Questione di punteggiatura. Intervista a Leonardo G. Luccone

Maria Teresa Grillo a tu per tu con l’editor e traduttore Leonardo G. Luccone.

Questione di virgole

 

Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto di Luccone (Laterza) non è un breviario né un manuale: è un invito alla riscoperta delle potenzialità di un sistema complesso, il cui utilizzo dovrebbe avere invece a che fare con il giusto bilanciamento tra meraviglia, rigore e – perché no – divertimento.

L’intera operazione muove da un’urgenza dell’autore più che da un vezzo letterario: e cioè dalla constatazione che la virgola, insieme al punto fermo «rappresenta il novanta percento della punteggiatura usata oggi da chi scrive», a scapito dei due punti e del punto e virgola – quest’ultimo ormai pressoché inutilizzato. Un impoverimento che Luccone – già fondatore dello studio editoriale e agenzia letteraria Oblique e traduttore di scrittori come John Cheever e F. Scott Fitzgerald – identifica come “Grande Semplificazione”, la quale miete vittime nel linguaggio che leggiamo e scriviamo tutti i giorni.

Questione di virgole è diviso in due parti: una dedicata alla virgola e l’altra al punto e virgola. La prima, però, è un’occasione anche per esaminare l’utilizzo di punti (e superpunti, che si affiancano a virgole cannibali e altre “personalità” irriverenti) e poi incisi, due punti, parentesi. Entrambe sono attraversate da un’ampia antologia di brani di autori classici e contemporanei che l’autore ha selezionato e scelto – amato in alcuni casi, detestato in altri – andando a scavare tra le debolezze e le cadute in fallo anche di mostri sacri. Tra gli insospettabili: Calvino e Pavese che, ahinoi, non sono immuni da certe leggerezze sull’uso delle virgole.

Ma noi comuni mortali, noi copywriter, social media manager, esercito di scrittori sedicenti professionisti e non, noi estensori di disperate lettere motivazionali e appassionate mail d’amore, come possiamo rimediare alla nostra povertà interpuntiva? Innanzitutto occorre ripartire dalla constatazione che la punteggiatura – «direttore d’orchestra della chiarezza» – ha due caratteri essenziali: un carattere logico, sul quale sarebbe bene avere salde in mente cinque o sei norme fondamentali; e uno espressivo, dove a comandare è l’estro dell’autore.

L’uso corretto di questi segnetti meravigliosi travalica dunque l’applicazione di regole, per semplici o complesse che siano, ed è invece il frutto di un equilibrio, la sintesi tra un’architettura solida e la capacità di plasmarne gli elementi, di piegarli ai propri usi espressivi, talvolta persino di sovvertirli: ma con coscienza delle conseguenze (e mai comunque nel caso della virgola tra soggetto e predicato!).

«La verità», sostiene Luccone, «è baricentrica a tre atteggiamenti contrastanti: considerare la punteggiatura qualcosa di così personale da non sentire la necessità di regole (una legittima espressione di sé, quindi non attaccabile, non negoziabile); considerare la punteggiatura null’altro che un sistema decorativo; sentire la necessità di un sistema condiviso di segni ordinatori».

L’importante è in fondo sapere che “la punteggiatura siamo noi”, e che a regolarne l’utilizzo dovrebbe essere l’attenzione (benvenga se maniacale) al messaggio che vogliamo dare.

Maria Teresa Grillo: Da cosa nasce la tua passione per la punteggiatura, da quali esperienze e da quali considerazioni? 

Leonardo G. Luccone: Non so dire perché ma una quindicina d’anni fa ho cominciato a raccogliere esempi di bella e brutta punteggiatura da libri, giornali, fumetti, muri. Quando hai continuamente a che fare con la scrittura degli altri vorresti che tutto filasse liscio a livello sintattico perché vorresti concentrarti sul contenuto; invece ti rendi conto che la morfosintassi non esiste, o non è condivisa, o non è di interesse. Vorresti solo che il mondo si resettasse e che tutti ripartissimo da zero. Dal primo giorno di scuola in prima elementare. Con una scuola di poco migliore – perdonami questa retorichetta da osteria – avremmo un paese migliore.

