La crisi, gli spazi, i tempi e i beni comuni. Sul Manifesto per riabitare l’Italia, a cura di Domenico Cersosimo e Carmine Donzelli (Donzelli 2020).
Posizionati come siamo nella crisi globale che ha preso il nome dalla malattia infettiva che l’ha determinata (Covid-19), le peculiarità delle cosiddette aree interne sono state ripensate nei termini di potenziali attrattori nel contesto della sfida – e della sopravvivenza – al contagio. Quando si parla di aree interne si fa riferimento a caratteristiche come la ridotta concentrazione abitativa e produttiva, la disponibilità di spazio, la qualità dell’aria e degli altri elementi della natura, la rarefazione delle relazioni fredde. La pandemia ha evidenziato la vulnerabilità della preminenza urbana, mandando in crisi le grandi strutture ospedaliere qualificate e concentrate nello spazio metropolitano. Più in generale, questa fase ha ulteriormente dato prova della difficoltà del centro di continuare ad essere egemonico, nonché dell’inadeguata lettura delle aree urbane come spazi esclusivi di innovazione e possibilità per il futuro.
È questa una delle tesi al centro del Manifesto per riabitare l’Italia, un libro che per la sua formulazione (un manifesto, cinque commenti e un dizionario di 28 parole chiave), per i suoi propositi programmatici e per la prospettiva politica che assume (una nuova «iniziativa riformatrice», p. IX), si presta ad essere oggetto di riflessioni e dibattito intorno alla necessità di costruire una nuova rappresentazione territoriale dell’Italia e intorno alle proposte per riabitarla.
Il Manifesto non è un’iniziativa editoriale primigenia. È il prosieguo operativo del volume Riabitare l’Italia, che già proponeva un approccio alternativo alla questione territoriale del nostro tempo che interessa non più e non solo il Sud, ma anche altri spazi geografici un tempo considerati la polpa del tessuto socio-economico del paese. Si trattava delle coste, delle pianure e, più in generale, delle aree interessate dallo sviluppo contrapposte ad un osso scarsamente popolato, con conformazione demografica sparsa, con fondi scoscesi e limitatamente fecondi e con pochi collegamenti. L’interesse suscitato dal volume è stato motivo di stimolo per il prosieguo del lavoro di riflessione e di impegno culminato nella creazione dell’associazione Riabitare l’Italia il cui daffare si dispiega sia sul piano della ricerca, sia su quello delle battaglie civili. Lo scopo è quello di invertire e ravvicinare lo sguardo sul paese per rifuggire dalle rappresentazioni stereotipate e di stimolare la capacità di agency dei locali. Il Manifesto è, quindi, il terzo atto di un percorso intrapreso.
Gli autori del Manifesto propongono di guardare all’Italia del margine come ad una risorsa in quanto produttrice di «stimoli alternativi, fantasie d’impresa, impegno diffuso di organizzazioni di cittadinanza attiva, che presuppongono modelli di produzione e di socializzazione, stili di vita, rapporti con il proprio corpo, con la terra e con la natura, riscoperte di tradizioni e culture profonde, immedesimazioni nei luoghi e nel loro significato» (p. 9). Al fulcro l’idea che i luoghi direzionali per eccellenza del passato, i centri, non abbiano più un ruolo trainante per l’economia e le relazioni sociali. In questo senso, la pandemia da Covid-19 ha icasticamente mostrato l’incapacità del centro di rispondere ai traumi. Le aree ad alta densità di popolazione, aveva scritto David Harvey già prima che la pandemia assumesse le dimensioni che oggi conosciamo, avrebbero favorito una rapida trasmissione virale di cui con fatica avrebbero retto l’urto. In questo quadro, le aree marginali e interne – se scarsamente colpite dal contagio – potrebbero risultare più resilienti anche con riferimento alla possibilità di accesso alle ricchezze collettive attraverso una loro redistribuzione diffusa e una governance di comunità. Lo scrive in maniera chiara Pietro Clemente: «Ritornare alla terra, abitare i luoghi e le zone interne può essere un modo di contrastare le pandemie» (p. 188). I luoghi del margine potrebbero essere territori di benessere di spazio dove non c’è abbandono, ma neanche affollamento.
