Dal 10 marzo al 17 maggio 2015 il Museo del Quai Branly di Parigi ospita Anatomia dei capolavori nello spazio-atelier Martine Aublet, mostra-installazione che illustra – attraverso alcuni esempi direttamente dalle collezioni del museo – le recenti modalità di ricerca e analisi con strumentazioni digitali e tecniche non invasive di indagine dell’oggetto etnografico, a fini di restauro ed espositivi.
Se, infatti, la storia dell’impiego di metodologie non intrusive per lo studio di oggetti tridimensionali risale a più di un secolo fa – è del 1896 la prima radiografia d’una mummia egizia – e un passo avanti notevole era stato compiuto nel 1972 con il primo scanner a raggi-X, le tecnologie attuali permettono di entrare nell’oggetto, vederlo dall’interno, isolarne virtualmente le diverse componenti e in ultima analisi ricostruirne copie in 3D, tutto ciò rispettandone l’integrità.
Dopo una sintetica introduzione storico-disciplinare all’argomento, una prima vetrina ospita quindi una statua nkisi antropomorfa in legno della cultura songye (Congo), datata tra il Diciassettesimo e il Diciannovesimo secolo e – in rotazione sull’asse verticale all’interno d’una delle pareti di cristallo – la sua corrispondente immagine video in movimento, con di volta in volta evidenziate le diverse componenti interne, ottenuta a partire da microscannerizzazioni digitali a raggi-X. In tal modo si possono contemporaneamente apprezzare l’oggetto e la sua composizione, che rivela una struttura interna riproducente organi e processi necessari alla vita, e l’inserimento di oggetti metallici non solo in corrispondenza delle aperture (occhi, naso, bocca) e quindi visibili, ma anche all’interno del condotto digerente, aprendo così all’interrogativo delle ragioni di tale presenza a ostruire il potenziale fluire di materiali introdotti nella stessa statua.
Sorprendente, nella vetrina successiva, è l’esito del ricorso a tali tecniche per l’indagine e il restauro, nel 2012, di dodici maschere kanak (Nuova Caledonia) anche in questo caso risalenti al Diciannovesimo secolo, una delle quali esposta insieme a un video che racconta il processo d’analisi e le relative scoperte. Nel contesto di un’indagine finalizzata a individuare modalità attraverso le quali procedere a un restauro che restituisse integrità all’oggetto attraverso tecniche quanto più possibile fedeli a quelle di produzione originali dell’artefatto, la scannerizzazione a raggi-X ha mostrato che l’interno della parte superiore della maschera era in realtà costituita da una struttura di fibre intrecciate che riproduceva la medesima struttura delle abitazioni kanak, cui erano poi stati applicati capelli e piume. Di qui la stampa delle parti in legno in 3D, e il restauro con un lavoro microchirurgico di quelle specifiche piccole porzioni danneggiate o mancanti che un’analisi così dettagliata aveva evidenziato.
Le tecniche digitali attuali possono inoltre prevedere la collaborazione di diversi professionisti per il lavoro di ricerca sul medesimo oggetto – specie quando complesso nella sua composizione o nelle sue funzioni. Conservatori, restauratori, antropologi, radiologi, anatomopatologi possono per esempio apportare ciascuno il proprio contributo nell’analisi di mummie, corredi funerari e feretri pur senza dovervi agire con dissezioni che s’accompagnerebbero non solo al danneggiamento dell’oggetto in esame, ma anche al potenziale rischio di incorrere in eventuali violazioni di norme vigenti presso la comunità (o i discendenti di quella) d’origine dell’oggetto.
