A metà tra saggio, inchiesta e pamphlet Le pietre e il popolo di Tomaso Montanari riflette sull’usura del valore civile del nostro patrimonio e sulle cause che l’hanno determinata. Un viaggio a tratti lugubre nell’ideologia del marketing culturale che domina il nostro Paese.
Recensione a Le Pietre e il Popolo di Tomaso Montanari
Quando ospito un amico a casa mia, a Bolzano, uno dei principali argomenti di conversazione è rappresentato dai monumenti costruiti durante il ventennio fascista che ancora persistono nel tessuto urbano della città. In particolare il Monumento alla Vittoria e il fregio che “orna” il palazzo degli uffici finanziari, proprio dirimpetto al Tribunale. Relitti li chiama qualcuno, con metafora tutto sommato fortunata.
Non è facile spiegare a chi non vive fin dalla nascita e giorno per giorno la realtà bolzanina perché sono convinto che non sia una buona idea rimuovere quei monumenti. Ho provato a farlo quando, nel 2011, un accordo tra i deputati della SVP e l’allora Ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi aveva riacceso la questione della rimozione dei relitti del fascismo che ancora punteggiano Bolzano.
Sono convinto che se quelle pietre possono raccontarci qualcosa del Fascismo, del distorto rapporto che il Regime intraprese con la Storia, dell’uso tecnicizzato che del passato venne fatto dal Duce, dai suoi gerarchi e via seguendo la catena di comando e della megalomania che ne improntò gli interventi urbanistici e archittetonici (quella Brutalität in Stein alla cui ricerca va Alexander Kluge nel suo omonimo cortometraggio, omaggiato da Edgar Reitz in uno dei primi episodi del suo Die Zweite Heimat), ecco, se quelle pietre possono raccontarci qualcosa di tutto questo lo possono fare soltanto dialogando con l’impianto architettonico, urbanistico e paesaggistico circostante. Solo nelle idosincrasie e nelle rotture che questi relitti operano nello spazio circostante possiamo davvero intraprendere un dialogo con essi e intendere la delirante lingua che parlano: la lingua del totalitarismo.
Musealizzare questi monumenti li renderebbe afoni e ne farebbe, come dimostrano le reciproche recrudescenze di fetido nazionalismo che accompagnarono il dibattito in quei giorni dell’inverno 2011, feticci ad uso e consumo di revisionismi e nuove tecnicizzazioni.
Questo rapporto – mai così rischioso, difficile e doloroso come in questo caso – tra i monumenti e le persone che vivono la città è al centro del bel volume di Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo pubblicato pochi mesi fa dai tipi di minimum fax.
Laddove s’incontrano saggio, inchiesta e pamphlet è in quella terra che prende corpo la scrittura di Montanari. Lo storico dell’arte analizza con impietosa lucidità lo scadimento della funzione civile del patrimonio storico artistico italiano che è al centro dell’articolo nono della nostra carta costituzionale.
Questo ruolo è stato esposto da più di vent’anni all’usura rappresentata da quell’ideologia del marketing che ha voluto fare del patrimonio un bene monetizzabile, ipotetico volano di un’altrettanto ipotetica funzione economica della cultura. Nella trasformazione delle città d’arte in brand turistici si è così reciso il legame tra il popolo italiano e quella straordinaria e concreta memoria rappresentata dalla trama di edifici e spazi che costituiscono le nostre città.
Lo svuotamento dei centri urbani, la costante sottomissione e alienazione di questi beni comuni a interessi privati hanno col tempo modificato il rapporto tra i cittadini e il patrimonio, obliterando la funzione educativa per sostituirla con una ben più vaga idea di fruizione che altro non è che la trasformazione della cittadinanza in semplice clientela.
Emerge così una trama di relazioni che negli anni ha legato centri di potere politico, religioso ed economico. Un’invisibile mutazione genetica del dettato costituzionale passata sottotraccia. Non una mutazione irreversibile, va detto, come dimostrano i tanti esempi di resistenza che costellano le vicende raccontate da Montanari. C’è ancora chi, tra le pieghe di una trama che s’infittisce giorno dopo giorno, buca la coltre di cui si ammanta il nostro patrimonio. Tanti scrivani Bartleby che di fronte all’arroganza del potere hanno “preferito di no”.
Com’è accaduto durante la spoliazione della Biblioteca dei Girolamini, vicenda dai contorni agghiaccianti e grotteschi per come si è delineata, dove la passione civile di due bibliotecari precari ha permesso di squarciare il pesante tendaggio che celava l’evidenza del cadavere.
Su questo vale la pena di riflettere, perché a chi propone la cultura come volano della rinascita economica del Paese spesso sfugge che la gestione del patrimonio improntata a criteri aziendalistici, il marketing aggressivo dei grandi eventi, il costante abbassamento del livello del dibattito pubblico non ha creato benessere. Ai giovani laureati (e non solo a loro) è stata riservata la giungla perpetua del precariato, che ne svilisce le competenze e ne castra la funzione di formatori ed educatori del senso di cittadinanza.
A poco serve opporre a questa situazione, che ha la forza dell’evidenza, il disprezzo delle regole e dei vincoli come fanno i fautori della visione economicistica della cultura per giustificare i propri fallimenti e le proprie frustrazioni. Non c’è benessere quando si privatizzano i ricavi e si socializzano le perdite. L’impietosa analisi della figura di Matteo Renzi e delle sue ossessioni che Montanari ci restituisce negli ultimi due capitoli del libro ci mostra proprio a quanto possa spingersi l’arroganza del Potere.
Nel dipanare i fili di quel groviglio di berlusconismo in salsa veltroniana che è l’attuale sindaco di Firenze, Montanari compie valida operazione di decostruzione dell’ideologia che impera nella gestione del nostro patrimonio e ne fa la genealogia. Così facendo, allo stesso tempo, ci mostra le vie di fuga possibili per sfuggire a questa cattura, la cui marea montante ci lambisce con sempre maggior forza, e violenza.
In questi giorni durante i quali l’orizzonte mediatico sugge bulimico le immagini di rivolta provenienti dalla Turchia ha forse ancor più senso, e forza, leggere Le pietre e il popolo, perché nel Levante, come fa notare Wu Ming, la rivolta nata dalla difesa di un parco alza la voce di fronte alla repressione per riaffermare, col gesto disperato di chi non ha null’altro che il proprio corpo da opporre, il “diritto al paesaggio”.
Che è diritto al rapporto del popolo con le pietre che gli appartengono, diritto di vivere lo spazio in un rapporto dialettico che crea identità genuina e non simulacri di essa, diritto di parlare la lingua della città che a volte è lingua di conflitto e, tragicamente, lingua di violenza.
Ma di fronte alla cieca sordità del potere a volte non c’è altra strada che non sia la resistenza.
Il popolo di Gezi Park e dell’intera Turchia questo lo ha imparato a proprie spese. A quei martiri e alle loro pietre dedico queste parole.