Un intervento di Étienne Balibar su islamofobia e antisemitismo
Il testo che segue è l’intervento di Étienne Balibar a un convegno su Razzismo e Antisemitismo, i cui atti completi sono stati pubblicati come numero speciale del The Journal of the Hannah Arendt Center for Politics and Humanities at Bard College. La pubblicazione in italiano è utile perché contribuisce a capire meglio le questioni teoriche soggiacenti ad alcuni fenomeni, come la radicalizzazione speculare degli integralismi, la controversia fra integristi universalisti e antirazzisti e il nazionalismo di classe che ostentano Stephane Beaud e Gérard Noiriel contro l’intersezionalità. Ricordiamo che in Francia l’ostilità contro antirazzisti, “intersezionalisti”, antisessisti e anti-islamofobia è diventata una vera e propria crociata che di fatto unisce l’estrema destra, la pseudo-sinistra laicista e repubblicana, e quindi nazionalista se non apertamente sciovinista, e infine il governo e il presidente Macron, che hanno varato una legge sulla sicurezza globale e una contro il “separatismo” con evidente connotazione islamofoba. Questo schieramento nazionalista che Macron vuole egemonizzare di fatto, oltre a cercare di togliere potenziali voti alla concorrente Le Pen in vista delle elezioni presidenziali del 2022, mira a cancellare ogni spazio alle rivendicazioni antirazziste che negli ultimi anni sono anti-islamofobe, femministe, antisessiste e quindi intersezionaliste. Tutte istanze condannate in quanto nemiche di una “universalità laica repubblicana” francese che, come segnalava lo stesso Balibar in un altro suo saggio, non aggrega ma divide, esclude. In questo articolo è particolarmente importante il fatto che l’islamofobia sia riconosciuta come una forma di razzismo del tutto pari all’antisemitismo e alle discriminazioni basate sul “colore della pelle”. Inoltre, è rilevante che sia evidenziato quanto i razzismi in ascesa nel XXI secolo siano alimentati attraverso un registro teologico. Di Etienne Balibar in collaborazione con Immanuel Wallerstein segnaliamo: Razza nazione classe: le identità ambigue, Asterios, 2020 (il traduttore, Salvatore Palidda).
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Sono estremamente onorato di venire a discutere di razzismo contemporaneo per il Centro Hannah Arendt. Avevo proposto un titolo provvisorio (“Nuovo Razzismo” o “neo-razzismo”) per darmi il tempo di riflettere ma anche per fare il ponte con un dibattito degli anni ‘90 al quale ho contribuito con altri, e che portava sullo spostamento da un “razzismo biologico” a un “razzismo culturale”, denominato elegantemente “razzismo differenzialista” (Colette Guillaumin, Pierre-André Taguieff) 1. Queste denominazioni non sono innocenti. Qualche settimana fa ho avuto l’onore poco invidiabile di essere attaccato dal giornale tedesco Junge Freiheit (l’organo del partito neo-nazista Alternative für Deutschland) come l’inventore dell’idea di un “razzismo senza razze”. L’autore dell’articolo spiegava che tale tipo di formulazione cerca di stigmatizzare i “buoni patrioti” che si sforzano di erigere una barriera davanti all’invasione dei migranti che minaccia la loro identità nazionale.
Ciò che è certo è che in un contesto in cui le controverse relative agli effetti demografici reali o immaginari dei flussi migratori del Sud verso il Nord del pianeta, consecutivi al processo di decolonizzazione e di mondializzazione, cominciano a invadere lo spazio pubblico, noi siamo fra quelli che vogliono studiare gli effetti di uno scivolamento semantico che fa sì che il significante (o il nome) “razza” si sposti lungo una “catena d’equivalenze” in cui può essere parzialmente o completamente rimpiazzato da altri nelle sue funzioni di discriminazione: [vedi l’uso e abuso dei termini] “etnicità”, “cultura”, “differenza”, “alterità”. Tutto è beninteso questione di contesto2. Non penso che tali discussioni abbiano perduto il loro interesse, al contrario, ma occorre oggi ricentrarle e riformularle, per tener conto delle tendenze che sono in primo piano nella congiuntura attuale, in cui in particolare le tensioni di sempre tra demografia e democrazia, toccano dei livelli di conflittualità inquietanti 3.
