Reiner Stach presentava il suo «Questo è Kafka?» in una libreria e intanto fuori si protestava per l’elezione di Trump.
Reiner Stach ha dedicato circa vent’anni della sua vita a scrivere una biografia di Franz Kafka di tre volumi e duemila pagine. Il suo tour di presentazioni negli Stati Uniti è coinciso con i giorni dell’elezione di Donald Trump. Giovedì sera, nella cittadina di Princeton, Stach si è trovato a parlare di Kafka mentre in contemporanea, a pochi metri da lì, in un’altra sala della biblioteca pubblica si teneva una riunione d’emergenza: duecento rappresentanti della comunità locale discutevano di come organizzarsi per reagire all’elezione di Trump e alle sue possibili conseguenze nella quotidianità del posto.
La persona che intervistava Stach – Shelley Frisch, traduttrice inglese della biografia – ha aperto l’incontro comunicando ai presenti che, «visto tutto quello che stiamo vivendo, meritiamo una serata di divertimento, e per questo abbiamo deciso di concentrarci sul lato più umoristico di Kafka». E in effetti il lavoro di Reiner Stach si presta molto bene. È infatti autore, oltre che della monumentale biografia, anche di Questo è Kafka?, ora arrivato anche nelle librerie italiane grazie ad Adelphi e alla traduzione di Silvia Dimarco e Roberto Cazzola.
Succedeva allora che di sopra si parlasse con grande preoccupazione e sconcerto di come rimboccarsi le maniche per far fronte alla situazione, e di sotto intanto si raccontassero episodi della vita di Franz Kafka con il suo biografo più importante.
Di sopra, si cercava di capire come garantire la sicurezza per i cittadini locali che ora si sentono più minacciati. E di sotto, intanto, si rideva raccontando di quando Kafka barò al suo esame di maturità.
Di sopra, ci si raccontava come i bambini delle famiglie di migranti non smettessero di piangere per paura di quello che poteva succedergli e si stessero rifiutando di tornare a scuola. E di sotto, intanto, si rideva del primo e goffo tentativo di esperienza sessuale di Kafka.
Di sopra, i rappresentanti di varie associazioni di volontariato locale raccontavano di come gli episodi d’intolleranza fossero già iniziati subito dopo l’annuncio della vittoria di Trump. E di sotto, intanto, si rideva di quanto Kafka non si facesse tanti problemi a sputare dalla finestra. E così via.
Questo è Kafka? riporta novantanove di questi particolari aspetti minuti ed episodi della vita dello scrittore praghese, che esplora attraverso uno spassoso percorso fra estratti, lettere, aneddoti, disegni, fotografie e reperti vari.
La decisione di Stach di dedicare tutto questo tempo ed energie alla ricostruzione della vita di Kafka nacque quando, collaborando come coeditor all’edizione critica delle sue opere complete, si accorse che su di lui esistevano innumerevoli pubblicazioni accademiche e alcune biografie, ma tutte incomplete, senza niente in mezzo. Decise così di proporre all’editore tedesco Fischer di tentare di colmare quel vuoto. Il suo lavoro di documentazione e il livello di dettaglio sono impressionanti, al limite dell’ossessività. A un certo punto dell’incontro, Stach ha raccontato che Kafka una mattina si svegliò e fuori pioveva e… Ma una persona dal pubblico, con una punta di fastidio, ha chiesto perché avesse voluto aggiungere quel dettaglio, di cui non poteva essere certo a conoscenza, e perché allora avremmo dovuto fidarci della sua ricostruzione. Stach, serenamente, ha risposto che aveva controllato tutti i quotidiani praghesi di quel giorno e dicevano tutti che sarebbe quasi certamente piovuto per tutto il giorno, e allora perché non scriverlo? Secondo lo storico tedesco, fra i fatti definitivamente accertabili e quelli probabili c’è tutta una zona grigia di fatti estremamente probabili, o quasi accertati, e quello che lui ha scelto di fare è avvertire il lettore e offrirgli gli elementi perché possa decidere da solo se quel fatto è avvenuto o meno.
Ascoltando Reiner Stach parlare di Questo è Kafka? era difficile smettere del tutto di pensare a quanto stava succedendo là fuori, e a quello che succederà. Perché? Era una semplice questione d’incapacità fisiologica della mente di non distrarsi oppure c’era dell’altro?
Uno degli obiettivi di Questo è Kafka? è smontare alcuni miti su Kafka, alcune diffuse convinzioni che lo rendono più uno stereotipo che uno scrittore: per esempio che fosse un tipo introverso, taciturno, nevrotico, cupo, malato, e così via. Lo stesso aggettivo “kafkiano” rientra in questo stereotipo ed è certamente fra i termini più abusati e a maggior rischio di banalizzazione. Torna ancora in mente la risposta di Fellini al giornalista che gli chiedeva cosa pensasse dell’aggettivo “felliniano” («Avevo sempre sognato, da grande, di fare l’aggettivo»), e viene da chiedersi cosa avrebbe risposto Kafka a quella stessa domanda.
Leggendo Questo è Kafka? si ride. Eppure si ride in un modo che – se si conoscono un po’ i romanzi e i racconti di Kafka e se si pensa al mondo d’oggi (e in particolare al mondo dopo martedì scorso) – non ci allontana più di tanto dalle riflessioni a loro modo oscure che l’opera di Kafka ci fa spesso venire in mente a proposito di quella certa faccenda talvolta chiamata condizione umana. E in questi giorni molti lati oscuri di tale condizione ci vengono prontamente riportati alla memoria dalle parole e dalle azioni di violenza e razzismo che l’elezione di Donald Trump pare aver innescato nella società americana (si veda questo primo rapporto, per esempio). C’è chi ha paura dell’inizio di un nuovo totalitarismo e chi invece crede che sia una preoccupazione esagerata: in ogni caso, a vedere il bilancio tragico fra i compagni di scuola e gli amici e parenti di Kafka – molti di loro morirono nei campi di concentramento o in guerra – almeno qualche brivido viene. Torna in mente questo passaggio da Il professore di desiderio di Philip Roth:
«Dunque» dice, mettendomi una mano sul braccio con fare paterno e cortese, «a ogni cittadino il suo Kafka».
