Si fa presto a dire “camorra”

La camorra come questione politica, economica, sociale, mediatica. 

Un’analisi dal ritmo lento, una riflessione a partire da “Affari di camorra. Famiglie, imprenditori e gruppi criminali”, a cura di Luciano Brancaccio e Carolina Castellano (Donzelli, 2015).

Affari di camorra è un libro che ci si ritrova a sfogliare spesso, anche a un anno e più dalla sua pubblicazione. Risale a pochi giorni fa l’ultima azione armata a Napoli nel rione Sanità – in questi mesi teatro di diversi omicidi – con l’irruzione dei killer in un circolo della Madonna dell’Arco: due morti e tre feriti lievi il bilancio. E come spesso accade quando il numero o l’identità delle vittime attirano l’attenzione dei media, ecco che prende il via l’ennesimo giro di giostra, in cui la ricerca un po’ morbosa delle prime immagini lascia gradualmente spazio a sentimenti di impotenza, vulnerabilità, orrore, variabili a seconda della prossimità di ciascuno con l’evento in questione. In coda, si apre (e si chiude in fretta) il dibattito rituale sui rimedi, le soluzioni, le responsabilità delle istituzioni e della società tutta, in una nuvola di parole già dette che si frastaglia un po’ alla volta per dissolversi immancabilmente nel nulla.

Un giornalista interrogava un prete del rione Sanità il giorno dopo il duplice omicidio. «Ormai Napoli è la più grande piazza di spaccio d’Europa – diceva questo. Prima i boss storici riuscivano a controllare il territorio, ma adesso sono tutti in galera. Il territorio è in mano a giovanissimi che arrivano in moto, sparano in pieno giorno…». E concludeva: «Ormai siamo in guerra». In un servizio più ampio, mandato in onda qualche giorno dopo nel programma televisivo Le Iene, un presunto ex affiliato rimpiangeva la «vecchia scuola» quasi con le stesse parole. Il pezzo forte del servizio era però l’intervista a cinque minorenni incappucciati, sedicenti criminali, in una rappresentazione plastica delle «paranze di bambini» che in questi mesi sono sulla bocca di tutti, declinazione aggiornata del gruppo di fuoco camorrista, che fonde – in una versione ferocissima e incontrollabile – due classici dell’immaginario giornalistico sul tema, il baby-killer e la baby-gang.

Questi schemi così elementari, questa vaghezza di riferimenti e identità, in definitiva questa lontananza dalla complessità, talvolta ingenua, talaltra premeditata, la ritroviamo nelle peggiori rappresentazioni mediatiche, ma anche, e non di rado, nelle frasi approssimative di coloro che nella commedia recitano la parte dei benintenzionati, di chi si è scelto o è stato investito del ruolo di coscienza critica e di testimone privilegiato. E se le prime le consideriamo fisiologiche in un sistema che produce ormai quasi soltanto spazzatura, le seconde preoccupano di più perché, nella loro puntuale riproposizione, così generica e quasi rassicurante, è come se mettessero un sigillo all’impotenza di tutti.

È anche per questo, forse, che si riprende in mano un libro come Affari di camorra (insieme ad altri, usciti in anni recenti, di autori come Isaia Sales, Francesco Barbagallo, Gabriella Gribaudi), innanzitutto per ritrovare un’analisi rigorosa e sistematica, per scendere dalle montagne russe dello “spettacolo del male”, con le sue descrizioni a effetto, le strumentalizzazioni, i narcisismi, e mettere finalmente i piedi per terra, trovare un ritmo più lento, riflessivo. Un ritmo che non serve solo a isolarci dalla confusione, e ancora meno a tenere a bada la rabbia o il panico, ma piuttosto ad approfondire lo scoramento e il senso di vertigine, sgombrando il campo da semplificazioni interessate, consolatorie, di cortissimo raggio.

Il libro curato da Brancaccio e Castellano ospita contributi di ricercatori di diverse discipline, compresi psicanalisti e magistrati, utilizzando anche fonti orali, oltre alla letteratura e ai risultati delle inchieste giudiziarie, provando ad allargare lo sguardo su un panorama in cui le pistolettate per strada sono appena uno dei tasselli, tutti strettamente correlati, in un mosaico delittuoso che abbraccia strati sociali e ambiti spaziali molto più ampi. Centrale, in molti capitoli del volume, è la rilevanza delle cosiddette «aree grigie», che giocano un ruolo decisivo nella riproduzione mafiosa e nella capacità di accoglienza di gruppi criminali anche in aree di non tradizionale insediamento mafioso. L’area grigia comprende sia la rete di connivenze che su diversi livelli – professionisti, funzionari pubblici, politici e amministratori – fiancheggiano i gruppi criminali, sia il contesto sociale in cui si generano i clan. Il concetto di gruppo di criminalità organizzata sembra esplodere per far posto a reti mafiose aperte che abbracciano settori sociali ed economici talvolta molto vasti, in cui la scala territoriale può espandersi a dismisura – pur conservando spesso un radicamento iper-locale – e in cui il livello criminale violento non è necessariamente quello preponderante.