Occorre, beninteso, poter consacrare lunghe analisi a tale tema, cosa che non posso fare qui, anche perché voglio andare il più direttamente possibile all’idea che costituirà il mio contributo principale al dibattito di questo convegno, cioè che l’antisemitismo e l’islamofobia sono dei discorsi di odio che occorre esaminare insieme, comparando la loro estensione mondiale, che attraversa le frontiere, e la specificità delle loro manifestazioni locali. Beninteso fanno parte l’uno e l’altra di ciò che si può chiamare il “razzismo”, in senso largo. Ma essi se ne distinguono anche simmetricamente, anche se seguendo non esattamente le stesse modalità. Ciò dipende in particolare dal modo singolare in cui vi si articola un discorso della razza con un registro di significazione teologica e teologico-politica, in un senso che conviene anche precisare. Prima di arrivare a questo devo formulare due annotazioni preliminari a carattere metodologico.
Ecco la prima: il razzismo non ha una forma unica, né quindi una forma semplice. Essenzialmente è “differenziato” perché porta le tracce di molteplici storie, è legato a una grande varietà di strutture di potere e di discriminazioni, e si combina sempre con altre passioni politiche e sociali. Perciò, periodicamente dei tentativi ne producono una “definizione”, o ancora unificano le differenti definizioni dei suoi “oggetti”. Ciò è sempre problematico, ma comporta anche il vantaggio di segnalare delle alternative strategiche. La più importante oggi resta, per delle ragioni istituzionali quanto intellettuali, quella che praticamente gli ha dato il suo nome invocandone il “mito della razza” come una costruzione o una proiezione ideologica, e che resta implicita nella maggioranza dei nostri dibattitti attuali, anche quando ne discutiamo i presupposti. Tale definizione è proposta sulla base della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 da parte dell’UNESCO nelle due “dichiarazioni” successive (in inglese Statements on the Race Question) del 1950 e 1951 4. Con dispiacere lascio da parte la storia complessa che è approdata alla formulazione di queste dichiarazioni (in particolare sul perché ci furono due dichiarazioni e non una sola, con delle differenze significative tra loro, benché dovessero contribuire insieme alla promozione dell’antirazzismo, in particolare nelle strutture educative). Ciò che voglio sottolineare qui, è che tali definizioni e la critica del “mito biologico della razza” da cui procedono (soprattutto la prima), si fondavano sulla messa in parallelo di tre “casi” le cui genealogie restano nondimeno profondamente eterogenee: la linea del colore che istituisce la segregazione sociale nelle società post-schiaviste (essenzialmente le società americane del Nord e del Sud, ma anche l’Africa del Sud dell’apartheid); l’assoggettamento e la disumanizzazione delle popolazioni “indigene” negli imperi coloniali; infine la persecuzione degli Ebrei che, a partire dall’Europa, si è estesa ad altre parti del mondo, e che ha trovato il suo approdo tragico nel loro sterminio da parte dei nazisti. Si può quindi dire che ciò che il concetto di “razzismo” significa innanzitutto storicamente è il fatto che si possa sussumere questi tre casi sotto una sola definizione, ciò che a priori non ha nulla di evidente, ma si fonda sull’estensione delle teorie pseudo-biologiche dell’evoluzione e della degenerazione che sono state messe in opera a dei gradi diversi nei tre contesti.
