Questa non è una biografia

La figura di Pio La Torre è in genere associata al suo impegno antimafia. “Pio La Torre: dirigente del Pci”, curato da Tommaso Baris e Gregorio Sorgonà per l’Istituto Poligrafico Europeo, ci racconta un professionista della politica e il suo lavoro per il partito.

Questa non è una biografia: come René Magritte, con il suo Ceci n’est pas une pipe. Tante biografie sono state pubblicate su Pio La Torre dal suo tragico assassinio per mano mafiosa avvenuto alla vigilia del primo maggio 1982. Tra la strage di Portella della Ginestra (primo maggio 1947) e quella di via Li Muli, dove La Torre veniva ucciso insieme al suo autista Rosario di Salvo, si cancellava non solo la vita di tanti innocenti, ma si chiudeva la storia del Partito comunista in Sicilia e forse in Italia. Tra quella strage consumata in una grande piana tra le montagne e quella macchina crivellata in colpi di mitra in uno stretto budello palermitano, con nel mezzo luoghi senza memoria di tanti sindacalisti uccisi, si abbrumava la bandiera rossa del partito: la caduta del muro di Berlino sarà solo una giustificazione, la presa d’atto di una fine nota.

L’omicidio di La Torre portava tanti suoi compagni, e poi giornalisti e storici, a leggere teleologicamente la sua vita, partendo dalla fine per ripercorrerla all’incontrario, come riavvolgendo una pellicola. Così si decifrava tutto, o almeno si cercava una spiegazione, una ragione. Lo stesso dispositivo era stato applicato anche alla storia del “suo” partito comunista, la cui scomparsa sotto le macerie berlinesi, mentre Mstislav Rostropovich suonava il suo violoncello, diveniva così la chiave per interpretare tutta la sua esistenza.

Del resto la biografia è un canone rassicurante nel quale la vita, individuale o di un’organizzazione, si sgrana secondo un destino, un filo preciso: un inizio, una meta (come scopo e termine) e nel mezzo una strada, una carriera, piena di incroci a volte pericolosi. La biografia diventa quindi il luogo per eccellenza della storia, quasi un romanzo. Da qui il suo successo commerciale ed editoriale, un successo che degli storici di professione spesso e volentieri fa anche a meno. Giornalisti e romanzieri (categorie in Italia sempre più coincidenti), venivano incaricati dagli editori, e incoronati sulle pagine culturali dei loro stessi giornali, di lanciarsi in qualunque sfida biografica senza tempo: dai faraoni agli astronauti. Non solo. La biografia assomma anche la possibilità di riassumere un’intera epoca storica e di svelarne dall’interno i meccanismi più nascosti. Quindi i sottotitoli delle biografie assumono la forma di un canone rivelatore del tipo “tutto quello che avreste voluto sapere, ma che da sempre o non vi è stato detto o vi è stato tenuto nascosto”: la donna che determinò la caduta di Roma, la vera storia della Chiesa nel Medioevo, l’uomo che inventò il Rinascimento, il lato oscuro della rivoluzione francese, quando la massoneria conquistò gli Stati Uniti, non sono Napoleone, l’uomo che non ebbe pietà, la donna che inventò il fascismo, una vita da traditore, l’uomo che salvò l’occidente, il giornalista che sapeva tutto, la vittima del sistema, chi è Stato veramente?, la martire dei poteri forti, colui che sfidò la corruzione, la storia di un epoca, una tragedia repubblicana… Insomma una riserva infinita di suggestioni da cui spesso gli storici si sono tenuti, non senza forzature, lontani, perché consideravano il genere inadatto agli oggetti storici e storiografici, non fondato su una base metodologica ed epistemologica.  

