Una lettura di “Per una polizia nuova”, di Michele Di Giorgio (Viella)
Come recita il sottotitolo, il libro presenta il movimento per la riforma della Pubblica Sicurezza nel periodo dal 1969 al 1981: dalla fase clandestina alla riforma dell’istituzione, il cui obiettivo molteplice è stato la smilitarizzazione, la sindacalizzazione, un diverso e più moderno e democratico rapporto con la società civile, il diritto a diverse condizioni di qualità di vita nelle caserme, un’adeguata formazione nelle scuole e una condizione organizzativa umana e funzionale del lavoro.
E la prima considerazione è che questa questione è sconosciuta ai più. Un esempio: quando nel raccontare la memoria storica del ’68 abbiamo presentato ai più giovani i movimenti innovativi e rivoluzionari di quegli anni, abbiamo parlato sì di donne, studenti, operai e dei “credenti” (della chiesa cattolica e valdese), ma abbiamo taciuto proprio sul movimento di base che si veniva verificando in quegli anni appunto nelle forze di polizia. A questo punto, letto il libro, serve un riconoscimento di questa omissione avvenuta per tanti motivi e nonostante tra gli slogan di allora, rivolti ai poliziotti schierati contro le “masse rivoluzionarie”, tipo: “anche tu sei un proletario”, “anche tu sei uno sfruttato”, anche se comunque prevalse per lo più la contrapposizione nel gioco delle parti e i poliziotti venivano etichettati come “servi dei padroni e del potere” ed appellati come “sbirri” o “piedi piatti”.
Il lavoro di Di Giorgio si basa su documenti di varia natura, da quelli ufficiali reperiti meticolosamente in vari archivi, agli interventi giornalistici, ai ciclostilati e volantini di varia parte, alle interviste ai protagonisti di quel movimento, alla storia dell’istituzione di polizia dal punto di vista dei poliziotti, ma va oltre la produzione di un documento di storia non solo per la contestualizzazione dell’assetto politico e culturale di quegli anni, va oltre soprattutto per lo stile di scrittura, “cucitura” e presentazione di tutto questo materiale. Ricorrendo ad una metafora, anche se il libro si basa su documenti testuali e orali, questo non è solo un libro di storia delle idee, di antropologia della cultura: a mio avviso Di Giorgio costruisce un “documentario testuale” in cui i documenti, allineati e coordinati, vengono presentati in un percorso narrativo ed espositivo in cui l’autore è presente indirizzando con commenti e note il lettore come ad assistere al film di una storia sociale e politica.
Molte sono le parti del libro che meritano qui di essere presentate lungo l’asse di questa storia, dalla clandestinità, alla repressione interna e sfruttamento nelle caserme e nel lavoro, alla diffidenza reciproca con le forze sindacali e politiche democratiche, fino alla smilitarizzazione della Ps e alla fondazione dal basso del sindacato di polizia (SIULP, 1979) e a quello ufficiale con il supporto attivo della Federazione sindacale unitaria (4 maggio 1980).
Si parte dalle proteste spontanee dei poliziotti (in parte dopo episodi di morte violenta in strada di colleghi al lavoro), poi il maltrattamento subito e vissuto come “forze dell’ordine” (ordine del potere costituito e retrivo), le aspirazioni di confronto con il resto della società civile a cui, comunque, ritenevano giustamente di appartenere come persone e come lavoratori. In particolare una figura di primo piano è quella di Franco Fedeli con il suo impegno nella redazione della rivista “Ordine Pubblico” (1966) e poi con l’assunzione della direzione della rivista stessa dal 1973; rivista che divenne da subito un fondamentale punto di riferimento, confronto, diffusione e crescita delle idee da parte dei poliziotti democratici autodefinitisi “carbonari” per la loro resistenza di fronte alle forme di repressione esercitate nei loro confronti, per finire – come testimonia la moglie Angela Fedeli nell’intervista del 22 maggio 2015 – con il licenziamento del direttore imposto dall’alto per la sicurezza nazionale. Nel dicembre 1976. Non dissimile come paura “ministeriale”, metodo ed obiettivo (“ragioni di servizio”) fu anche la chiusura del Centro studi di Trieste nel febbraio 1975, «un istituto che consentiva agli agenti di iniziare o proseguire un corso di studi universitari durante l’impiego».
