I documentari vincitori di Biografilm Italia, più uno.

Cosa ci si aspetta dal concorso nazionale di un festival di cinema documentario? Ne hanno uno quasi tutte le rassegne: IDFA presenta documentari olandesi, Vision du Réel fa lo stesso con i film prodotti in svizzera mentre il Biografilm festival, insieme ad altri, è una vetrina per quelli italiani. Anche se essere selezionati e magari vincere un concorso in patria sicuramente aiuta a superare i confini, i concorsi nazionali non sono semplicemente l’anticamera della potenziale carriera internazionale di un titolo. La selezione “locale” è spesso una delle poche occasioni per vedere produzioni piccole e piccolissime, film che per tematica o forma non vengono poi distribuiti che in qualche sala nonostante la forza delle storie che raccontano.
Ad esempio, tra tutte le belle cose viste all’ultima edizione del Biografilm, andata in scena a Bologna tra il 4 e il 14 giugno, ci sono anche quattro film della sezione Biografilm Italia a cui si può augurare di trovare tutto il pubblico che si meritano.
Il più eclettico del gruppo è senz’altro Squilibrio di Luca Rabotti, che ci presenta Giovanni, un uomo sui quaranta, magro e mai fermo, che vive in una piccola fattoria della Val Camonica. Ci vuole meno tempo a capire Giovanni che a inquadrare cosa voglia fare il film, girato in un bianco e nero molto contrastato e con sequenze visibilmente messe in scena, ma della cui veridicità originale non abbiamo motivo di dubitare. Giovanni ha superato anni di dipendenza dalla cocaina riversando tutta la sua energia nella cura di animali salvati da morte certa. Le grandi coccole che fa ad Angie, una cinta senese di 250 chili, servono a entrambi, ma Giovanni non è quieto e vorrebbe sempre salvare altri animali. Non smette di presentarsi dal vicino per farsi vendere la vitellina il contadino che vorrebbe macellare, né di andare a trovare un amico d’infanzia che lavora, purtroppo o per fortuna, proprio al macello locale.
Il fatto che il linguaggio salvifico di Squilibrio non sia esattamente sottile rafforza paradossalmente il modo in cui il tema dell’eccesso viene rielaborato, e insieme al contrasto, al ritmo concitato e alla recitazione esagerata rende presentissimi i fantasmi con cui Giovanni si sta misurando.
Se Giovanni vive sul lago d’Iseo, sul vicino lago di Garda troviamo la famiglia di Rocco Di Mento, autore di The Blunder of Love e vincitore del premio alla migliore opera prima. “The Blunder of Love” si potrebbe tradurre con “L’amore è un abbaglio”, ma invece di una commedia degli errori ci troviamo di fronte alla banalità di errori rimossi e responsabilità disconosciute da gran parte della famiglia del regista. Il film in realtà si apre con un altro protagonista: il nonno di Rocco, da tempo scomparso, che trascorse buona parte della propria vita in mare lavorando su grandi navi commerciali. Alla moglie mandava lunghe lettere romantiche e corposi assegni con cui costruire una casa e il futuro della famiglia. Di fronte all’affetto sconfinato che quest’uomo metteva nero su bianco scopriamo però che la destinaria era e rimane decisamente fredda.
La nonna, dai cui Rocco si aspetta aneddoti su cui cementare un’epica familiare che si rispetti, parla invece di un amore mai corrisposto e dato per scontato dal resto della famiglia. “Forse sarei stata meglio sola” è la fine del documentario sul nonno e l’inizio di quello sul malinteso originale da cui dipendono i rancori che impediscono ancora oggi di sedersi tutti allo stesso tavolo. Anche se ogni famiglia infelice difende il quieto vivere a modo suo, fa un certo effetto sentire i fratelli di Rocco fare ironia sul suo interesse per il passato proprio mentre lui mette mostra la profondità delle crepe. Abbandonato il progetto di genealogia degli affetti The Blunder of Love si concentra sull’inerzia delle relazioni e su quali compromessi siano davvero accettabili.

Gli ultimi due film sono i vincitori ex aequo di Biografilm Italia, e non potrebbero essere più diversi. Con Game of the Year Alessandro Redaelli torna al festival dopo Funeralopolis. Complice il soggetto del suo primo film, in cui Redaelli mostrava persone che fanno uso di eroina nella periferia milanese, è difficile trovare interviste con il regista in cui non gli si chieda della presunta somiglianza tra la comunità di Funeralopolis e quella dei videogiocatori di Game of the Year. In realtà Redaelli si preoccupa di tutto tranne che di dipendenza. Essendo uno dei primi (il primo?) a occuparsi di videogiochi in Italia, il film ha molto terreno da coprire e non a caso funziona come un ritratto collettivo di otto persone legate al mondo dei videogiochi in maniera diversa.
In Game of the Year quindi compaiono streamers, programmatori indipendenti, giocatori professionisti e aspiranti tali. A uno sguardo esterno la complessità della comunità di persone presentata stordisce e intimidisce, ma con il passare del tempo ci si accorge che la vera ragione della confusione è il modo in cui questa comunità viene descritta generalmente. Allo stereotipo del videogiocatore (perché lo si vuole sempre uomo) come essere monotematico, asociale e iper razionale Game of the Year risponde instillando dei dubbi. Anche solo tra le persone seguite da Redaelli ci sono molti modi di stare “dentro”, diverse routine e speranze, e sarebbe davvero un peccato rinunciare a capire le varie ragioni per cui milioni di persone continuano a cercare e produrre contenuti. Forse l’unico limite del film è proprio quello di mantenersi a una certa distanza dagli stessi videogiochi, di cui vediamo solo pochi secondi. Non è compito facile, ma familiarizzare con estetiche e storie potrebbe aiutare a capire cosa attrae verso i mondi virtuali.
L’altro film vincitore ci riporta invece ai fatti fin troppo conosciuti degli ultimi 18 mesi. Io resto di Michele Aiello è un diario della prima ondata di casi Covid vista da un reparto dell’ospedale di Brescia. Non sapremo mai quanti film sono stati girati l’anno scorso durante le prime fasi del lockdown. Il rischio, come per tutti i lavori molto vicini agli eventi che vogliono raccontare, è quello di adottare una prospettiva che sarà subito obsoleta. Il merito di Michele Aiello – e dei medici che gli consentono di iniziare le riprese già durante lo smarrimento collettivo di marzo 2020 – è quello invece di documentare senza pretendere di spiegare.
Visto a giugno 2021, Io resto dà però l’impressione di mettere ordine. Mostrando i momenti peggiori della pandemia, messi via in fretta in furia in queste settimane di ottimismo vaccinale, il film riesce a generare empatia da un punto di vista nuovo, a metà tra l’emotività di uno spavento recente e la lucidità di chi conosce le due o tre scene successive a quella che vede. Lontanissimo dalla capitalizzazione emozionale di un instant book, Io resto non regala conferme. Le storie di dottoresse, infermieri e pazienti sono emozionanti ma non sentimentali né simboliche. Il senso di vuoto che abbiamo vissuto come individui in fondo lo conosciamo solo noi, ma Io resto comincia a farci intravedere come delle paure particolari si stanno già trasformando in memoria condivisa, e non è poco.
