto alle direttive dell’Unione Europea, non si traccia, come talvolta capita nella narrazione dei cosiddetti “sistemi di welfare nordici”, l’immagine di una sorta di “El Dorado” esterofilo, ma si evidenziano le distanze tra paesi e sistemi differenti, parziali, temporanei.

Nonostante gli utili riferimenti alla letteratura dedicata al tema della giustizia sociale, nel volume non si fa esplicito riferimento alle possibilità di emancipazione e indipendenza che una misura di sostengo al reddito intesa in maniera individuale (al contrario di quelle direzionate ai nuclei familiari come unità di riferimento) può garantire ai giovani, specie in un paese come il nostro. Un paese cioè ad altissima disoccupazione giovanile e basato su un “sistema di welfare familistico”, che funziona come salvagente ma anche come trappola per giovani e donne, che in Italia faticano ancora a entrare nel mercato del lavoro, e quindi ad avere un reddito di indipendenza. A questo proposito, un importante ambito di riferimento teorico e politico nel quale ha trovato spazio una riflessione sul Reddito di Base è quello del pensiero di genere[1]. L’attuale mondo del lavoro può infatti essere interpretato all’interno di un’economia fondata non solo sulla messa al lavoro della vita in senso lato, ma anche sullo spostamento del baricentro della produzione dai beni materiali alle risorse cognitive, linguistiche, affettive, cooperative e sociali dei soggetti. Denominata “femminilizzazione del lavoro”, questa condizione generalizzata rappresenta l’estensione di una tipologia di lavoro e di sfruttamento storicamente riservata alle donne e oggi destinata invece al mercato del lavoro nella sua totalità. Questo processo è indicativo di una serie di fenomeni sociali: dalla totale sovrapposizione tra tempo di lavoro e tempo di vita alla centralità sempre maggiore del lavoro di cura, dai processi di precarizzazione e flessibilizzazione a quelli di integrazione nel lavoro di forme non retribuite, nonché dell’estensione a età sempre più varie di tali prospettive: attraverso stage universitari non retribuiti, tirocini, lavoro gratuito in genere. All’interno di questo discorso di analisi (e in continuità con le rivendicazioni salariali delle casalinghe per il loro lavoro di cura portate avanti durante gli anni Settanta), una branca del pensiero femminista affronta il discorso sul Reddito di Base come strumento per incidere sulla precarizzazione dell’esistenza e sul fenomeno, appunto, della femminilizzazione del lavoro.

Una volta conclusa la lettura del libro – anche se tutt’altro che ignorate – rimangono aperte le problematiche legate all’attivazione delle misure di sostegno al reddito: ogni formulazione di Reddito Minimo presentata, che si tratti di proposte legislative o di vere e proprie misure attuate, o ancora di indicazioni Comunitarie, contiene obblighi di attivazione lavorativa, di accettazione di offerte di lavoro e percorsi di formazione, ai quali è vincolata l’erogazione del Reddito stesso. Nell’ottica di mantenere la distinzione tra le due misure così come questa è formulata nel libro, il Reddito Minimo può essere inteso come un’anticipazione del Reddito di Cittadinanza, ma può, in alcune sue forme di più aspro e netto condizionamento, costituire il suo opposto. Mentre il secondo, infatti, intende restituire al cittadino la libertà di essere l’artefice delle proprie scelte (anche lavorative), alcune forme di induzione forzata dei disoccupati al lavoro che possono essere presenti nel primo negano almeno in parte quelle finalità: non accettare una qualsiasi chance di impiego potrebbe infatti comportare la perdita del sostegno al reddito. La necessità di slegare il trasferimento da ogni contropartita o vincolo, soprattutto sul piano lavorativo (ovvero di ricerca e accettazione di impieghi), segna ancora più profondamente una linea di demarcazione tra queste misure e quelle che sono le forme di intervento più classiche, quelle a cui ci siamo abituati negli ultimi cinquant’anni, come il sussidio di disoccupazione – che ha un vincolo di partecipazione pregressa al mondo del lavoro – e il sostegno alla locazione – che ha un vincolo di destinazione.

Posto che le economie moderne sono sufficientemente avanzate dal punto di vista tecnologico e produttivo da permettere un trasferimento universale come il Reddito di Cittadinanza, che coprirebbe i bisogni fondamentali di ogni individuo dal punto di vista dello stimolo all’innovazione, alla produttività e alla conseguente dinamica sui salari (il costo del lavoro influenza le tendenze innovative), occorre d’altronde andare ben oltre statiche e (datate) analisi microeconomiche che parlano di “trappola di parassitaggio” e “free riding sul welfare”, un terreno sul quale il libro purtroppo non si avventura, mantenendo una certa continuità con le posizioni più ortodosse.