M.T.G.: Il punto e la virgola hanno “cannibalizzato” la punteggiatura, e l’errata convinzione che a regolarne l’uso siano “le pause” e “la respirazione” ha fatto molti danni. La responsabilità può essere attribuita a un certo modo di fare scuola, ai giornali, alla diffusione della messaggistica istantanea? E a chi altri?

L.G.L.: La colpa è solo della pigrizia degli insegnanti e della loro fede dogmatica in quello che hanno imparato. È come se esistessero due versioni della stessa verità: da un lato gli insegnamenti su sintassi e punteggiatura – dogmatici, acritici, prescrittivi; dall’altro, scritture bellissime, tornite e coraggiose, oppure icastiche e sparagnine, che mostrano tutta un’altra storia. Nel libro sostengo che la punteggiatura perfetta tende all’invisibilità. Cavolo, con alcuni scrittori è così ben messa che non siamo capaci di trarne un insegnamento determinante.

Iperboli a parte, voglio dire che il resto è solo una conseguenza. Se parti male è difficile recuperare. Nei corsi di editoria facciamo fatica a fare piazza pulita delle convinzioni incrostate o delle insicurezze inveterate. È una battaglia impari: siamo circondati da scrittura sciatta e mal punteggiata. E l’obiettivo è sempre più lontano se continua a sferzare questo orripilante vento di Grande Semplificazione. Nei giornali i pezzi devono essere corti e a prova di stupido; i libri devono avere tesi e trame «per tutti», senza ghiribizzi, o stranezze; la televisione in chiaro è spesso un pollaio di luoghi comuni e di reiterazione di citrullaggine. Non ci si prende più cura di niente, e quando lo si fa non mi sembra che piovano lodi, che venga apprezzata la differenza.

M.T.G.: Questo libro è un elogio del punto e virgola: segno di interpunzione ingiustamente messo in disparte, dotato di una “personalità” forte ma il più delle volte incompresa. A cosa si deve secondo te la difficoltà di comprensione del suo valore, che si traduce in un utilizzo poco diffuso a dispetto delle sue potenzialità?

L.G.L.: La Grande Semplificazione l’ha reso obsoleto. La scrittura è sempre più verticale e sincopata. Il punto e virgola è come la pasta fatta in casa. Il punto e virgola esprime voglia di costruire frasi che respirino come il pensiero: a volte più articolate e scontrose, altre volte più dirette e icastiche; a volte lunghe e frastagliate, altre volte vertiginose e piene di distinguo e incisi.

Ci sono cose fantastiche che solo il punto e virgola può fare. Leggiamo insieme questi esempi:

Alla mattina, Bobo fu svegliato, uno dei servi lo fece montare in carrozza e gli si sedette vicino;l’altro, a cassetta, frustò i cavalli e partirono al galoppo.

Italo Calvino, «Il linguaggio degli animali», Fiabe italiane, Mondadori.

 

L’opera di Sir Thomas Browne è discreta, elusiva, difficilmente classificabilefondata su una cultura composita, stratificata e ormai remotascritta in una prosa coperta dalla patina del tempo, in cadenza naturalmente religiosa e cerimoniale.

Roberto Calasso, I geroglifici di Sir Thomas Browne, Adelphi.

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Prima di cominciare a scrivere il romanzo ho passato alcuni mesi a leggere solo racconti di fantasmi, macinando volumi pieni di figure luminose fluttuanti in giardino e di misteriosi gemiti in soffitta, e forse non è stato del tutto salutare;ogni tanto per ritrovare la giusta prospettiva dovevo rileggere un capitolo di Piccole donne.

Shirley Jackson, «Come scrivo», Paranoia, Adelphi, Milano 2018, p. 181, traduzione di Silva Pareschi

 

Per ragioni diverse ognuno di questi punti e virgola è indispensabile e insostituibile con altri segni. Lo ripeto, il punto e virgola è come la pasta fatta in casa. Se non invertiamo la tendenza apparterrà sempre di più all’universo del rimpianto.

M.T.G.: Dal tuo libro, fitto di citazioni ed esempi, emerge qualche nome per il quale nutri un’ammirazione particolare: Manzoni, Gadda, Arbasino. Chi sono dunque gli autori il cui uso della punteggiatura ti affascina maggiormente, e perché?