Tra le pagine dedicate alle parole chiave che accompagnano il Manifesto, Vito Teti suggerisce che nel piccolo luogo si possono esperire nuovi legami con la natura e i suoi elementi originari, a partire dalla terra, oggi al centro di svariate iniziative per la mappatura, il riordino, l’assegnazione. Ma non sempre queste centrano l’obiettivo dell’accesso diffuso. Alessandra Corrado e Carlotta Ebbreo definiscono «generazione del ritorno alla terra senza terra» quel segmento di popolazione in situazione di precarietà e con limitate possibilità di accesso al credito, ma capace di attivare processi di cambiamento in loco in relazione all’uso delle risorse naturali. Nella prospettiva di riabitare l’Italia, il ritorno alla terra è parte imprescindibile di un processo che necessiterebbe un «accompagnamento attraverso politiche integrate di riduzione delle diseguaglianze» (p. 223) e di sostegno al reddito affinché, oltre che di un benessere di spazio, si possa godere anche di un benessere di tempo e fare a meno delle altre e combinate attività integrate.
Biodiversità, suoli fertili e puliti, paesaggi agrari, alimenti salubri e di qualità e mercati nidificati prodotti rappresenterebbero una ricchezza reale non mercantile espressa in beni comuni e valori d’uso, destinati a soddisfare diritti fondamentali della persona, che potrebbero trovare il loro riconoscimento pubblico in un reddito sociale. In un’Italia già fortemente a rischio di concentrazione fondiaria, con l’1% delle aziende che controlla il 30% delle terre agricole, sarebbero indispensabili modalità di riorganizzazione e agevolazione all’accesso alla terra in primis per quegli assetti fondiari demaniali, collettivi o soggetti a usi civici ascrivibili alla titolarità diffusa degli abitanti. La prospettiva di inventare «nuove istituzioni» (p. 21) potrebbe guardare con interesse alle convergenze che si creano attorno a sistemi virtuosi di godimento collettivo delle risorse locali nei quali le condizioni di produzione sono sganciate dalla mera crescita economica.
Lo sforzo di elaborazione teorica degli autori del Manifesto e dei discussant chiamati a commentarlo punta molto sulla necessità di riconoscere gli innovatori sociali, ovvero coloro che «ricorrono a mezzi originali per raggiungere obiettivi dotati di valore collettivo» (p. 138), al fine di dotarli di legittimità e capacità politica. Tuttavia, questo sforzo trascura la possibilità, teorica e pratica, di riconvertire – anche attraverso il conflitto – il capitale in ricchezza diffusa, nella prospettiva di attaccare i rapporti di classe che anche nei luoghi del margine possono marcare diseguaglianze e disparità. L’opera di individuazione di soggetti, idoneamente supportati dalle istituzioni, in grado di dare risposte capaci a invertire il processo di marginalizzazione territoriale, potrebbe essere inefficace se si dimenticasse che esistono limiti di intervento invalicabili in quanto sistemici. Il «modello di sviluppo “lineare” e progressivo» (p. 3) ha portato con sé quelle trasformazioni di congiuntura, a partire dal «turbo-capitalismo globalizzato» (p. 141) e dalla «trasformazione digitale del sistema sociale e produttivo» (p. 144), come le definisce in modo incisivo Domenico Cersosimo, che sono di per sé causa delle distorsioni segnalate.
Il Manifesto addebita ai partiti e alle istituzioni pubbliche la responsabilità di avere progressivamente rinunciato a promuovere il cambiamento. Quanto tale rinuncia sia derivata da pigrizia intellettuale e non da consapevole adesione agli interessi del sistema economico predominante è una questione che meriterebbe di essere ulteriormente problematizzata affinché una potenziale coscienza dei luoghi non rischi di ridursi ad un posizionamento indifferenziato nella lotta politica.