La mia seconda annotazione preliminare consiste a tornare alla questione del nome di “razza” come significante “scivolante” (sliding signifier) nella teorizzazione di Stuart Hall 5. Le “catene d’equivalenza” (nozione ripresa dal lavoro di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe che trova qui un’applicazione pertinente) includono anche diversi correlati come dei sostituti del nome di razza. Esaminandoli ci si accorge che l’importanza singolare di tale nome è venuta dal fatto che articola insieme dei discorsi “teorici” a pretesa scientifica con dei “grandi racconti” sulla storia dell’umanità e il suo significato cosmologico, il cui insieme permette di legittimare delle istituzioni di discriminazione o d’eliminazione (che comportano naturalmente numerosi gradi, dagli statuti della Limpieza de sangre spagnoli sino all’apartheid, passando per il Codice Nero, il “codice dell’indigianato”, le leggi razziali di Norimberga, le regolamentazioni segregazioniste dette “Jim Crow” negli Stati Uniti, ecc.).
Tale complesso si è formato, essenzialmente, all’epoca in cui si dispiega la colonizzazione del mondo da parte dei paesi dell’Europa occidentale. Esso applica uno schema genealogico d’origine e di discendenza agli individui come ai gruppi umani, e infine alle popolazioni intere, in modo da proscrivere il “mescolamento” o l’“ibridazione” come fattori di degenerazione e di distruzione dei “caratteri” delle razze (cioè delle popolazioni) dette “superiori” (che sono diventate dominanti nel nuovo sistema-mondo). L’eterorazzizzazione (assegnazione degli “altri” a una razza) non va mai senza una auto-razzizzazione (la cui forma più visibile è il white supremacism), che costituisce in realtà il suo obiettivo. La concezione biologica dell’eredità, le cui giustificazioni derivano da una “ideologia scientifica” (nel senso di Canguilhem), il darwinismo sociale, non ne è il punto di partenza. C’è già un primo scivolamento. E il razzismo culturale, o la razzizzazione delle differenze (etno)culturali, risulta da un altro scivolamento, storicamente legato ai processi di decolonizzazione e di neo-colonizzazione. Ciò non è quindi veramente un “razzismo senza razza”, ma piuttosto una formazione discorsiva nella quale l’uso mantenuto del significato di “razza” si accompagna a una permanente negazione a beneficio delle nozioni di “cultura” o di “civilizzazione” che, storicamente, avevano già costituito i suoi correlati o erano serviti come “marcatori” della razza, con i tratti fisici pretesi omogenei e propri a ogni suddivisione della “specie umana”. Notiamo che nessuna di tali formazioni discorsive ha mai interamente lasciato la scena, perché le gerarchie sociali, i rapporti di potere di cui esse procurano la legittimazione, anche contestati, non sono aboliti, e una caratteristica essenziale dello schema genealogico è il suo carattere sostanzialmente conservatore. In più della permanenza o della riconduzione delle pratiche e delle istituzioni sociali funzionanti per la discriminazione aperta o mascherata, si può così spiegare che siamo sempre (notoriamente in Francia) ossessionati dalle tracce della schiavitù e della “linea del colore”, o della colonia, e dallo stigma che si applica agli “indigeni” d’origine extra-europea, quelli che Nacira Guénif-Souilamas chiama i “discendenti di”6.
Ma la questione cruciale che vorrei ora porre è: non dobbiamo supporre nuovi scivolamenti, le nuove metonimie del nome della razza in corso, legate materialmente all’emergenza di un nuovo “Nomos della terra”, cioè di un nuovo modello demografico e territoriale, includente in particolare, su scala globale, delle migrazioni, dei movimenti di rifugiati, degli spostamenti di popolazioni più o meno massicci? È ciò che avviene, mi sembra, ed è ciò che mi conduce a invocare qui il titolo della grande opera che pubblicava nel 1950 un teorico ultra-conservatore, che era riuscito a fare “dimenticare” temporaneamente il suo schieramento nazional-socialista, ma continuava a insistere sul legame esistente tra tutta la “legge di distribuzione” demografica e territoriale (ciò che evoca la categoria greca di nomos) con la costruzione di un “nemico interno” (Carl Schmitt, n.d.T.)7. Questo nemico è oggi sempre più identificato con l’altro proveniente dal Sud, cioè dal vecchio spazio coloniale, che per eccellenza forma il “fuori”, e che tuttavia ci viene dal “dentro” e si trova sempre giàda lui quando è “fra noi”, per via dei legami di dipendenza e di vicinato che sono stati tessuti dalla storia. Ragione sufficiente per farci prendere molto sul serio l’ideologia mortale della lotta contro il “grande rimpiazzamento”, formulata una decina d’anni fa da uno scribacchino d’estrema destra francese (Renaud Camus), e ora universalmente adottata dalle correnti neo-naziste che si sviluppano nel mondo intero all’insegna di una “difesa della razza bianca” che sarebbe minacciata dal divenire “minoranza”, se non anche di sparire nei suoi propri paesi d’origine8.