La genesi del gruppo di camorra contemporaneo, sostiene Brancaccio nel suo contributo, non sempre coincide con la carriera criminale del capo, e tale carriera non sempre procede in maniera progressiva a partire dai livelli più infimi della scala sociale. Si tratta, invece, di un cammino che può prendere traiettorie diverse. Per esempio quella della penetrazione in mercati illegali o irregolari – ma talvolta anche in quelli legali – che richiedono, accanto all’attitudine violenta, anche spiccate capacità imprenditoriali, non di rado generando una relazione contraddittoria tra le due dimensioni: l’una razionale e apparentemente controllata, l’altra emotiva, apparentemente irrazionale, violenta. In questo senso, la casistica delle relazioni tra imprenditoria e gruppi criminali – analizzata da Stefano Consiglio ed Ernesto De Nito – può essere considerata a seconda dell’assetto proprietario, delle finalità, delle motivazioni e del comportamento imprenditoriale, in uno spettro che va dall’accettazione estorta fino all’identificazione dell’imprenditore con il clan.

Riguardo alla violenza, fulcro di ogni ragionamento intorno all’universo criminale, il magistrato Filippo Beatrice s’interroga, nell’ultimo capitolo, sulla funzione e sui costi dell’omicidio nell’affermazione dei gruppi criminali (per come si manifesta nei conflitti all’interno dei gruppi ma anche verso l’esterno) rilevando una mancanza di gradualità nell’uso della violenza, una sproporzione tra l’uso che se ne fa e il fine criminoso da perseguire, e quindi l’indifferenza di fronte alle possibili conseguenze sanzionatorie. Circostanza che mette in crisi le contromisure normative, investigative e di ordine pubblico ma anche le difese mentali e in ultima istanza le forme del vivere quotidiano in una determinata società. «In altri termini – scrive Beatrice –, non è da escludere che il rischio di essere tratti in arresto o di essere poi condannati per aver commesso un omicidio sia ritenuto, in definitiva, sostenibile rispetto alle esigenze criminali del momento, almeno quando l’azione violenta è diretta contro un soggetto che è parte del medesimo contesto camorristico, sia pure appartenente a un gruppo rivale».

Un caso di scuola, a cui accenna lo stesso Beatrice – e che travalica anche i limiti tracciati dal magistrato, per la noncuranza che sembra guidare il gruppo di fuoco nei confronti del «mondo esterno» – è quello dell’escalation omicida intrapresa da Giuseppe Setola e dalla sua banda, tra maggio e dicembre del 2008, quando l’ex braccio armato del clan Bidognetti, dopo l’evasione dai domiciliari, mette in atto una strategia tanto semplice quanto spietata per riprendere in mano gli affari del clan: in pochi mesi la banda colpisce familiari dei pentiti, imprenditori che si rifiutano o si sono rifiutati in passato di pagare le tangenti, ladri e spacciatori che agiscono senza rendere conto alla banda. Una serie continua e indisturbata di agguati mortali, ferimenti, intimidazioni armate, fino alla strage dei ghanesi del 18 settembre, al km. 43 della statale Domitiana. Anche in seguito, quando la scia di sangue è giunta finalmente sotto gli occhi dell’opinione pubblica, ancora ammazzamenti e agguati, nonostante i primi arresti dei membri della banda, fino alla cattura del capo, avvenuta a metà gennaio del 2009.

È quasi un paradosso, in questo senso, che dalla lettura di questo libro si possa arrivare alla conclusione che sia necessario impiegare l’esercito per arginare la violenza di strada[1]. Basta considerare da vicino quel che sta accadendo nel rione Sanità – solo uno dei tanti scenari della violenza metropolitana – per respingere senza appello questa ricorrente ricetta, che è anche, allo stesso tempo, un modo implicito per comprimere il problema del crimine organizzato nel suo ambito – spaziale e sociale – più efferato e primordiale, quello di gran lunga preminente nella percezione dell’opinione pubblica, e che finisce per monopolizzare i temi del dibattito e i modi delle sue rappresentazioni, con esiti di parzialità e semplificazione spesso intollerabili.