Però è interessante che tra le grandi opere italiane riconosciute dalla storiografia a livello internazionale vi siano proprio delle biografie. Il Menocchio di Carlo Ginzburg e il Mussolini di Renzo De Felice, mentre passerà quasi del tutto inosservato un capolavoro come la vita di Cavour scritta da Rosario Romeo. Certo quelle di Ginzburg e De Felice sono due opere agli antipodi, imparagonabili, eppure quel mondo della Riforma e della Controriforma visto dalla carte prodotte dall’Inquisizione sul caso di uno sconosciuto ed eretico mugnaio veneto, da una parte, e la costruzione del regime fascista visto dalla carte che arrivavano sulla scrivania del Duce, dall’altra, lanciavano entrambe una sfida contro il pregiudizio sul genere biografico. Non è un caso che su queste due opere, per varie ragioni, sia ancora oggi aperto un dibattito. Al centro di questa discussione vi era, e vi è, l’uso delle fonti archivistiche, i luoghi della loro conservazione, il loro rapporto con l’intenzionalità di chi le ha prodotte (siano esse donne, uomini, famiglie, istituzioni) e infine la filologia e la gerarchia delle fonti, anche nella loro comparazione con altre produzioni storiografiche: insomma un classico dibattito sul mestiere dello storico, tutto interno gli addetti ai lavori.

Mentre la critica portava avanti questo lavoro, il mondo della storia cambiava, come spesso avviene in una disciplina che per statuto non può non essere revisionista. Per esempio nell’ambito degli studi sulla contemporaneità, sparivano dall’orizzonte oggetti che sembravo parte stessa del paesaggio, massicce montagne da scalare. Specialmente nell’Italia di fine millennio, la scomparsa improvvisa dei grandi partiti lasciava sgomenti. Le vecchie raccolte in più volumi delle storie di ogni partito, i grandi quadri riassuntivi in tomi di vario numero, non riuscivano a spiegare come tutto ciò fosse stato possibile. Chi era il colpevole? Persino le grandi storie repubblicane a più mani e voci, che proprio in quegli anni si pubblicavano, sfarinavano nelle mani degli autori e nella curiosità dei lettori. Cos’era successo? Com’era possibile che un oggetto storiografico così massiccio potesse sparire da un momento all’altro? Un po’ com’era successo con il crollo imprevisto dell’impero sovietico o forse anche con la scomparsa dei dinosauri. Si erano estinti per cause esterne, un meteorite giudiziario, o perché internamente il loro organismo era inadeguato all’ambiente, la loro energia ideologica esaurita? Si insinuava il dubbio che la crisi dei modelli monocausali e deterministici, come la cultura, o l’economia, o la demografia, o l’organizzazione avessero bisogno di una revisione.

Per chi, molti anni prima, aveva seguito, sulla rivista Quaderni storici, il dibattito storiografico sulla microstoria, con le sue lunghe discussioni sulle pratiche, le azioni, le scale, i luoghi, le procedure, le fonti, i dettagli, il collegamento era parso subito chiaro. Al centro del lavoro storico doveva tornare la ricerca della verità relativa al modo conflittuale e attivo degli uomini di agire nel mondo. Quindi, ad esempio, non studiare il fascismo soltanto dal chiuso della stanza del mappamondo di palazzo Venezia, ma dalla casa del fascio del più piccolo paese del meridione. Come si diventa fascisti in un piccolo paese del Veneto o della Sardegna? Come veniva reclutato il personale politico? Quali le risorse materiali e simboliche su cui far leva per costruire un improbabile consenso in regime totalitario? Le risposte a queste domande davano vita a una nuova e interessante stagione di studi, dove le varie situazioni locali non erano deviazioni rispetto a norme universali (che non esistevano), ma l’effetto emergente della diversità dei contesti locali, degli attori coinvolti e del campo di forze nel quale si muovono. La stesso metodo si poteva estendere alla storia dei grandi parti dell’Italia repubblicana: la storia della Democrazia cristiana si poteva raccontare con la biografia dei suoi notabili veneti o siciliani, più che con quella di Andreotti o di Moro; e il successo del partito comunista in Emilia più che dai verbali del comitato centrale poteva dipendere dalle capacità e dalle possibilità dei dirigenti locali, così come la parabola del partito socialista non coincideva solo con la storia di Nenni e poi di Craxi ma con il reclutamento e le biografie del nuovo ceto dirigente locale. Un ritorno, quindi, al racconto e ai contesti che pone diversi problemi nel rapporto con la forma-romanzo, specie per ciò che le carte non dicono, e con la dimensione della memoria pubblica, specie in ciò che nelle carte straborda.