Forse sono ora in grado di tornare al punto che avevo annunciato all’inizio: quello che concerne l’antisemitismo e l’islamofobia come costituenti una sorta d’eccezione interna in seno all’insieme dei discorsi razzisti. Forse bisognerebbe d’altronde parlare piuttosto dei discorsi del razzismo occidentale, non tanto perché il razzismo esiste solo in Occidente, che è manifestamente falso (basti pensare a ciò che avviene in questo momento in Cina, in Birmania o in India per ciò che riguarda la persecuzione dei musulmani, ma in realtà non vedo quale regione del mondo sia oggi immunizzata), ma perché dobbiamo considerare in primis il problema tale e quale si pone nel luogo in cui ci situiamo noi stessi per discuterne. Ogni analisi è situata e deve prenderne coscienza. Essa non può cogliere il suo “oggetto” se non a condizione di misurare l’incidenza di un “soggetto”.
Proporrei quindi due idee. La prima è che bisogna continuare a considerare l’antisemitismo e l’islamofobia come dei generi di razzismo in senso ampio: l’uno e l’altro corrispondono a dei sistemi di persecuzione (razzismo “istituzionale”, razzismo “di Stato”) e d’eliminazione fondati su ciò che ho chiamato prima lo “schema genealogico”, e noi osserviamo oggi la loro combinazione e la loro intensificazione nell’ideologia dei gruppi violenti che si organizzano in nome dell’“identità” nazionale o europea “minacciata” da ciò che chiamano degli elementi estranei. È vero che gli stessi gruppi sviluppano altri discorsi di odio, in particolare dei discorsi omofobi e misogini. Un aspetto importante della loro ideologia è la difesa dei “valori famigliari” e dei “valori cristiani”, anche secolarizzati – ciò che ci conduce alla questione della religione. Penso che bisogna andare ora al di là di questo semplice riferimento, e che per capire la singolarità dell’antisemitismo e dell’islamofobia nel vasto spettro dei razzismi contemporanei, occorra invocare una componente religiosa, e meglio ancora una determinazione teologica: questa è anche presente sia nel caso dell’antisemitismo che in quello dell’islamofobia, in cui rinvia a delle storie di “popoli eletti” e di “comunità di credenti” che s’investono di una “missione” universale nella storia, coltivano una relazione privilegiata con una verità rivelata e con un concetto sovrano della “legge”. Beninteso tutto ciò si radica nella storia dei conflitti interni alla tradizione monoteista nelle sue differenti branche9. Si tratta quindi di un elemento simbolico che sovra-determina i discorsi e il “nome” anche simbolico della razza. Si potrebbe credere (molti buoni spiriti attorno a noi ne sono persuasi) che questo elemento sia stato progressivamente cancellato dal processo di “secolarizzazione” che si suppone aver preparato e accompagnato lo sviluppo di nuovi rapporti sociali fondati sul diritto e l’economia nella modernità capitalista. Non è così, anche se la modalità di coscienza collettiva e il grado d’autorità simbolica hanno subito un mutamento. Il filosofo Jacques Derrida ha suggerito che una potenza teologica abita sempre la combinazione delle idee d’elezione (di un popolo, di una cultura, di una forma di Stato) e di selezione (tra le popolazioni umane) che fa tenere insieme i discorsi del razzismo e del nazionalismo, contribuendo in tal modo alla loro capacità di penetrazione nella coscienza collettiva10. Allo stesso modo, credo di poter proporre ora che, quando – all’indomani della lotta contro il nazismo e della rivelazione dell’orrore della Shoah – l’UNESCO riunì sotto la categoria di “razzismo biologico” l’antisemitismo con l’istituzione della color line e la riduzione degli indigeni alla condizione di “sub-uomini”, gli ebrei sono stati ben rappresentati come l’altro malefico dei cristiani (anche “secolarizzati”) e trasformati in nemici interni della civilizzazione europea di cui facevano loro stessi parte. Ma in questo statuto singolare, se non “privilegiato”, non hanno smesso di essere comparati a un’altra figura dell’alterità, propriamente imperiale: quella delle “razze inferiori” (nella terminologia francese: Jules Ferry11) o dei “soggetti razze” (nella terminologia del colonialismo inglese: Lord Curzon12). Talvolta situati all’opposto, tal altra riportati allo stesso livello, notoriamente quando si è trattato di applicare loro gli stessi criteri d’eliminazione (ciò che Hannah Arendt ha particolarmente sottolineato). In apparenza almeno i musulmani, che comprendono degli arabi e altre “etnie” o “razze” nel mondo, restavano assimilati alle figure dell’indigeno o compresi fra loro.
