Il 23 novembre di quarant’anni fa uno spaventoso terremoto colpì la Campania e la Basilicata. Continuiamo la serie di approfondimenti su quell’evento ospitando una riflessione di Stefano Ventura, autore di “Storia di una ricostruzione. L’Irpinia dopo il terremoto”, recentemente uscito per Rubbettino editore.

2914 morti. Decine e decine di paesi cancellati. Pensando agli effetti della scossa che il 23 novembre 1980, alle ore 19 e 34, sconvolse l’Appennino meridionale, colpendo al cuore l’Irpinia e la Basilicata, sarebbe bene non dimenticare il dolore profondo di chi, allora, perse le persone più care. Le polemiche e lo sdegno che si lega nel discorso pubblico al terremoto in Irpinia devono tener conto di questo dolore, devono tener conto delle testimonianze di chi visse quei novanta secondi interminabili ed ebbe la fortuna di restare in vita, ma cambiando per sempre, inevitabilmente, la propria esistenza. È questo il monito che l’anniversario da cifra tonda dovrebbe tener presente.
Ciascun irpino, ciascun lucano porta dentro di sé ricordi dolorosi, lutti di persone care, familiari, amici. Eppure il discorso pubblico nazionale, anche in questo quarantesimo anniversario, sarà certamente improntato su altre questioni: lo spreco, la cattiva gestione delle finanze pubbliche, i tempi lunghi per concludere i lavori di ricostruzione. Tutti questi temi sono temi reali e storici, dati di fatto che non possono essere elusi. La ricostruzione dopo il terremoto è costata circa 32 miliardi di euro, secondo i calcoli fatti dalla Corte dei Conti pochi anni fa attualizzando da lire in euro la spesa destinata al capitolo della “ricostruzione e sviluppo” delle aree terremotate, come recitava la legge 219 del 1981.
Ma la narrazione di un evento, come il terremoto, e di un periodo lungo, come la ricostruzione, deve essere più articolata e più ampia, senza fermarsi solo a stereotipi e slogan buoni per articoli scandalistici.
Proprio la questione della memoria è un primo problema irrisolto; chi ha vissuto quei 90 secondi ricorda nel dettaglio ogni singolo particolare, lo ha isolato nel tempo, lo ha rivissuto come si fa con le scene di un film. Le testimonianze, poi, ripercorrono di solito i giorni dell’emergenza, a partire dai soccorsi in ritardo fino all’arrivo dei volontari e alla solidarietà fraterna tra italiani, una delle pagine più belle in quei giorni angosciosi. Poi si verifica un salto logico, un’omissione e un rifiuto di raccontare la ricostruzione a uso e consumo di chi ha già la risposta in tasca. Le vicende personali, le idee politiche e i giudizi qui divergono e vanno da chi ritiene che la ricostruzione sia stata comunque una grande pagina di modernizzazione e chi ritiene che, invece, sia stata una occasione persa, l’ennesima per questa parte di Sud in una lunga storia di fallimenti e sconfitte.
Il terremoto ha creato delle faglie più subdole e invisibili, quelle del rancore tra chi è stato capace di approfittare dell’occasione e di chi non ci è riuscito, tra chi prima non aveva nulla e adesso ha e tra chi prima aveva e poi ha perso quasi tutto. Forse per sanare queste fratture c’è bisogno di tempo, ci vorranno altre generazioni, una classe dirigente e professionale diversa, altri centri di azione e di pensiero.
Non appare chiaro chi gestirà e animerà, però, questi processi, se in tanti continueranno ad abbandonare le terre in cui il terremoto del 1980 seminò distruzione e dolore.
Tornando al volontariato, è forse poco evidente l’importanza dei segni e delle esperienze maturate nell’emergenza. Nell’Italia Repubblicana spesso i volontari hanno dimostrato slancio e praticità in caso di disastro, una costante che arriva fino ad oggi. Anche nell’emergenza COVID-19 i volontari hanno dato una grande mano intervenendo in sostegno e in sostituzione del servizio pubblico. Le storie dei volontari in Irpinia sono state raccolte in tanti diari, memoriali, libri e anche dai social media, ad ogni anniversario. Si può ad esempio citare la storia di Luisa Morgantini, sindacalista lombarda che partì alla volta di Teora (Avellino) per restarci poche settimane e che invece ci rimase un anno, avviando anche una cooperativa, “La metà del cielo”, con alcune ragazze giovanissime. Oppure la storia di Nora Scirè, architetto: appena laureata andò sul campo sia per dare una mano, sia per dare un contributo professionale. Infatti contribuì a ricostruire molti centri storici, scegliendo poi Laviano e Salerno come luogo di residenza per costruire una famiglia.

