Un’etnografia dei resti: da un viaggio dentro a un manicomio

Una recensione di “Urla e silenzi. Storia dell’Ospedale psichiatrico di Verona. 1880-1945” di Gabriele Licciardi (Villaggio Maori Edizioni 2016). Uno sguardo locale sulla lotta furibonda tra la malattia mentale e il concetto di normalità.

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Il lavoro di Gabriele Licciardi sull’Ospedale psichiatrico di Verona è una storia corale, fatta di voci, corpi, idee, che, dalle periferie dei manicomi provinciali, hanno attraversato mezzo secolo, tra processo di formazione dello stato nazionale, due guerre mondiali e una dittatura lunga due decenni, senza entrare a far parte del racconto nazionale1. Narra la lotta furibonda che la malattia mentale ha ingaggiato, per lunghi decenni, con il concetto di normalità che le istituzioni e gli uomini hanno eretto a fondamento del vivere comune.

Licciardi ha costruito il saggio a partire da un’indagine approfondita e scrupolosa delle migliaia di cartelle cliniche conservate presso l’archivio storico dell’ospedale psichiatrico di Verona, incrociata opportunamente con le fonti istituzionali dell’amministrazione provinciale scaligera, ente preposto alla gestione del manicomio2. Non ha disdegnato, inoltre, qualche importante incursione nella stampa del tempo, soprattutto per analizzare le numerose inchieste che un foglio socialista condusse sulle condizioni di vita dei degenti all’interno del nosocomio, scatenando un’invettiva feroce contro la direzione medica ed amministrativa del San Giacomo, nome con cui i veronesi indicavano lo psichiatrico locale.

Il saggio di Licciardi s’inscrive in una nuova stagione di studi che negli ultimi quindici anni ha risvegliato l’interesse per la storia dei manicomi, alleggerendo la produzione storiografica dal carico ideologico che l’aveva caratterizzata sino alla fine degli anni Settanta. Non più il manicomio come istituzione repressiva (anche se il condizionamento delle idee di Foucault3 continua a pesare), non più psichiatria e anti-psichiatria, non più il manicomio come luogo di oppressione sociale: dall’inizio degli anni Duemila si è assistito all’introduzione di nuove categorie interpretative che provano a studiare, ad esempio, la diffusione dell’eugenetica all’interno dei manicomi, l’influenza culturale del regime fascista nella somministrazione delle terapie shock, oppure la relazione fra biopolitica e razzismo4. Negli stessi anni il rinnovamento degli studi di storia della psichiatria ha portato agli importanti lavori di Vinzia Fiorino5 che, lasciandosi alle spalle il paradigma del controllo sociale, ha studiato i processi di medicalizzazione della follia, attraverso un’analisi approfondita delle cartelle cliniche dello psichiatrico romano.

Il saggio di Licciardi, partendo dall’analisi dei quadri nosografici del caso di studio veronese, ricostruisce bene la storia dell’inanità curativa che per lunghi decenni ha contraddistinto la storia della psichiatria. Come accennato, l’approccio istituzionale non può essere rinnegato, poiché la storia dei manicomi è intrinsecamente condizionata dalla storia della nascente borghesia nazionale, restia a integrare le fasce di popolazione che, per motivi diversi, hanno rifiutato l’omologazione nel nome della produttività e della morale cattolica. In tal senso, l’autore ha gioco facile nel mostrare come pellagrosi, alcolisti, vagabondi, isteriche e maniaci religiosi siano le principali caratterizzazioni nosografiche che hanno trovato accoglienza al San Giacomo nel periodo compreso fra il 1880 e il 1915.

Lo stesso periodo che coincide con l’affermazione dello strapotere della figura del Direttore del manicomio, quella figura che ha fornito al ceto dirigente nazionale la soluzione a problemi sociali diversi, istituzionalizzando la pericolosa equazione folle uguale criminale e internando migliaia di persone con lo strumento dello stigma ereditario, in ossequio al più ferreo bio-antropologismo lombrosiano. In tal modo si è potuto evitare di attuare politiche sociali per contrastare i gravi fenomeni di pauperizzazione del ceto popolare, riconoscendo ai frenocomi il compito di proteggere l’intera popolazione dalle rarefazioni mentali.

In cambio, la scienza stessa s’è fatta ceto dirigente. In un processo graduale, ma deciso, nel passaggio dal secolo della borghesia a quello breve la psichiatria s’è resa sempre più indipendente dalla medicina, fortificando il suo statuto epistemologico ma soprattutto la sua forza all’interno della burocrazia di stato, conquistando un ruolo ed un’importanza prima assolutamente sconosciuta. Uno scambio che vedrà il culmine appena qualche anno dopo, durante gli anni della Grande guerra.