Ma questa apparenza è fragile. Già nel diciannovesimo secolo gli arabi e gli ebrei si ritrovavano in seno a una costruzione razziale fondata su argomenti filologici (combinanti la grammatica comparata con la storia delle religioni, due scienze profondamente “orientaliste” nel senso di Edward Said, come si vede bene in Renan13): quelle dei “semiti”, eterni nemici degli “ariani”, e quindi della “razza dei padroni” europei rispetto ai quali disputavano fantasmaticamente il dominio e il governo del mondo. Tale è, in un certo senso, il modello o l’archetipo al quale cerco di tornare quando, all’inizio degli anni 2000, avevo (dopo ben altri) proposto di far entrare l’islamofobia in un “antisemitismo in senso largo”, costituito dalla riunione della ebreofobia e dell’islamofobia14. Evidentemente questa proposta comportava delle intenzioni politiche, di cui devo ammettere che potevano sollevare questioni. Non si trattava, non c’è bisogno di dirlo, di negare che esiste un antisemitismo virulento (giudeofobo) nel mondo arabo-islamico, così come esiste una virulenta islamofobia fra gli ebrei (non tutti, per fortuna), più o meno direttamente legata al razzismo di Stato anti-arabo che imperversa in Israele. Ma si trattava di contrastare l’idea (particolarmente diffusa in Francia) di una “nuova ebreofobia” o di una nuova ondata d’antisemitismo la cui fonte risiederebbe essenzialmente nello schieramento degli intellettuali francesi (e più in generale europei) con l’antisionismo largamente diffuso (e non a caso…) fra gli arabi e i musulmani per simpatia con la causa palestinese. Il modo con cui i gruppi neo-nazisti o neo-fascisti oggi in piena crescita in quasi tutti i paesi europei combinano strettamente l’ebreofobia e l’islamofobia (sino agli attentati mortali che sono suscettibili di perpetrare) basterebbe a mostrare che una tale genealogia è troppo semplice. Ma essa pone anche altri problemi.
