Quando i poeti traducono i poeti

Un confronto ravvicinato tra diverse edizioni dell’“Antologia di Spoon River”.

Antologia-di-Spoon-River

L’Antologia di Spoon River fu ed è un caso editoriale e letterario. Lo fu negli Stati Uniti, quando quei crudi epitaffi procurarono al loro autore, l’avvocato Edgar Lee Masters, la fama letteraria tanto desiderata, immensa ma effimera: quelle poesie dalla lingua spoglia, immaginate come postume confessioni di midwestern rancorosi e idealisti, suscitarono l’entusiasmo persino di Ezra Pound. E riverberarono gli ultimi bagliori del loro fascino, prima di essere dimenticate dall’immenso Paese-mondo degli USA, su un giovane americanista piemontese, che a lungo sognò l’America senza andarci mai. Nel 1931 Cesare Pavese pubblicava infatti su «La Cultura» il saggio L’Antologia di Spoon River, dando inizio alla seconda vita del libro, quella italiana. Fu infatti Pavese il tramite fondamentale perché nel 1943 Einaudi pubblicasse la prima traduzione della raccolta a firma di Fernanda Pivano: un successo che non si arresta nemmeno oggi.

Proprio nel centenario della prima edizione, il 2016 appena concluso, sono infatti apparse due nuove edizioni dell’Antologia: la prima, curata da Pietro Montorfani per il Saggiatore, ripropone la traduzione di Antonio Porta uscita negli anni Ottanta; la seconda, Mondadori, è invece una nuova traduzione a cura di Luigi Ballerini. Le due iniziative testimoniano non solo il grande affetto del pubblico italiano per l’opera ma anche due soluzioni diverse al problema principale del libro: la resa della lingua. Infatti, il successo dell’Antologia si è sempre basato su un equivoco: priva di costruzioni retoriche o sperimentali e dotata di elevata leggibilità, è stata considerata una poesia facile. Un equivoco che la lingua originale nasconde, o forse furbescamente adotta, per parlare di temi tutt’altro che banali, veicolati sfruttando la situazione universalmente umana della morte. A colpire i lettori italiani del 1943, oppressi dal regime fascista, fu infatti la ribellione che i defunti della immaginaria valle dello Spoon esprimevano – solo post-mortem, però – contro i legami della società in ogni forma: dal matrimonio alle classi sociali. Ma ognuno di quei rancorosi o idealistici borbottii è figlio di una cultura profondamente diversa da quella italiana. Innanzitutto perché situati nel periodo della prima espansione verso Ovest: non a caso sono centrati attorno a due cittadine reali (Petersburg e Lewistown) dell’Illinois, lo Stato di Chicago, forse la capitale del Midwest e di certo una delle poche, vere città che punteggiano la sterminata distesa tra i due oceani.

Se l’epopea western entrata nel nostro immaginario grazie a un certo cinema ha come sfondo la California, la stessa espansione disperata avvenne anche tra le praterie e i boschi del Midwest. A parlare nel libro sono persone imbevute di una cultura di espansione, condotta sulle ali entusiastiche di chi vedeva in ciò la realizzazione del diritto alla felicità: una fattoria, terra da coltivare e nessun giogo sociale. Inoltre, tale cultura è permeata di spirito puritano, un mix di precetti e regole di vita che va ben oltre la confessione religiosa. E il puritanesimo, basato sulla ricerca feroce della realizzazione terrena come specchio della benevolenza divina, è lontano anni luce dal più “passivo” cattolicesimo di preghiere e opere di bene. A trasmetterci queste idee sono proprio, nella scarna semplicità del loro linguaggio, i defunti che «dormono sulla collina». Ed è per questo motivo che la resa della lingua in un equivalente italiano è sempre stata la crux di ogni traduttore.