L’idea di base della microeconomia “vecchia scuola” appare intuitiva, e deriva dall’analisi marginale: se compiere un’azione è faticoso o costoso, si compirà tale attività solo fintanto che se ne ricevono benefici sufficienti; in questo caso, dato un Reddito di Cittadinanza, la teoria neoclassica prevede che le persone tendano a lavorare meno poiché percepiscono marginalmente un minor beneficio dal salario, che si va a sommare al trasferimento. Un presupposto implicito è che la gente percepisca unicamente disutilità dal lavoro e, quindi, necessiti di una compensazione esterna. Ma esperimenti di psicologia cognitiva e sociale hanno contestato l’idea che tutti i compiti siano uguali, nel senso di generare sempre e solo disutilità. Una delle sfide principali della teoria economica è scoprire quali sono gli incentivi e le istituzioni che aumentano la produttività senza alienare i lavoratori. L’appena citato incentivo intrinseco al lavoro non è che uno dei contributi, all’interno degli studi di economia comportamentale, che supportano un’analisi più approfondita degli effetti e delle opportunità nell’introduzione di un Reddito di Base incondizionate dall’attivazione[2].

Altre questioni aperte riguardano la definizione dei criteri di finanziamento della misura, che può variare da una riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche all’introduzione di un’imposta specifica, oppure un aumento delle aliquote IVA o suoi movimenti finanziari. Ma soprattutto risultano caldeggiate proposte di tassazione dei beni fondiari, in linea con l’idea che il Reddito di Base non assumerebbe la forma di redistribuzione, ma di distribuzione tra tutti i membri di una comunità del valore ottenuto da risorse, come la terra, che sono proprietà di tutti. D’altro canto, l’unico esempio attuato di Reddito di Cittadinanza, quello dell’Alaska, pone le basi del proprio finanziamento e della propria ragione d’essere sulla distribuzione di parte dei dividendi ottenuti dallo sfruttamento del petrolio, ovvero di una risorsa naturale.

Un punto reso esplicito più volte nell’arco del libro riguarda la questione dei soggetti/cittadini destinatari, al di là dei mezzi, della misura. Alcuni paventano l’ipotesi che la disponibilità di un reddito rafforzerebbe l’ostilità all’immigrazione[3], ma questo, come sottolineano più volte le autrici, è largamente dipendente dalla definizione del bacino di destinazione della misura, ovvero da dove viene tracciata la linea di demarcazione tra titolari del diritto al reddito di base e non, anche se sembra intuitivo vederne una continuità con i titolari di obbligo di versare le tasse su reddito e capitale all’interno della comunità stessa.

Nonostante la scarsissima casistica di esperienze di Reddito di Cittadinanza, e la moltitudine di pareri contrari alla misura (non ultimo l’episodio del 5 giugno scorso quando, attraverso un referendum, i cittadini svizzeri si sono in larga maggioranza espressi contrari a una modifica della costituzione che avrebbe obbligato il governo a intraprendere un percorso legislativo verso un Reddito di Cittadinanza), la misura sembra vivere un momento di interesse e dibattito a riguardo, da diversi anni almeno. Inoltre, alcuni paesi si stanno muovendo in questa direzione: la Finlandia e i Paesi Bassi stanno progettando esperimenti di reddito di cittadinanza.

Vi sono evidenze economiche, come ad esempio la previsione che i salari non crescono a sufficienza da sostenere l’attuale tenore di vita – si legga consumi – che ne fanno una proposta degna di interesse non solo da parte di chi ne coglie i benefici dal punto di vista della giustizia sociale e della redistribuzione delle risorse, ma anche dal punto di vista della sopravvivenza stessa delle economie avanzate occidentali, in perenne crisi di reddito e occupazionale. In un sistema di auto-imprenditorialità, e di precarietà reddituale (prima ancora che contrattuale), un trasferimento di questo tipo renderebbe la vita meno rischiosa. D’altro canto, il Reddito di Base costituirebbe un salario di riserva più alto, in grado di fornire ai lavoratori un potere di contrattazione maggiore con i datori di lavoro.

 

Note

[1]  Si veda, ad esempio, C. Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Ombre Corte, Verona 2010.

[2]  Pech W.J., “Behavioral Economics and the Basic Income Guarantee” , Basic Income Studies Vol. 5.2, 3, 2010.

[3]  R.A., “Perchè il reddito di cittadinanza è una buona idea”, tradotto su Internazionale, 08/06/2016,

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