Non credo più in effetti alla possibilità di rovesciare il mito “semitico” in questo modo meccanico. Più esattamente, credo che gli elementi di dissimetria tra ebreofobia e islamofobia sono anche tanto importanti quanto gli elementi di simmetria. All’evidenza questi due discorsi si radicano nelle storie molto differenti d’ostilità e di diavolizzazione, le une legate alla rivalità secolare degli “universalismi” musulmano e cristiano (che si può far risalire sino alle crociate e alla Riconquista, senza dimenticare l’episodio decisivo che costituisce la spedizione dell’Egitto lanciata dalla Repubblica francese per ordine del generale Buonaparte), le altre alla ghettizzazione e alla persecuzione degli Ebrei in Europa, sia che si siano trovati nella posizione di “paria” o di parvenus. A ciò si aggiunge il posto molto diverso che gli ebrei e i musulmani occupano nel “Nomos della terra” come si stabilisce oggi, e di cui intrinsecamente fa parte il processo delle migrazioni internazionali. Gli ebrei, in particolar gli ebrei originari d’Europa centrale e dell’Impero russo, sono stati un tempo il prototipo del “popolo” errante e senza Stato, alternativamente confinato e scacciato da alcuni territori nazionali15. Ciò che essi non sono più oggi, sebbene la traccia immaginaria ne sia profonda. Inversamente, i musulmani (o piuttosto dei musulmani, ma in gran numero) formano oggi una parte importante dell’erranza dei migranti e dei rifugiati in Europa, ciò che riattiva la loro immagine di “nomadi”. La loro identificazione massiccia con la figura del terrorista ne è facilitata, come se avessero nella loro religione e nella loro cultura una predisposizione unica a tale forma d’azione antipolitica. Attraverso vecchi stereotipi imperiali sulla “violenza del deserto” il privilegio negativo di cui “beneficiano”, nondimeno la rappresentazione dell’Islam come altra teologia assoluta continua. Poiché paradossalmente questa si alimenta sia dell’idea di un nemico immemoriale del cristianesimo (diventata “nostra civilizzazione cristiana”) e di quella di un gruppo ultrareligioso (o la cui religiosità è intrinsecamente eccessiva, totalitaria), resistente a ogni istituzione della laicità (poiché in un senso, lui stesso ha già assorbito l’elemento secolare della civilizzazione nel suo codice ritualista e legalista, “sottomettendo” tutta la vita dei credenti a un’autorità senza condivisione). Quindi, da tale punto di vista, ci sarebbe piuttosto un processo di sostituzione più che una simmetria.
A tale primo elemento di dissimmetria, credo che possiamo aggiungerne un secondo: in Occidente, da circa mezzo secolo, l’antisemitismo è stato progressivamente derazzizzato, cioè isolato e estratto dal paradigma “razziale” delegittimato dal nazismo – a cominciare beninteso dalla sua formulazione pseudo-biologica – mentre, al contrario, l’islamofobia è sempre più intensamente razzializzata (e quindi le sue vittime sempre più razzizzate), in particolare in paesi come la Francia (ma più in generale in Europa) attraverso la confusione sistematica tra le rappresentazioni del “musulmano” e quelle dell’“arabo”, che riprende a sua volta in conto un’eredità coloniale di “governo dell’Islam” in quanto religione degli indigeni, costitutivo di ciò che si può chiamare il postcolonialismo. Non solo il “musulmano” si trova incorporato come tale a una popolazione razzizzata di cui l’estrema eterogeneità è neutralizzata, ma ne è spesso presentato come l’elemento più temibile, che porterebbe in lui un pericolo permanente contro le istituzioni, l’ordine sociale e la sicurezza dei buoni cittadini, presumibilmente impregnati di tradizioni e di costumi che ne fanno “l’identità nazionale”. Da tale punto di vista, anche l’associazione pregiudizievole con il terrorismo (o lo “jihadismo”) apporta un elemento moltiplicatore delle angosce e degli odi, perché è supposto esprimere e prolungare la violenza delle nuove “classi pericolose” che sono per eccellenza i giovani esclusi “discendenti dell’immigrazione”. Cerco di delineare qui un quadro complesso, essenzialmente sovradeterminato. Ma per concludere queste annotazioni troppo schematiche e aprire il dibattito, vorrei insistere sui punti seguenti: primo, bisogna assolutamente che la nozione d’islamofobia sia incorporata come un terzo termine a ogni programma di ricerca e di discussione che riguardi, come è il caso oggi in questo luogo, “Razzismo e antisemitismo”. A fortiori è il caso per ogni campagna d’educazione civica e di lotta contro i fenomeni di odio e di disprezzo contro tale o tal altro gruppo nelle nostre società. Questo terzo termine solleva i suoi propri problemi e possiede la sua propria genealogia. E perciò non potrebbe essere compreso implicitamente nella somma dei due precedenti. La sua omissione, intenzionale o no, produce un effetto di distorsione e di camuffamento le cui conseguenze politiche e morali sono molto gravi. Secondo, ogni politica che, nelle condizioni attuali, cerca di combattere le discriminazioni e di combattere la violenza, deve far prova della stessa intransigenza di fronte all’antisemitismo e all’islamofobia, non malgrado l’esistenza di conflitti acuti tra ebrei e musulmani (dovrei dire; evidentemente: alcuni ebrei e alcuni musulmani, ma sono numerosi), ma per la ragione stessa di tali conflitti e della capacità che possiedono di nutrire in tutta la società un razzismo mortale. Non c’è e non ci può essere priorità nella critica, per non parlare dell’oscenità che sarebbe una preferenza.
