Note su Incontrotesto.
Durante il corso del progetto Incontrotesto ho preso molti appunti, più o meno svolazzanti e improvvisati, che anche al momento di scrivere si riveleranno poco chiari, male formulati o eccessivamente astratti; chiedo scusa. Vero è che la colpa è congenita, se già la prima tra tutte le note che ho appuntato riportava: per la letteratura, un progetto e un metodo?
Ho ritagliato, a proposito, alcuni frammenti dal progetto di Incontrotesto: Cercare di contribuire alla ridefinizione dello spazio universitario in un momento come questo ci sembra importante, creando momenti di approfondimento e riflessione paralleli a quelli esistenti… Infine il progetto nasce dalla necessità di interrogarsi sul senso della letteratura dei nostri giorni… Abbiamo maturato l’esigenza di superare con un’iniziativa concreta la dicotomia, talvolta rilevata nel corso degli anni, tra un approccio esclusivamente critico e uno filologico tout-court…Il nome del progetto, di per sé polisemico, vuole veicolare in primis l’idea che sia necessario ripartire dal testo, incontrarlo quasi fisicamente, in modo da recuperarne così i contenuti. In secondo luogo il nome ha in sé l’idea di ri-vedere i testi sotto una lente nuova, in controluce, per scorgere dettagli che altrimenti potrebbero essere trascurati.
Ho sempre trovato in queste frasi ottimi esempi di un ragionamento e di un ritorno a una questione di Metodo. Con questo termine intendo un lavoro di messa in comune continuo ed esplicito su temi stabiliti, sulla base di un approccio condiviso e di un progetto (parola che, oltre il suo utilizzo neutro da redazione editoriale, è scomparsa dal lessico italiano).
Non ho i mezzi né lo spazio per valutare globalmente la qualità della ricerca culturale italiana, ma non è la valutazione in sé a interessarmi: la mia impressione è che il campo letterario (e non solo) da tempo si sia sottratto alla ricerca/sfida della condivisione di un Progetto e di un Metodo, e da ciò dipende molto di quella sensazione di crisi che gli si attribuisce: la ricerca, il dibattito, la conservazione e la diffusione della cultura in Italia sono azioni extra-ordinarie e disomogenee, non hanno né direzione né organigrammi, e anche l’insegnamento universitario talvolta diviene un azione performativa più che formativa. Per me, in mancanza di una solida base programmatica condivisa, come in teoria per ogni discorso scientifico, non può esserci comunicazione né crescita, indipendentemente da quanto acuti siano i discorsi che vengono fatti al suo interno.
A questo proposito mi viene fatta spesso un’obiezione: se davvero ritengo che le discipline umanistiche debbano obbedire a un criterio rigido e addirittura “riduzionista”, come la progettualità scientifica, e se debbano “razionalizzarsi” per essere considerate degne di rispetto tra gli studi contemporanei. E nel rispondere vorrei abbozzare alcuni ordini di riflessioni.
Da tempo siamo tutti messi in guardia dalla dialettica dell’illuminismo, anche le scienze esatte, se già una lettura da profano dei teoremi di Godel contrasta l’illusione di una scienza totale; ma se il razionalismo ha i suoi lati oscuri, ciò non vuol dire che la razionalità sia da disprezzare; e in particolar modo, non una razionalità “scientifica”, ma la forma che la contiene: una razionalità discorsiva, che altro non è che la scelta di fondare ed esplicitare le basi di ogni discorso critico, creando un paradigma teorico per l’interpretazione o stabilendo un corpus di partenza come presupposto minimo su cui impostare le proprie ricerche.
Il dibattito sul poema cavalleresco alla luce della Poetica di Aristotele; il metodo di indagine speculativa della Scolastica, o anche il fiorire dei primi commenti/chiose sulla Divina Commedia possono essere esempi di confronto serrato sulla comprensione e l’interpretazione dei testi all’interno dello specifico letterario. Più recentemente, penso all’esperienza del dibattito interno alla critica marxista in Italia.
A tutti i momenti citati, è il caso di dirlo, non mi riferisco in quanto esempi di sanzione estetica o di un fare normativo, ma solo leggendoli alla luce della coerenza e del metodo che vi è applicato. Proprio perché non appoggio chi, in piena mass-produzione culturale ritiene, di salvare la critica ripristinando il suo operare meritocratico -sperando così di sfoltire un mercato sempre più tentacolare; credo invece che, nel campo della letteratura come della produzione critica ci sia bisogno di gestire la molteplicità non per merito, ma per metodo. Condividere oggetti, tematiche, ricerche, impostazioni.
Il senso degli studi letterari non deve essere la conseguenza di un riconoscimento esterno atemporale, ma, come ogni disciplina sociale, si fonda a partire dalla coerenza interna della propria organizzazione, in rapporto alle domande e alle premesse che ci si è dati. Da ciò dipende il confronto necessario che ogni disciplina ha con la società, a cui è obbligata a dare, nelle forme che le sono proprie, risposte. In questo sta il progresso di ogni disciplina.
Lo sfaldamento recente dell’attività critica non è allora una questione di scomparsa del suo valore normativo, ma corrisponde ad una reazione errata della critica stessa ai meccanismi dell’industria culturale che l’hanno marginalizzata.
Si intrecciano così due tendenze fondamentali: ritenendo la letteratura un valore a prescindere quando questo valore veniva messo in dubbio, si è scambiato il diritto al suo studio come diritto a qualsiasi studio e a qualsiasi discussione, dimenticando i doveri che ogni studioso di una disciplina contrae, come deontologia, nel suo agire; e ancora peggio, si è così accettata, alla stregua del marketing e del merchandising, la promessa neoliberista del consumo individuale: la produzione incontrollata di qualsiasi oggetto di critica culturale, appunto perché tale. Una corsa agli armamenti fatta di moltiplicazione di riviste, saggi, ricerche divergenti, pur di non vedersi costretti al tavolo delle trattative e al suo dialogo.
La premessa dell’aristocrazia intellettuale (“la letteratura è sempre un valore”) ha finito per diventare la bandiera del mercato editoriale (essa è sempre un profitto), e quando è diventata un profitto inferiore ad altri, è stata dismessa.
C’è sempre bisogno di pensiero complesso, c’è sempre bisogno di cultura critica. Vero, sono necessarie. Ma non a qualsiasi costo, e non qualsiasi critica. Non è il criterio economico a dover decidere, ma la critica stessa a dover porsi, continuamente, il senso del suo fare: e chiedersi risultati, e garantirsi degli strumenti intellettuali che diano risposte soddisfacenti, a sé e alla società; o abbandonarli. E questi strumenti per me passano per un concreto sforzo dialogico, per la messa in piedi di un dibattito sul metodo e per la scelta di un progetto: a partire dalla formazione di ampie reti di progetti, o di un corpus, o da un insieme di pratiche, in senso eminentemente operativo e non gerarchico. L’alternativa è continuare a parlarsi, certo con grande acume, addosso.
In tutto questo, i dibattiti sulla critica in rete sono il meglio e il peggio di quanto possa essere detto. Ma non credo sia il mezzo a stimolare l’inciviltà, come talvolta è stato detto; di certo agisce suo malgrado nel rendere più evidenti i segni della disabitudine al dialogo critico e serrato, costante e senza risparmio. Ma esso è anche la dimostrazione della volontà implicita e contraddittoria, che attraversa la miriade di blog-forum-siti italiani e non, di tornare a discutere. La domanda per la Critica odierna che voglia affrontare questa sfida diventa così duplice: che fare? E come?