Per un’ecologia politica della città
“Globalizzazione vuol dire che se qualcuno starnutisce in Cina, qualcun altro un giorno potrebbe prendere un raffreddore a Toronto. O peggio: se, per dire, nella provincia del Guangdong, 80 milioni di persone vivono a stretto contatto con polli, maiali e anatre, così stiamo facendo in realtà tutti. Per l’appunto, il villaggio globale”.(Commento editoriale del Globe and Mail, 29 marzo 2003, sulla diffusione della SARS tra Asia e Canada)
Si apre così Networked disease. Emerging infectious in the global city (2008), meticolosa autopsia sociologica post-SARS in cui i sociologi S. Harris Ali e Roger Keil ripercorrono le relazioni fra flussi di denaro, materie prime e persone all’origine della diffusione di questa malattia infettiva tra Hong Kong, Singapore e Toronto. Così facendo, i due autori arrivano a dimostrare quanto la vulnerabilità delle tre global cities fosse diretta conseguenza delle interconnessioni globali e di modelli di sviluppo urbano che avevano prodotto forme di governance e infrastrutture della salute carenti, ben prima della diffusione del virus.
Una decade appena e un altro virus della SARS ci ha colti nuovamente impreparati. Uno starnuto stavolta quasi sincrono nel mondo ha scoperchiato nodi, ramificazioni nascoste e zone d’ombra dell’urbanizzazione planetaria, quel continuum urbano che secondo i geografi Neil Brenner e Christian Schmid si dirama attraverso morfologie nuove e/o espanse oltre i confini regionali e nazionali, per tutto il pianeta (N. Brenner, Implosion/Explosion. Towards a study of planetary urbanization, Jovis, december 2013). Rotta la separazione città-campagna, l’urbano e le geografie relazionali che lo sottendono divengono la chiave di lettura fondamentale per analizzare le dinamiche di ricomposizione dello spazio da parte del capitalismo globale.
Ciò spiega come il capolinea di una linea di approvvigionamento regionale di alimenti nella regione metropolitana di Wuhan fosse immediatamente collegato non solo all’altro capo della città – correndo oltre 8.000 km² e 11 milioni di abitanti – ma al cuore di New York ancor prima della diffusione del contagio. Il virus ha viaggiato sugli aerei e sui treni, propagandosi ovunque mediante una rete infrastrutturale che connette le metropoli del mondo alle città più piccole come appartenenti ad un’unica costellazione terrestre: quella urbana.
La teoria della planetary urbanization si presenta come un fertile, oltre che valido, strumento interpretativo perché dimostra come luoghi anche lontanissimi dalle città, che sembrano non avere alcun collegamento con la dimensione urbana, sono non soltanto collegati ma fondamentalmente determinati nella loro composizione socio-ecologica da ciò che avviene nei centri di potere globali delle città. Sia gli uni che gli altri sono tenuti insieme dalle dinamiche riproduttive capitalistiche che nell’urbano trovano la loro manifestazione spaziale.
Questa idea dell’urbano con tutte le sue configurazioni nominate – città metropolitan, mega-city-region, etc. – o ancora da nominare non allude tanto una versione estesa della città, né tantomeno ad una sua composizione omogenea: è piuttosto l’esito della spinta mossa dall’accumulazione capitalistico-imperialista e dalle infrastrutture che la rendono possibile. É il farsi materia eterogenea – infrastrutture, abitazioni, merci, persone, denaro, rifiuti, ecc – e rizomatica di quella dinamica metabolica che riproduce ed espande i più grandi agglomerati della Terra e li connette a luoghi cruciali per il loro approvvigionamento di risorse.
Nel momento in cui le città sono costrette a sospendere gli scambi che le irrorano – quella relazionalità che ne è fondamento ontologico, oltre che funzionale – diviene evidente quanto la paralisi forzata sia indice di un morbo ben più profondo.
La rapidità di diffusione del contagio è l’indicatore di un metabolismo urbano compromesso perché incapace di riequilibrare la propria spinta sostanzialmente dissipativa, ammalando le stesse comunità che lo abitano, specialmente quelle più fragili: dagli anziani delle aree industrializzate alle popolazioni indigene e alle minoranze marginalizzate che affollano il mondo, per le quali la sospensione del lavoro, il distanziamento sociale o un’assicurazione sanitaria rappresentano un lusso.
Il virus cessa così di essere un nemico alieno solo naturale improvvisamente saltato fuori da qualche bat-caverna per rivelarsi per quello che è: il prodotto ibrido di una cultura dello sviluppo urbano sostanzialmente tesa a dividere per rigenerarsi, spingendosi fino ad aggredire l’ultimo argine alla frammentazione, il contatto tra gli umani. E finendo inevitabilmente per tradirsi.
Lo scenario del cambiamento climatico rispetto al quale l’opinione pubblica è stata sollecitata negli ultimi anni si è trovato improvvisamente scalzato da una ben più tangibile catastrofe sanitaria, figlia dello stesso modello economico. Una catastrofe tutt’altro che democratica, fondata su modelli coloniali di urbanizzazione della natura, depauperamento selettivo e scambio ecologico ineguale, che indirizza i peggiori danni della produzione e agricoltura industriale – i motori delle città – verso i diversi sud del mondo.
Stiamo drammaticamente verificando sulla nostra pelle quanto l’accesso alla salute non sia uguale per tutti, quanto le crisi sanitarie ed ecologiche pesino in maniera discriminata sulle popolazioni e non si possano scindere dalla lettura delle relazioni di potere e dalle lotte, di classe, genere o etniche. Le crisi sanitarie come quella in corso e quelle ecologiche da cui derivano sono questioni fondamentalmente politiche.