Infine, terzo punto e un po’ più astrattamente: quale che sia la difficoltà concettuale intrinseca di tale problema, noi siamo portati una volta di più a rivalutare l’importanza politica del fattore teologico (o della traccia del teologico) nella storia delle società contemporanee: essa è occultata da un certo paradigma sociologico della “secolarizzazione”, quantomeno nelle sue versioni più riduttrici, che penetrano i discorsi della “laicità” (e che, fra noi almeno, hanno la stessa origine intellettuale e istituzionale). Noi prendiamo coscienza di nuovo del fatto che c’è sempre nel razzismo, in senso largo, una dimensione teologica le cui fonti risiedono in ultima analisi in delle costruzioni simboliche, ma i cui effetti pratici sono, invece, terribilmente materiali. Questa dimensione teologica e teologico-politica non agisce mai al di fuori delle condizioni storiche e sociali più “materiali” che ne delimitano gli effetti, intensificandone o neutralizzandone relativamente. Ma – come si diceva una volta – essa possiede una “autonomia relativa” che bisogna smettere di rimuovere.
Note
- Nota di Palidda: segnalo che Taguieff è diventato un paladino dell’ostracismo contro gli antirazzisti e della difesa dei bianchi (vedi i miei articoli sopra citati)
- Il modello di una tale analisi resta per me quello che propone Stuart Hall, in particolare nelle sue “Du Bois lettures” del 1994, editate da Kobena Mercer dopo la sua scomparsa col titolo The Fateful Triangle : Race, Ethnicity, Nation, Harvard University Press 2017.
- Ciò che impone in particolare un’attenzione rinnovata per la questione dei “rapporti etnici” in quanto rapporti sociali: vedi la raccolta di scritti di Véronique de Rudder, Sociologie du racisme, Syllepse 2019, così come i libri di François Héran, fra i quali Le temps des immigrés. Essai sur le destin de la population française, Seuil 2007.
- Vedi Four Statements on the Race Question, Unesco, Paris 1969, e il volume che ne sviluppava le attese, con la collaborazione di grandi figure scientifiche (fra le quali Claude Lévi-Strauss) : Le Racisme devant la science, Gallimard-Unesco, 1960.
- (nota aggiunta nella traduzione in italiano) https://www.degruyter.com/document/doi/10.4159/9780674982260-003/html
- Vedi il blog di Nacira Guénif-Souilamas su Mediapart : https://blogs.mediapart.fr/nacira-guenif/blog/150612/issu-e- s-de-ou-pas . Per la ricondotta delle distinzioni di razza attraverso l’abolizione della schiavitù nelle Antille francesi, vedi in particolare Silyane Larcher, L’autre citoyen. L’idéal républicain et les Antilles après l’esclavage, Paris, Armand Colin, 2014.
- Carl Schmitt, Le nomos de la terre dans le droit des gens du Ius Publicum Europaeum [1950], trad. fr. PUF 2001; in italiano pubblicato da Edelphi, 1991 (6° ed.)