Il lavoro dei due poeti si basa su quello che può sembrare un paradosso: distanziarsi dall’autore appropriandosi del suo testo. La Nota al testo apposta in appendice da Montorfani ci ricorda che «quello di Antonio Porta era innanzitutto un testo firmato da un poeta» e che perciò la traduzione entrava in circolo con la sua produzione, in una fase molto prolifica. Le direttrici generali da lui seguite, secondo Montorfani, furono la ricerca di una voce per i personaggi attraverso un bilanciato equilibrio di passato (il richiamo esplicito, basato su una dichiarazione di Masters, alla Divina Commedia) e presente degli anni Ottanta (che permette di mantenere a volte l’inglese, che diventava allora di uso comune); inoltre, Porta si prende la libertà di stravolgere la forma dell’originale, aumentando il numero di versi. Se il richiamo dantesco è presente – come segnala Montorfani – in Robert Fulton Tanner, dove «burning eyes» viene tradotto con «occhi di bragia» (v. 19), al contrario «our leading citizens» nella poesia Harry Carey Goodhue viene reso con «i nostri leader» (v. 10). Oppure, in Lucius Atherton, «restaurant» (v. 13) rimane invariato, ma la traduzione del verso finale anticipa il complemento oggetto in una costruzione arcaizzante («feccia della vita mi ha ridotto»). Il tono di ironica incredulità del giudice Somers – amareggiato perché l’ubriacone del paese ha una tomba migliore della sua – viene reso non solo rendendo l’apostrofe al lettore del primo verso («How does it happen, tell me») con un diretto «Dimmi come può succedere» che traduce «you» con la seconda persona singolare (mentre l’originale ha un tono più generale), ma anche scegliendo «procedura» per «mood» al penultimo verso, un termine che si addice al «più erudito degli avvocati». La scelta di modificare la lunghezza è un altro espediente per enfatizzare il tono della poesia tramite la voce del suo protagonista, come in Benjamin Pantier che passa da 12 a 18 versi.

Porta spezza i versi originali con enjambement che rallentano la lettura, dando al rancore del vecchio procuratore legale ridottosi a vivere nel retro del suo ufficio con una bottiglia e il fedele cane Nig un tono di solennità. Se i versi 5-6 replicano il pathos dell’originale verso 4 («uscendo a uno a uno dalla vita / finirono con il lasciarmi solo»), altrove Porta si dilunga grazie alla costruzione di un italiano più articolato rispetto all’originale (il «with a snare which bled me to death» diventa: «con una tagliola che mi fece sanguinare a morte»). Ai versi 19-20 di Indignazione Jones notiamo invece una scelta significativa perché Masters spezza il verso dopo days («So I crept, crept, like a snail through the days / of my life»), sottolineando la durata della pena dell’uomo, mentre Porta sceglie di andare a capo dopo «lumaca», enfatizzandone lo squallore («Così strisciavo, strisciavo come una lumaca / lungo i giorni della vita»). In sostanza, l’operazione linguistica di Porta entra nell’originale in profondità ma lo rende una copia un po’ sbiadita: mantiene il senso delle poesie riproducendo, tramite le loro parole, il carattere dei personaggi, ma è come se usasse una lingua che ricalca solo superficialmente la loro fisionomia reale, rendendoli più personae letterarie che reali.

L’operazione linguistica di Luigi Ballerini punta invece maggiormente proprio su questo aspetto, nel tentativo di rendere i personaggi meno artificiali. D’altronde, il notevole apparato di note del libro mostra al lettore la concretezza alla base del lavoro di Masters: ogni poesia è accompagnata dalle note tratte dall’edizione dell’Anthology curata dal prof. John Hallwas della Western Illinois University nel 1992. In queste, per ogni personaggio ci vengono descritti i personaggi reali di Petersburg o Lewistown a cui Masters si ispirò. Non solo al lettore viene ricordato che il poeta trasse ispirazione da persone reali, ma si contestualizza la raccolta in un preciso contesto storico e geografico: quello del Midwest a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento. Per questo Ballerini si appropria del senso globale dell’opera e sceglie di trasmettercelo utilizzando una lingua più viva e colorita, che rende i personaggi più concreti; tralasciando anche lui come Porta, per gli stessi motivi, l’aderenza alla forma originale. D’altronde, è lui stesso a scrivere nell’introduzione: «La funzione ritmica ha spesso determinato la scelta lessicale e, a fronte di un singolo significante, sono spesso ricorso a una perifrasi»; e, ancora: «[H]o preferito tradurre non semplicemente con l’italiano, ma in italiano». Prendiamo, per esempio, Harry Carey Goodhue, il polemico epitaffio di un uomo sconfitto nelle sue battaglie civili che rivela di essersi vendicato facendo approvare il proibizionismo: il carattere battagliero del personaggio è trasmesso dallo stile della traduzione. I primi tre versi, in inglese una frase affermativa, diventano una provocatoria domanda alla «gente rimbambita» («dullards»: tonto, babbeo) di Spoon River: «Non vi è parso strano, o gente rimbambita / di Spoon River, che Chase Henry, per ripicca, / votasse contro i saloon da cui era stato messo al bando?»; inoltre, la costruzione verbale «to revenge himself» si scioglie nella nominale «per ripicca». E l’invettiva sdegnosa procede: «But none of you was keen enough» (v. 4, letteralmente «Nessuno di voi fu abbastanza scrupoloso») diviene «Figurarsi se tra di voi c’era qualcuno / con abbastanza cervello»; «fought» è «ho preso di petto» (v. 7) e «ho tenuto testa» (v. 10) ai «caporioni», ovvero i «leading citizens» che Porta aveva reso «leader». L’attacco di Jones il violinista, il famoso «suonatore Jones» di De André, presenta un’altra forte personalizzazione, laddove l’impersonale dell’originale («The earth keeps some vibration going / there in your heart») si umanizza in «Uno, nel cuore, sente sempre un battito che sale / dalla terra».