Ai costi altissimi della ricostruzione ha contribuito il progetto di industrializzazione delle province di Avellino, Potenza e Salerno. La legge prevedeva la creazione di venti aree industriali che dovevano ospitare circa 250 aziende e dare lavoro a circa 14mila persone. Già alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta, istituita nel 1989 e guidata da Oscar Luigi Scalfaro, apparve chiaro che quel piano aveva evidenti lacune e ritardi. Ad esempio, nelle preferenze degli imprenditori c’erano solo cinque aree su venti, quelle meglio posizionate logisticamente. La Commissione condannava, quindi, la logica “un campanile, una ciminiera”.
L’Osservatorio sul Doposisma (link) ha dedicato nel 2011 un dossier con dati e analisi alla “fabbrica del terremoto” (sottotitolo: come i soldi affamano il Sud ). A quella data solo il 48% delle addetti previsti lavorava ancora in quelle aree industriali, solo un centinaio di aziende sopravvivevano. Negli ultimi anni la tendenza non si è invertita e la crisi dovuta alla pandemia rischia di aggravare la situazione.
C’era la convinzione che gli insediamenti industriali avrebbero portato finalmente il nuovo in un’area che faceva fatica a fare i conti con la modernità e soprattutto che finalmente ci sarebbe stato lavoro per tutti. È un sogno che ha illuso tanti giovani. Se il progetto di riscatto legato all’industria non ha avuto gli esiti sperati è stato anche perché sono stati scelti settori produttivi che non erano legati al territorio, come chiedeva invece Rossi Doria nel 1981, con una ricerca svolta con la facoltà di Agraria di Portici. La trasformazione della filiera agricola, la modernizzazione, a partire dal vino ad esempio, sarebbe stato un rafforzamento di una risorsa del territorio mentre sono stati imposti dall’alto investimenti in settori produttivi avulsi dal contesto. Al tempo stesso è mancata la formazione di una classe dirigente locale, attraverso la valorizzazione di scuole o percorsi guidati con istituti scolastici e università che formassero quadri, tecnici e dirigenti d’azienda. In più, in nome di questo sviluppo, è stato sacrificato l’artigianato locale e tante piccole ditte, dopo il boom edilizio della ricostruzione, hanno sofferto e sono andate in crisi.
L’idea di affidare ai sindaci le scelte fu impostata forse già dal commissario di governo Zamberletti, ad esempio quando si dovevano collocare le aree coi prefabbricati. In Irpinia e Basilicata ogni comune ha scelto in base a logiche interne e specifiche, affidandosi a progettisti, urbanisti e tecnici provenienti da tutta Italia. Anche quando gli architetti conoscevano i luoghi, i risultati sono stati contraddittori. È il caso di Teora, che affidò a un suo cittadino, Agostino Renna, il piano di ricostruzione, ma ha visto ricostruire il suo centro storico con edifici di più piani, senza balconi, che oggi sono vuoti poiché poco adatti alle esigenze degli anziani. Ogni sindaco ha poi risposto elettoralmente ai suoi cittadini delle scelte che ha compiuto insieme ai consiglieri e agli assessori comunali.

Il patrimonio abitativo dei paesi devastati dal terremoto del 1980 era largamente fatiscente e inadeguato; la ricostruzione era quindi l’occasione per un adeguamento dovuto delle condizioni di vita. Posti di fronte a una scelta, molti proprietari hanno preferito costruire una villetta monofamiliare in periferia o in campagna piuttosto che andare ad abitare in centri storici difficili da raggiungere in automobile e in case addossate l’una all’altra, e la legge di ricostruzione permetteva e per certi versi favoriva questa opzione.
C’è in ogni paese questo contrasto tra vecchio e nuovo, tanti gli errori che sono stati commessi; sono tantissimi i vani costruiti in ogni paese, al di là delle esigenze delle comunità; visto che i soldi c’erano, nelle case nuove sono state acquistate cucine modernissime e vasche idromassaggio, con la paura di usarli per non farli rovinare (come raccontano alcune testimonianze raccolte da Gabriele Moscaritolo in “Memorie dal cratere”).
Insomma, ognuno ha reclamato il passaggio alla modernità, alle comodità e ad ampliare i propri spazi privati, ma questo passaggio è stato troppo brusco e sregolato, voltando le spalle ai cosiddetti “paesi-presepe” fatti di vicoli e arrampicati sulle dorsali dei colli. In molti casi il risultato è fatto di centri urbani anonimi, freddi, senza luoghi comunitari e identitari.
L’Irpinia e la Basilicata, oggi, sono zone spopolate dell’Appennino, simili a tante altre nonostante l’iniezione massiccia di denaro pubblico della ricostruzione. Forse è questo il dato di fatto più eclatante. Oggi c’è un progetto dedicato a queste aree, la Strategia Nazionale Aree Interne, che dovrebbe sanare il divario in termini di servizi primari quali la salute, l’istruzione, i trasporti, la banda larga. Anche se la Strategia è attiva da qualche anno, i suoi effetti non sembrano invertire la tendenza, anche perché spesso le divisioni tra amministratori, comuni e istituzioni varie e le logiche di una politica pervasiva ma inefficace hanno la meglio su chi si sforza di proporre e mettere in atto azioni e sforzi concreti.
Questi quarant’anni e tutti quei miliardi hanno portato a questi risultati. Ci sono anche varie narrazioni e teorie che parlano di ripopolare i borghi, sceglierli per lo smart working e per una vita più a misura d’uomo. Senza servizi essenziali e senza occasioni di lavoro, però, sarà dura ripopolare e far rinascere le terre dell’osso (come le definiva Manlio Rossi Doria).