- Vedi la relazione di Eric Ward nel corso di questo stesso convegno, in particolare sulla funzione strategica svolta dall’antisemitismo e dall’estremismo nazista nei discorsi razzisti contemporanei (“How Antisemitism Animates White Nationalism”) : https://totalwebcasting.com/view/?func=VOFF&id=bard&date=2019-10-10&seq=1. La teoria del “grande rimpiazzamento” è stata invocata in particolare dall’autore del massacro di fedeli nelle moschee di Christchurch (Nouvelle-Zélande) il 15 marzo 2019. Oggi essa viene banalizzata dall’estrema destra europea. Nota di Palidda: Si può anche dire che esiste persino una deriva – anche se sembra inconsapevole – di intellettuali di sinistra storica che arrivano a dire che Malthus aveva ragione e che ci sarebbe un effettivo pericolo di sovrapposizione fra disastro ecologico del pianeta, aumento della popolazione, migrazioni disperate e quindi minaccia di invasioni dei paesi ricchi, ecc., si sposa così quel terrore dei dominanti che arrivano o immaginano di fuggire nello spazio o su Marte e intanto si rinchiudono in bunker iper protetti e dotati di ogni sorta di nuova tecnologia, vedi http://effimera.org/aporie-demo-politiche-approdo-delleuropa-alla-tanatopolitica-salvatore-palidda/
- Jean-Luc Nancy ha difeso in modo a mio parere convincente l’idea che, quantomeno in alcune delle sue formulazioni, la “laicità repubblicana” costituisce essa stessa una variante del discorso monoteista: un monoteismo “senza Dio”, quantomeno senza Dio personificato: vedi il suo articolo “Laïcité monothéiste”, in Le Monde, 1 gennaio 2004. E il mio libro Saeculum. Culture, religion, idéologie, Galilée, 2012.
- Intervento di Jacques Derrida al convegno “Race, déconstruction et théorie critique” al quale abbiamo partecipato insieme nel 2003 a Irvine, Università della California. Vedi il mio saggio “Election/Sélection”, in Cahier de l’Herne Derrida, a cura di Marie-Louise Mallet e Ginette Michaud, Editions de l’Herne, Parigi 2004.
- NT: E’ ancora considerato uno dei padri della laicità francese, fu il grande oppositore di Napoleone, di Hausmann, poi sindaco di Parigi nel 1870, per due volte fu anche primo ministro e si impegnò con forza per l’espansione coloniale francese in virtù delle tre idee: la necessità della Francia di proseguire nell’impresa coloniale poiché la politica coloniale era figlia della politica industriale, come puro sfruttamento economico, come creazione di un “mercato” per i prodotti dell’industria francese; che le nazioni europee, “le razze superiori”, avevano il diritto ed il dovere di “civilizzare le razze inferiori”; infine, per gli ideali del 1789 e i valori ereditati della filosofia dell’illuminismo e della Rivoluzione, in una Europa alla conquista del mondo, anche la Francia doveva avere il suo posto a livello internazionale colonizzando l’Africa in nome della democrazia … ma resta riferimento di una certa sinistra per la sua battaglia per la laicità (separazione stato-chiesa e scuola laica e repubblicana).
- NT: ultra conservatore fu viceré dell’India e quindi del metodo coloniale inglese che suggellava il razzismo con modalità in parte meno brutale ma radicale.
- NT: Teorico della razza ariana e del primato della razza indoeuropea, e anche della nazione come “plebiscito di tutti i giorni”; gli ebrei sono secondo lui un nucleo etnico parte delle “grandi razze civilizzate”; condivide la teoria della selezione naturale di Darwin.
- Etienne Balibar: “Un nouvel antisémitisme?”, in Antisémitisme : l’intolérable chantage. Israël-Palestine, une affaire française ?, Editions La Découverte, Paris, 2003, pp. 89-96.
- Questa caratterizzazione vale evidentemente innanzitutto per gli ebrei europei, che sono stati i primi oggetti dell’antisemitismo eretto a dottrina e in parte, poi in (bio)politica di Stato, e formano quindi il riferimento delle definizioni “ufficiali”. Essa non si applica allo stesso modo agli ebrei del mondo arabo e orientale, in particolare ai magrebini “distinti” dal colonizzatore in seno alle popolazioni conquistate e selettivamente “assimilate”. Vedi Benjamin Stora: Les trois exils juifs d’Algérie, Editions Stock 2006.