L.G.L.: Sono scrittori che apprezzo, ma ce ne sono tanti altri. Mi piacciono gli scrittori di stile, che muovono la pagina, che me la fanno oscillare davanti e che mi chiedono un certo lavoro. Mi colpisce meno la scrittura di intrattenimento, quella si fa leggere troppo facilmente. Se proprio deve essere facile, allora deve essere impalpabile. Pochissimi, poeti perlopiù, sanno praticare l’arte della scrittura impalpabile.

Comunque, mi chiedevi un po’ di scrittori di cui ammiro l’interpunzione. A braccio, senza starci troppo a pensare, ti dico: Pavese, Faulkner, Kundera, Delfini, Piovene, Morselli, Manganelli, Marías. Tra i contemporanei italiani: Mari, Magris, Calasso, Sarchi, Veronesi, Seminara, Meacci, Carbé.

M.T.G.: In quale direzione sta andando la punteggiatura italiana e qual è la cosa che ti spaventa di più? Come e in che modo salvarsi dall’appiattimento sui soli punti e virgole?

L.G.L.: Si confondono spontaneità e istinto con la semplificazione. Gli editoriali tendono a castrare le scritture audaci. Il problema non è tanto per gli scrittori bravi, perché sono convinto che in un modo o nell’altro riusciranno a imporre il loro stile; temo per i giovani scrittori e giovani giornalisti ancora acerbi che si ritrovano vittime di una sterilizzazione (spesso preventiva) della loro scrittura. Dovremmo muoverci in direzione opposta: inneggiare alla creatività, alla sperimentazione; aiutare chi osa.

Preferisco uno scrittore marcio perché troppo maturo a uno fotocopiato.

M.T.G.: L’ultima domanda è sullo stato dell’arte dell’editoria italiana, in rapporto al lavoro redazionale: è fondamentale che l’editor e il correttore di bozze abbiano una conoscenza approfondita delle norme che regolano l’uso della punteggiatura e dei virtuosismi di cui essa è capace. D’altra parte, però, entrambe le figure sono ancora soggette al giogo di condizioni lavorative non ottimali – per usare un eufemismo. Quanto influisce questo dato di fatto sulla cura editoriale?

L.G.L.: Le condizioni di contorno e il clima sono decisivi. Si lavora a corto di ossigeno, chiaro, ma la mancanza di tempo è una condizione abbastanza connaturata nel lavoro editoriale. Adoro i libri sui libri e posso confermarti che anche Aldo Manuzio si lamentava del troppo poco tempo a disposizione (infatti diceva «festina lente», affrettati con lentezza); anche Gobetti e Calvino sentivano il peso dell’urgenza e avrebbero voluto dedicare più cura ai «libri degli altri». Se a questo si aggiunge che si tratta di mestieri sottopagati, poco tutelati, ci si chiede come facciano a esistere i libri, e l’intero comparto. È colpa della magia inesplicabile di questo lavoro: credo sia più forte di qualsiasi controindicazione, di qualsiasi presagio di futuro cupo. È proprio per questo che dovremmo ribaltare tutto. Gli editori dovrebbero costruire al loro interno redazioni solide, fidate (così come uffici stampa e tutto il resto); il flusso di lavorazione dovrebbe permettere l’esaltazione dei talenti e, naturalmente, bisognerebbe studiare molto ma molto di più. Siamo d’accordo che un libro è un oggetto di consumo ma proprio per questo bisognerebbe costruirlo benissimo. Chi acquisterebbe un cellulare pieno di difetti o un etto di prosciutto che non ha un bell’aspetto?

Gli editori sono artigiani e amplificatori di contenuto. Devono riappropriarsi della piccola dimensione del lavoro sul testo. Pure fossero mille libri all’anno, devono essere lavorati con coscienziosità e amore. La responsabilizzazione culturale è un percorso che inizia a scuola. È lì che si deve trasmettere l’amore per il sapere; è lì che si possono carpire i primi vagiti dell’editoriale che c’è o non c’è in noi; è lì che costruiamo la coscienza di un paese.

 

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