Dicevo che il libro è costruito e produce un effetto di “documentario testuale” anche per altri motivi, oltre a quelli già evidenziati, e non tanto per il corredo delle immagini d’epoca e di varia provenienza che pure arricchiscono il volume. In primo luogo, per la prospettiva assunta da Di Giorgio, costantemente presente come regia nell’esprimere la valutazione degli episodi e dei “racconti” documentati. In secondo luogo, per la strategia di organizzazione dei capitoli del libro: in ognuno di questi il lettore/spettatore ritrova documenti e spiegazioni che, se pur già espresse in altre parti, assumono di volta in volta la funzione di guida come tanti fermo immagine del discorso che pure è unitario.
Anche se il testo con i suoi documenti è comunque fermo nella pagina ed è il movimento del lettore nel processo di lettura che riempie la pagina, l’effetto di documentario è dato dal fatto che il testo si muove e si dipana nel suo proporre immagini di parole ed allora il lettore si trova di fronte sì a documenti, ma soprattutto ad una storia narrata da un autore-studioso che ne “autorizza” e accredita l’interpretazione che propone. Per altri versi sembra di assistere alla venuta alla luce di storie nascoste, ma reali, da parte di tanti poliziotti che oggi possono parlare “come cittadini” e fatte di impegno e presa di coscienza che vanno oltre l’interesse del proprio stato materiale.
In questo quadro, nel libro si assiste alla reazione dei poliziotti alla morte di molti loro compagni e questo è un elemento non trascurabile nella storia della presa di coscienza della propria condizione: dalle reazioni spontanee di testimonianza, a quelle di protesta e manifestazione pubblica, alla ricerca di solidarietà da parte delle forze sindacali, del lavoro, dei movimenti politici e dei partiti. Un punto di partenza in questa prospettiva è stata la morte in servizio della guardia Antonio Annaruma il 19 novembre 1969 e non ultimo quello per l’omicidio dell’agente Claudio Graziosi nel marzo 1977.
Lo sforzo di apertura da parte del movimento dei poliziotti verso fatti esterni alla propria condizione di lavoratori e proletari non è mancato ed è documentato, ad esempio, dallo scambio di lettere pubblicate da “Nuova Polizia” tra Lydia Franceschi (madre dello studente Francesco ucciso dalla polizia davanti all’università Bocconi di Milano il 23 gennaio 1973) e il maresciallo Armando Fontana del comitato organizzativo della polizia di Imperia. Lettere di pietà, di rabbia, di speranza. «Anch’io, cara Lidia, sono stato […] un accanito e convinto manganellatore. Anch’io, col passare degli anni ho preso coscienza, chiedendomi com’era possibile che un figlio del popolo, allevato nei bassifondi di Napoli, che aveva iniziato il lavoro nero all’età di otto anni (perché di famiglia numerosa con padre disoccupato), cresciuto nella miseria, dovesse manganellare proletari come lui. Mi sono dovuto documentare per conoscere certe verità. Ma mi creda, è molto difficile capire certe cose quando si parte da uno stato di semi-analfabeta, con la licenza elementare, raggiunta faticosamente alle scuole serali perché di giorno si doveva lavorare. Una altissima percentuale dei lavoratori della polizia sono come me. La mia presa di coscienza è stata lenta, non solo per deficienze di cultura ma principalmente a causa dell’ambiente che mi soffocava nella sua morsa. […] La mia presa di coscienza l’ho fatta sulla mia pelle. Quante volte, dopo aver caricato un corteo di studenti o lavoratori, che non avevano fatto niente contro la legge, alla sera a letto, non riuscivo a prendere sonno. Davanti agli occhi chiusi dalla stanchezza per le lunghe ore di servizio, mi sfilavano i volti degli operai o studenti terrorizzati che somigliavano a quelli di mio padre, di mio zio e degli amici del mio quartiere.» (pag. 253).
E poi il 23 gennaio 1979 la commemorazione della morte di Roberto Franceschi in un incontro pubblico con la presenza dei familiari, personalità politiche, studenti, operai, poliziotti e cittadini: un andare oltre il cordoglio passando per una “condivisione di classe” e il mirare a costruire una deontologia del poliziotto in sintonia con le istanze della società civile.