«E a ogni uomo arrabbiato il proprio Melville» ribatto. «Del resto cosa dovrebbero fare i cultori della letteratura con tutta la grande prosa che leggono…»
«…se non affondarci i denti. Esatto. Nei libri, anziché nella mano che li strangola».
Dalla riunione dell’altra sera era evidente che fra le preoccupazioni maggiori rispetto a quello che potrà succedere durante l’amministrazione Trump la principale è quella di una recrudescenza dell’odio razziale. La zona di Princeton è saldamente in mano ai Democratici, ma alla storia di questa parte di New Jersey non mancano scheletri nell’armadio, e si teme che il nuovo corso possa resuscitarli. Princeton ha infatti una storia razziale di cui non essere del tutto orgogliosi. Lo racconta bene il volume Einstein on race and racism di Fred Jerome e Rodger Taylor. Un esempio? Nel 1937, il locale teatro McCarter organizzò un concerto della grande cantante d’opera Marian Anderson. Arturo Toscanini, per dire, dichiarò che la sua era una voce «di quelle che si possono sentire una volta ogni cento anni». Il concerto fu un grande successo. Ma c’è un particolare: Marian Anderson era afroamericana, e l’hotel Nassau Inn, dove venivano ospitati tutti gli artisti e gli studiosi di passaggio nella cittadina, le negò una camera. E Albert Einstein si affrettò a invitarla a stare a casa da lui e la sua famiglia, cosa che lei fece.
Tale situazione sarebbe durata ancora molto a lungo. Un altro esempio. Nel 1985, una studentessa di sociologia della locale università presentò una “tesina” intitolata Princeton-Educated Blacks and the Black Community. Si legge in quel testo dattiloscritto: «La mia esperienza a Princeton mi ha reso consapevole come non mai del mio essere nera. Ho scoperto che, nonostante quanto alcuni dei miei professori e colleghi bianchi provassero a essere bendisposti e di mente aperta nei miei confronti, ho spesso provato la sensazione di essere un’ospite nel campus, come se quello non fosse il mio posto». La studentessa in questione si chiamava Michelle LaVaughn Robinson. Da sposata, Michelle Obama.
Ma Princeton può essere considerata anche uno dei simboli della rabbia che si può provare nei confronti di tutti coloro che, dalle loro posizioni agiate, hanno sottovalutato con snobismo quello che stava covando nella pancia del Paese. Durante un pranzo della scorsa settimana, il politologo Michael Walzer chiedeva: «Pensi che Trump somigli più a Mussolini o a Berlusconi?». Il giorno dopo, quando la conversazione a pranzo è tornata sulle elezioni, la storica Joan Scott sussurrava, quasi vergognandosene, «I’m scared…»; «Oh, c’mon…», le ha risposto con il sorriso di chi la sa lunga uno studioso di quelli così brilliant e così smart. Tutto questo, nella città in cui si trova uno dei centri di sondaggi più rispettati e ascoltati del Paese, il Princeton Election Consortium: quello che, per intenderci, il giorno prima delle elezioni assegnava a Trump l’1 per cento di possibilità di vittoria. E a poco serve onorare la relativa scommessa mangiando un insetto in diretta televisiva, come ha fatto il locale sondaggista Sam Wang. Sono stati in molti, negli Stati Uniti ma anche fra la stampa italiana, che le elezioni non sono un videogioco, e che dietro le elezioni c’è anche quella certa cosetta chiamata società, con tutti i suoi conflitti e desideri, ma soprattutto conflitti.
La mattina dopo l’incontro con Rainer Stach e la riunione dei rappresentanti della comunità, nel campus della locale università si sono raccolte alcune centinaia di persone per una protesta. E allora non poteva non tornare in mente uno dei novantanove aneddoti di Questo è Kafka?: una protesta popolare nel Sud Tirolo nel 1920 – per l’indipendenza dall’Italia – a cui, secondo Stach, Kafka avrebbe partecipato. In quel periodo si trovava in un sanatorio di Merano per curarsi dalla tubercolosi, e a Stach pare di riconoscerlo in una foto della manifestazione. Rivedendo le immagini della manifestazione nel campus, viene allora da prestare un’attenzione diversa a quei volti.
Peraltro, sappiamo bene quanto Kafka sia ancora bravo a provocare controversie politiche di vasta portata: basti pensare alla battaglia – recentemente conclusa (pare) – dello stato d’Israele per ottenere l’ambiguo riconoscimento della proprietà dei suoi manoscritti, disputa raccontata e analizzata nelle sue profondità da Judith Butler in Di chi è Kafka?.
Durante la protesta di Princeton, quella mattina, veniva in mente anche che, a sentir parlare di Kafka e di Trump insieme, l’impressione di trovarsi in una situazione kafkiana non dovevano essere stati in pochi a provarla. Ma rimaneva un dubbio di reale pertinenza di quel pensiero, insieme al timore di essere caduto per l’ennesima volta nell’abuso dell’aggettivo “kafkiano”. È mentre mi arrivavano questi pensieri che ho visto che Aleksandar Hemon – scrittore bosniaco-americano e autore del notevole Il progetto Lazarus (Einaudi, 2010) – aveva appena scritto su Twitter: «Dopo una notte di sogni agitati, Gregor Samsa, Joseph K e io ci siamo svegliati nell’America di Trump».