Quello che emerge tuttavia con forza dallo studio di Licciardi è un’immagine della gestione della follia tutt’altro che monolitica. A rivelarsi è un coro polifonico fatto di soggetti diversi: famiglia, polizia, sindaci, parroci e burocrazia statale, ognuno impegnato nella gestione della malattia mentale, sicché, contrariamente all’immagine consolidata, capita, e non di rado, di trovare le famiglie come soggetti attivi nella gestione degli internamenti e delle dimissioni, seguendo, più che i cicli terapeutici, quelli economici. Ne esce cioè un’immagine dinamica dell’istituzione manicomiale, che Licciardi racconta con precisione entrando nel dettaglio dei rapporti tra famiglia, Direttore e burocrazia statale, attraverso una lettura innovativa delle cartelle nosografiche.

Il capitolo centrale e più corposo del volume si concentra sul primo conflitto mondiale, che rappresentò una cesura anche in campo psichiatrico, obbligando gli alienisti a interpretare il rapporto fra il corpo della nazione e l’esigenza di combattere una guerra che in molti faticavano a comprendere. L’autore analizza in profondità i casi dei soldati internati nel San Giacomo durante il periodo bellico (circa un migliaio), da un angolo visuale che gli permette di scorgere la relazione fra la psichiatria e la nascente eugenica nazionale. Gli ospedali psichiatrici, durante gli anni di guerra, diventano dei veri e propri laboratori di ingegneria sociale6. Punire i simulatori e i disertori, scovare gli inadatti, ma allo stesso tempo rimandarli immediatamente al fronte per soddisfare la necessità di carne umana che le trincee divoravano troppo velocemente. Al San Giacomo, per i soldati alienati fu spesso utilizzata la cura delle dimissioni con lunghi periodi di riposo lontani dal fronte, una pratica che il volume inquadra nell’idea, divenuta via via più in voga nella psichiatria castrense, di un corpo militare selezionato male, incapace di sopportare lo stress della battaglia, per cui l’allontanamento dal fronte rappresentava la bonifica applicata dagli alienisti a un esercito che doveva interpretare il meglio della nazione.

Quindi nessun pietismo, o nessuna ribellione degli psichiatri al dettato belligerante, ma solo l’ambizione di conquistare un posto di rilievo nella gerarchia delle funzioni di organizzatori della società, mediante lo strumento della perizia psichiatrica. Il risultato è l’evidente incapacità per la giovane scienza alienista di emanciparsi dal positivismo organicista di fine Ottocento, con la conseguenza di non riconoscere la guerra come trauma e causa diretta degli stati nevrotici ma, di contro, creando nuovi quadri nosografici per giustificare il mutismo o le nevrosi post battaglia.

Il capitolo conclusivo analizza il rapporto stretto che il fascismo ha instaurato con i manicomi7, con le sue ricadute in campo terapeutico e la prassi di controllo sociale che il regime ha esercitato sulla popolazione anche attraverso l’internamento negli ospedali psichiatrici8. L’autore ha ricostruito i rapporti fra la dittatura e il nosocomio scaligero attraverso le carte d’archivio che raccontano di un controllo ferreo della struttura, dalle assunzioni alla gestione dei concorsi interni. Leggere le relazioni del Direttore sui risultati delle applicazioni delle terapie shock largamente utilizzate al San Giacomo, come la malarioterapia o l’insulinoterapia, fa capire meglio di ogni altro discorso quanto tale controllo abbia inciso sui corpi e le menti di migliaia di persone. Nel 1938 la rivista di Telesio Interlandi, “La difesa della razza” avrebbe definitivamente mostrato la deriva razzista e bio-antropologica della psichiatria.

Il libro di Licciardi merita di essere letto perché riporta in superficie la cattiva coscienza di un pezzo di ceto dirigente e aggiunge un tassello importante alla storia della psichiatria e degli ospedali psichiatrici italiani.

 

1 P. Babini, Liberi tutti: manicomi e psichiatri in Italia. Una storia del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2009.

2 R. Fianco, L’asilo della maggior sventura. Nascita e sviluppo dell’ospedale psichiatrico di Verona di San Giacomo di Tomba, Verona, Cierre, 1992.

3 M. Foucault, Nascita della clinica. Un’archeologia dello sguardo medico, Torino, Einaudi, 2008.

4 F. Cassata, «La difesa della razza». Politica, ideologia e immagini del razzismo fascista, Einaudi, Torino, 2008.

5 V. Fiorino, Matti indemoniate e vagabondi. Dinamiche di internamento manicomiale fra Ottocento e Novecento, Venezia, Marilio, 2002; Id., Le officine della follia. Il frenocomio di Volterra (1888-1978), Pisa, Edizioni ETS, 2011.

6 I. La Fata, Follie di guerra. Medici e soldati in un manicomio lontano dal fronte (1915-1918), Milano, Unicopli, 2014; A. Valeriano, Ammalò di testa. Storia del manicomio di Teramo (1882-1930), Roma, Donzelli, 2014; M. V. Adami, L’esercito di san Giacomo. Soldati e ufficiali nel manicomio veronese (1015-1920).

7 M. Petracci, I matti del Duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista, Roma, Donzelli, 2014.

8 P.F. Peloso, La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza (1922-1945), Verona, Ombre Corte, 2008.

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