Sola all’interno di questa cornice dagli angoli non regolari è possibile inquadrare “Pio La Torre. Dirigente del PCI”, che, come i curatori Tommaso Baris e  Gregorio Sorgonà si sforzano di sottolineare, non vuole essere una biografia, bensì una ricostruzione della sua vita politica all’interno del partito comunista in un’area – la Sicilia – marginale e di scarso interesse, perché di scarso radicamento elettorale. Biografia personale, scelte sentimentali, drammi e gioie familiari, gusti musicali, film visti e libri preferiti, viaggi, hobby e amicizie, canzoni e auto, insomma tutto ciò che di solito affolla riga per riga, pagina per pagina, quei magnifici toni delle biografie, con tanto di album fotografico, insomma tutto questo non c’è. C’è la storia del funzionario di partito, di una lunga serie di sconfitte e dell’incapacità di sapere leggere e agganciare le convulse trasformazioni della società dopo la gloriosa stagione delle lotte sindacali nelle campagne, chiusa con la grande migrazione verso le città e le fabbriche degli anni cinquanta. La Torre è uno dei nuovi professionisti della politica, cresciuti all’interno di un partito che prima del fascismo e subito dopo il suo crollo aveva pochissimi voti, ma capaci di far crescere i consensi in pochi anni, sino a raggiungere la quota di un terzo dei voti alle elezioni regionali del 1947, in un fronte comune con i socialisti. Quel successo non venne mai più raggiunto, mentre la Democrazia cristiana riusciva ad egemonizzare non solo il consenso nella campagne, ma poi anche quello nelle città e, trasversalmente, in classi diverse. La capacità di farsi partito di massa in Sicilia da parte della Dc, metteva in grave difficoltà e segnava i limiti dei comunisti sull’isola che Togliatti sottolineava con le sue note reprimende contro il plebeismo e il settarismo.

Ad ogni stagione politica e a ogni tornata elettorale il gruppo dirigente del partito subiva dei cambiamenti nelle funzioni dirigenziali e nei luoghi stessi in cui i suoi membri esercitavano il mestiere della politica: organi del partito, sale consiliari, parlamenti e sindacati. I saggi di Sorgonà, Baris, Alexander Hobel e Ermanno Taviani espongono in maniera cronologicamente lineare questa carriera, che dritta non è mai, di La Torre nel partito. I successi, così, si alternano alle sconfitte e gli incarichi prestigiosi, in centro e in periferia, a quelli meno rilevanti. Il gioco delle forze delle correnti all’interno dei comitati e delle segreterie centrali, regionali e provinciali, rendeva ancora più complicata la definizione di schieramenti e appartenenze. I quattro storici sopra elencati, riescono a districare questa complessa dinamica del partito comunista grazie all’uso intensivo, critico e filologico, della documentazione prodotta dagli organi centrali e periferici, incrociando questo lato più riservato della vita politica di La Torre con quello pubblico dei giornali e delle riviste. Alla luce di tutto questo lavoro, viene fuori una storia del partito comunista che è anche una parte della biografia di La Torre: una parte fondamentale, perché la vita di La Torre, come tutte le vite, non è riducibile a un disegno unico, ma è frutto di molteplici identità stratificate lungo l’arco degli anni. A testimonianza di questa irriducibile pluralità vi sono gli altri saggi del volume: quello di Francesco Tornatore dedicato agli anni giovanili di La Torre e quello di Pierluigi Basile sulla sua attività di sindacalista; e ancora il confronto con problemi nazionali come la questione contadina negli anni Settanta, esposta nel saggio di Giovanni Cerchia, o il dibattito sull’intervento straordinario, ricostruito da Giuseppe Provenzano; infine l’incontro con il femminismo, discusso nel contributo di Daniela Dioguardi. Il libro ci restituisce così una storia del partito comunista che non è più affidata soltanto alle mozioni congressuali e alle posizioni politiche dei suoi dirigenti centrali, ma che è anche la storia personale di tanti che credevano in quel progetto politico e che si sono impegnati, anche nella periferia più lontana, a combattere per quell’ideologia, mettendosi professionalmente al suo servizio. Il libro, insomma, è un ritratto di un professionista della politica e di un preciso contesto che ci permette di capire meglio la storia più generale del partito politico nazionale e internazionale. Una biografia che però non è e non può essere simile a quella di tanti altri militanti, siciliani o italiani, a causa della sua fine. A questo punto al biografo, o ai biografi come nel nostro caso, non resta che incrociare e ricomporre «l’infranto», utilizzando i ferri del mestiere dello storico, restituendo verità laddove è possibile e accennando a ipotesi dove le fonti sono scarse e abbrumate.

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