Sul versante lessicale, invece, la scelta è spesso quella di “italianizzare” ricercando immagini più vicine alla cultura italiana: la «canning factory» che diede tanto da pensare a Pivano è resa «scatolificio»; «a nickel’s worth of bacon» è reso con «cinque centesimi di pancetta»; «blasphemy» è «bestemmia» e «locked me up as insane» «mi hanno messo al manicomio»; il «grog-keeper» de Il reverendo Abner Peet diventa «proprietario della mescita» (datato, perciò adatto allo stile del bonario reverendo); il «jug» – bricco, caraffa – di Jack McGuire diventa un «bottiglione». Fino a tradurre The Town Marshal con L’ufficiale giudiziario invece di sceriffo, usato fino ad allora, o The Circuit Judge con Il giudice condotto invece che distrettuale per una maggiore aderenza al sistema giudiziario americano. In sostanza, insomma, Ballerini sembra entrare in maniera più diretta nella costruzione dei personaggi, adattando a ciascuno di loro una lingua – anche abbassandola rispetto all’originale – che li colorisce di una patina di realismo: è come se inventasse per loro una nuova vita linguistica. Ed è proprio per questo motivo che ho parlato in precedenza di paradosso: laddove la traduzione si fa più credibile è laddove a prima vista si avvicina ai personaggi facendoli parlare in italiano. Ma questa apparente aderenza è frutto di un calcolato distacco, perché solo osservandoli più da lontano se ne possono cogliere appieno le fisionomie reali e renderle adeguatamente; un’osservazione troppo vicina si focalizzerebbe invece solamente sui dettagli.

Per concludere, non va dimenticato che entrambi i libri ci traducono finalmente anche i due testi che, posti da Masters in appendice, non erano mai stati pubblicati (ma tradotti già da Pivano): La Spooniade e L’epilogo. A cento anni dalla prima edizione americana della Spoon River Anthology abbiamo quindi a disposizione due volumi completi, dotati di testo a fronte e bibliografia critica, oltre a note, presentazioni e introduzioni; senza dimenticare la preziosissima Genesi di Spoon River che apre il volume de il Saggiatore e traduce un intervento a firma dello stesso Masters, apparso su «The American Mercury» nel gennaio 1933, dove il poeta spiega l’origine della sua raccolta.

Forse non capiremo mai del tutto perché questa raccolta così scarna continui ad affascinare noi italiani, figli di una cultura tanto lontana da quella dell’autore; ma questi due volumi ci consentono di assaporarne meglio la vera essenza e scoprire come fece, quell’avvocato col sogno della poesia, a racchiudere il macrocosmo nel microcosmo inventato di due villaggi di provincia. Leggendo gli epitaffi scopriamo infatti infinite sfaccettature dell’essere umano, e quindi anche di un pezzo di noi: questa è la vera forza del libro, che rimarrà tale anche tra altri cento anni.

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