L‘ecologia politica e popolare permettono di leggere correttamente queste crisi, la prima decifrando la qualità della relazione politica tra fattori socio-economici e cambiamenti eco-ambientali, la seconda denunciando il modo in cui le soffrono le popolazioni più povere; entrambe, dimostrando che la diffusione del virus non è un prodotto esterno alla società ma è del tutto interno ai processi messi in moto da un certo tipo di sviluppo, estrazione di risorse e consumi insostenibili.
Un’idea che dovrebbe divenire virale, connettere scienze specialistiche e farsi patrimonio comune, per indurre a prestare quell’attenzione necessaria alla distribuzione del potere che struttura la ripartizione di benefici e di mali ambientali tra i gruppi sociali e le popolazioni.
In un mondo in cui il bestiario di agenti patogeni in circolazione prospetta spillover annuali (Quammen, 2014) e pandemie sempre più ravvicinate, le malattie infettive offrono paradossalmente un’opportunità operativa: pensare più profondamente le modalità con cui ci appropriamo della terra, spostando l’analisi dell’origine e del decorso clinico delle malattie dal modello biomedico di causalità a quello della complessità, e inquadrandola nel campo delle relazioni eco-sistemiche che il capitale e altre cause strutturali hanno individuato per il loro vantaggio.
La prima pandemia del secolo urbano ci ha dimostrato in maniera lampante il contagio come prodotto non soltanto biologico ma anche culturale, sociale, politico ed economico, in una parola, urbano. E dall’urbano, anziché dalla sua negazione, bisogna ripartire. Ma come? Anzitutto, rifondandolo politicamente, a partire da una chiara definizione di chi guadagna e chi paga (e in quali modi) in particolari processi di “metrabolismo” dell’ambiente, qui suggerito come neologismo per il metabolismo urbano alla scala planetaria.
Ora che il diritto alla città è diventato – per citate Mbembe – il diritto universale al respiro, un “metrabolismo sano” diviene l’arena politica entro cui immaginare, pretendere e costruire diversi futuri socio-ambientali. Lo spazio materiale e simbolico decisivo in cui trasformare radicalmente la questione della sostenibilità in una questione di democrazia e in un’occasione di sovversione delle iniquità del vigente ordine capitalista. In cui, ad esempio, ristabilire concretamente la salute pubblica e non l’agroindustria come fattore prioritario di sicurezza.
Occorrono, poi, immaginari non più saldati su dicotomie come città contro campagna o metropoli contro borghi rurali, né tanto meno sull’idea fallace di uno sviluppo urbano sostenibile, quanto sull’idea di spazi ibridi generati e rigenerati da relazioni positive tra le specie. Un’idea che solo un dialogo appassionato, anarchico, fertile tra teorie dalla vocazione normativa e trasformativa degli spazi dell’abitare, quali sono rispettivamente l’ecologia politica e l’urbanizzazione planetaria, può veicolare e applicare.
Cinquant’anni fa, il fisico premio Nobel Ilya Prigogine sollevava la necessità di una “nuova alleanza” tra scienze della natura e scienze umane, mettendo in luce la portata innovativa che un dialogo tra i due ambiti può rivestire nello studio di fenomeni complessi – come, appunto, quelli urbani. Lo stesso Brenner (2018) sollecita gli studiosi critici urbani a traguardare da più parti l’urbanizzazione planetaria mettendola a confronto con altre cornici interpretative della planetarizzazione dell’urbano, compresa la teoria ecologica, per realizzarne pienamente la sua vocazione di strumento euristico e aperto, appunto, a un “pluralismo impegnato”.
Se interpretiamo l’ecologia politica come una disciplina politica per abitare il mondo (che è oggi e sempre più urbano) e assumiamo il paradigma dell’urbanizzazione planetaria come strumento trasformativo, oltre che analitico, la connessione tra le due apre un nuovo campo di ricerca-azione per affrontare il punto nevralgico della reinvenzione della città, come costellazione collettiva e condivisa fondata su interazioni rispettose ed eque tra entità umane e non, che riparte dalla terra per rigenerare l’abitare urbano come spazio politico di relazioni radicalmente ecologiche.
Un nuovo orizzonte che soffonde i catastrofismi della luce di una visione raggiungibile: che oltre la planetarizzazione dell’urbano e l’urbanizzazione della natura, ci sia spazio, volendo, per (ri)ecologizzare il mondo.
Riferimenti bibliografici
Ali, S. H., & Keil, R. (Eds.). (2011). Networked disease: Emerging infections in the global city (Vol. 44). John Wiley & Sons.
Brenner, N. (2018). Debating planetary urbanization: For an engaged pluralism. Environment and Planning D: Society and Space, 36(3), 570-590.
Quammen D., 2014, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Adelphi.
Paola Piscitelli, DAAD P.R.I.M.E. post-doc fellow in studi urbani all’Hamburg Universität e all’University of Witwatersrand di Johannesburg, sta sviluppando una ricerca-azione sugli immaginari della gioventù in contesti urbani in rapida trasformazione mediante l’uso di metodologie partecipative audio-visuali. Coniuga la ricerca specialistica e quella sui linguaggi narrativi, con particolare interesse per quello documentaristico. Ha recentemente curato per Feltrinelli “Atlante delle città. Nove (ri)tratti urbani per un viaggio planetario” (2020), mentre il suo ultimo corto, prodotto dalla scuola Civica di Milano “Luchino visconti”, e da lei scritto, e girato e montato con Fabio A. Corbellini, si intitola “Radio Riders” (2020).