L’osservazione del rione Sanità in questi ultimi mesi rende evidente una doppia impasse, alla quale non è estraneo il condizionamento talvolta insuperabile che la reiterazione della violenza omicida porta con sé; un’impasse che non è solo degli organismi istituzionali ma anche dei cittadini, delle parrocchie, dei movimenti. L’incombere della violenza in un perimetro assai circoscritto, come la piazza di un quartiere, genera in questo caso una doppia reazione, delle istituzioni e dei cittadini organizzati, ma allo stesso tempo ne restringe i margini di manovra, stabilendo i confini e la posta in gioco; infine, all’interno di quegli angusti confini, mette in scacco entrambi.

Dopo l’uccisione in piazza Sanità del diciassettenne Genny Cesarano nello scorso settembre, durante un raid notturno su cui non è stata ancora fatta luce (almeno pubblicamente), le parrocchie e le associazioni hanno organizzato cortei e fiaccolate, non solo nel quartiere ma anche nelle piazze del centro cittadino. Il parroco della chiesa che dà sulla piazza ha invitato gli abitanti a esporre ai balconi dei drappi viola fino a quando le istituzioni non avessero mostrato una presenza continuativa ed efficace nel quartiere. In quei giorni la polizia e i carabinieri hanno cominciato a presidiare saltuariamente la zona, ma questo non ha impedito ai killer di freddare il boss Pierino Esposito, in quella stessa piazza, nel mese di novembre; quasi un anno dopo l’omicidio del figlio ventenne, a pochi metri di distanza. Dopo di allora è stata stabilita la presenza fissa dei militari, come accaduto del resto in altre piazze della città. Nello spazio tra la postazione dei militari e l’aiuola commemorativa curata dai giovani amici di Genny Cesarano, il comune ha installato in questi mesi una mostra su Totò, fatta con pannelli in forma di segnali stradali con sopra stampati disegni e poesie. All’affollamento dello spazio orizzontale ha fatto seguito la decorazione di quello verticale: un artista argentino ha completato in pochi giorni due enormi murales, uno sulla facciata laterale della chiesa e l’altro sul palazzo che la fronteggia. A non più di trecento passi da questo composito scenario, in qualche modo scaturito dall’insofferenza delle istituzioni e della comunità locale verso i più recenti fatti di sangue, il 23 aprile, alle otto di sera, si è consumato il cruento agguato nel circolo di via Fontanelle.

A mezza via tra l’ipocrita rincorsa per trovare soluzioni definitive e la coazione a ripetere manifestazioni poco più che simboliche. Un terreno d’incontro in cui ricercatori e studiosi dei fenomeni criminali comincino a dialogare con i settori più sensibili e reattivi della società, potrebbe forse costituire l’occasione per attivare processi simili a quelli registrati, per esempio, in Campania durante il lungo periodo dell’emergenza dei rifiuti, con esiti non certo definitivi e lineari ma con un’innegabile innalzamento della complessità del dibattito e della consapevolezza della cittadinanza, anche attraverso forme di mobilitazione inedite e molto più ampie di quelle tradizionali.

Le analisi dei dati disponibili – siano essi risultanze di indagini giudiziarie, testimonianze degli attori in gioco o stime sull’incidenza del crimine nella nostra economia – ci indicano una serie di pratiche diffuse in tutti gli strati della società, in numerosi ambiti professionali, in porzioni crescenti del territorio nazionale. La mobilitazione dei cittadini contro il crimine organizzato non può essere allora prerogativa di settori e operatori specializzati, irrigiditi da tempo in rappresentazioni dicotomiche pronte per l’uso (vittime/carnefici, legalità/illegalità, ecc.) che ne hanno ridotto l’efficacia e la presa sulla realtà, sovente costringendoli nel ruolo di semplici appendici delle ipocrite cerimonie istituzionali. A fronte di tale pervasività, la responsabilità di trovare forme e strumenti adeguati per contrastare le camorre investe tutti gli ambiti della cittadinanza, e in primo luogo, naturalmente, coloro che tra i cittadini detengono maggiore potere (e quindi c’è poco da esultare, come ha fatto in questi giorni il sindaco di Napoli, se la magistratura coglie con le mani nel sacco un rappresentante del partito rivale, perché le “mani pulite”, in questo caso, non bastano a compensare la cattiva amministrazione). Si tratta allora di andare oltre il ricatto quotidiano della violenza, integrando la mobilitazione contro le camorre in un movimento complessivo di critica al sistema politico, sociale ed economico.

 

[1] Si veda M. Demarco, «Il cadavere a terra ignorato per ore e la zona grigia della camorra», in Corriere della sera, 18 ottobre 2015.

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