Il 1974 segna una svolta nella storia del movimento, grazie all’appoggio dei sindacati e nonostante le riserve (a volte vere opposizioni e contromisure) da parte di esponenti della Democrazia Cristiana. Si tratta delle prove e del coraggio – come dice Di Giorgio (pag. 167) – «per una parziale uscita dalla clandestinità. Era ormai necessario, perché il movimento avesse un futuro, avviare un dialogo sui problemi della polizia anche con la società e con gli altri lavoratori. In questa direzione spingevano le molteplici aperture sindacali e politiche: messi da parte alcuni (legittimi) pregiudizi, in molti avevano individuato nel poliziotto “un lavoratore a bassissimo reddito” privo di molti diritti. “Questa scoperta dell’uomo poliziotto”, scrisse Franco Fedeli, “che è un lavoratore come gli altri, segna una vera svolta storica nel nostro Paese e apre prospettive incoraggianti. Il Sindacato di Polizia, oltre a risolvere problemi d’ordine economico, servirà a modificare radicalmente il rapporto fra polizia e cittadini” [Ordine Pubblico, 18 gennaio 1974]. Le richieste dei poliziotti del movimento si erano fatte via via più articolate e consapevoli. Parole d’ordine corporative e rivendicazioni esclusivamente economiche avevano lasciato spazio a riflessioni di natura più profonda, che investivano anche il ruolo del poliziotto nella società democratica. […] Si trattò di una vera e propria “rivoluzione culturale”, racconta Orlando Botti, le cui parole d’ordine [… furono] anche ideali e democratiche: “cultura, disponibilità per il cittadino e rispetto delle regole” [intervista del 4 aprile 2014].»
Non ultima va qui menzionata la storia delle prese di posizione e delle espressioni per la causa di liberazione civile da parte sia delle donne mogli dei poliziotti come, man mano che il movimento si allarga ed acquisisce consenso all’interno e all’esterno del movimento stesso, sia da parte delle donne poliziotte. Una lotta di emancipazione dal doppio fronte, come è stato in parte anche per il movimento del resto delle donne in quegli anni.
Molte altre e numerose sarebbero le “pieghe” di questa storia, come la costituzione dei comitati di coordinamento o come l’Assemblea all’Hotel Hilton di Roma il 21 dicembre 1974; storia narrata e vissuta dai poliziotti e fatta di ideali ma anche di intimidazioni, trasferimenti punitivi, repressione e processi davanti al tribunale militare, subiti dal 1969 fino alla promulgazione della legge di riforma n.121 del 1 aprile 1981, tanto ostacolata da personaggi politici della DC ma anche da parte di prefetti ed alti ufficiali di polizia.
Un estratto tuttavia merita qui di essere riportato per la sua particolarità: il documento di analisi e riflessione critica scritto dal Movimento Studentesco in un volantino (pagg. 190-191): «Negli ultimi mesi si è fatta avanti con forza, imponendosi all’attenzione del paese, la lotta per la costituzione del sindacato degli agenti di Pubblica Sicurezza. Le forze della destra hanno lanciato un’offensiva reazionaria proprio nel momento in cui si afferma all’interno della stragrande maggioranza degli agenti questa esigenza. In questi 30 anni la polizia è stata uno degli strumenti più fedeli del governo democristiano, usata fuori dai compiti istituzionali, contro i lavoratori e le loro lotte, usata contro le rivendicazioni di democrazia e giustizia, usata contro le aspirazioni di miglioramento delle condizioni di vita delle masse popolari. Ecco perché le forze di destra hanno paura, perché temono il crescere della coscienza democratica, perché non vogliono che gli agenti di P.S. abbiano l’opportunità di lottare per il miglioramento della loro situazione, perché non vogliono che essi pensino con la propria testa. […] Il tentativo più pericoloso è però quello di strumentalizzare lo scontento, e l’esasperazione contro la delinquenza comune (per fronteggiare la quale vengono posti solo poche migliaia di agenti) per far appoggiare leggi contrarie ai lavoratori come l’uso indiscriminato delle armi e il fermo di polizia […] Finora questo tentativo non è riuscito: gli agenti di P.S. hanno portato avanti importanti iniziative di lotta, stanno proseguendo nella strada dell’organizzazione sindacale.»
Per tutto il resto, però, rimando alla lettura del libro, alla felice regia del testo di Di Giorgio, a partire dall’Introduzione in cui presenta il quadro storico di questo lungo percorso, fino alle Conclusioni temporali di questa storia frastagliata e intensa per quella generazione, per quei lavoratori democratici della Ps il più delle volte presentati in una prospettiva deformata e falsa da parte di chi temeva per il mantenimento del proprio potere in Italia, che chiamava stupidamente stabilità sociale.
Per la gentile concessione delle immagini ringraziamo Angela Fedeli.