Il caso dell’indagine di un fardo peruviano di cultura chancay risalente al 1100-1450 illustra tale collaborazione: l’analisi virtuale ha infatti rivelato che si tratta della mummia e del corredo funerario di un bambino di genere imprecisabile dell’età di cinque-sei anni, desunta dallo sviluppo della dentatura e dello scheletro, le cui cause di morte non sono identificabili in assenza di lesioni traumatiche. Il corpo aveva subito la rimozione degli organi interni al fine della sua mummificazione ed era stato posto nel fardo a testa in giù in posizione fetale. L’analisi del cranio – caratterizzato da un’accentuata dolicocefalia – rivelò però che la stessa era stata indotta e, di fatto, fu necessaria una competenza diversa da quella dell’anatomopatologo per comprendere che tale deformazione era abitualmente in corso presso la comunità all’epoca. Parimenti la presenza di pannocchie di mais ai lati del corpo si spiega con la concezione di un aldilà che avrebbe richiesto all’individuo un viaggio nel quale poteva darsi il caso della necessità di alimentarsi. L’indagine dettagliata delle diverse componenti dell’insieme, così come delle parti anatomiche della mummia, ne ha quindi permesso la stampa in copie 3D, ora osservabili in vetrina senza che sia stato in alcun modo necessario toccare l’originale, che può continuare a dare rifugio per l’eternità al bambino così come la sua comunità aveva previsto.
L’esposizione passa in rassegna numerosi esempi del lavoro che viene fatto di volta in volta su oggetti magico-religiosi, copricapi, statue, specie quando la compresenza di più materiali nella produzione dell’oggetto o la sua riconosciuta complessità d’uso può far sospettare una pari complessità interna invisibile allo sguardo.
Attraverso il ricorso alla scannerizzazione virtuale diventa così visibile l’accumulazione che caratterizza le statuette hoyo (Angola) e quelle nkisi d’origine kongo (Congo): qui, infatti, all’esterno e all’interno di una statua antropomorfa in legno dotata di diversi vani il suo creatore inserisce elementi ad hoc per la persona per cui la realizza e per l’effetto che vuole ottenere – elementi così sovrapposti e intrecciati che sarebbe impossibile identificarli altrimenti se non dissezionando fisicamente l’oggetto e quindi facendogli perdere la sua unitarietà (e chissà: magari anche la sua efficacia magica…).
La scannerizzazione digitale tende pertanto a fornire informazioni relative per lo più alla creazione dell’oggetto, contribuendo così indirettamente, pur senza ovviamente esaurirla, alla comprensione delle sue funzioni – questione indagata da altre discipline. Eppure può accadere che, nel rivelare le modalità di produzione dell’oggetto, talvolta emergano misteri che rimangono insoluti.
La statua bizango di Port-au-prince (Haiti), opera dell’artista contemporaneo Lhérisson Dubreus, illustra tale caso. Depositata presso un tempio vudu prima di entrare nelle collezioni del Quai Branly, la statua è oggetto afferente al culto vudu bizango, del quale la letteratura antropologica sa molto poco poiché i suoi adepti mantengono da generazioni una certa invisibilità e un certo riserbo su cosmologia e pratiche che lo caratterizzano. Al suo ingresso nella collezione del museo nel 2009, la statua è stata quindi scannerizzata per comprenderne la composizione, nella speranza di ottenere indirettamente qualche informazione in più sul culto. L’indagine ha però rivelato un elemento inatteso: la presenza di un cranio umano di donna caraibica a livello della testa della statua, dove il resto del corpo è invece costituito di legno, metallo, tessuto e inserti di specchi in corrispondenza di bocca, orecchie, occhi.
Domande legittime – di chi era quel cranio?, come è morta la donna?, dov’è il resto del corpo?, come ne ha ottenuto il cranio l’artista?, perché l’ha inserito in una statua? – a questo punto diventano pressanti, sebbene rimangano insolute, dal momento che la loro indagine e potenziale spiegazione esula dagli obiettivi dell’esposizione – non a caso ospitata in uno spazio-atelier finalizzato a mettere in scena per brevi periodi installazioni che interrogano i rapporti tra antropologia e discipline scientifiche, così come tra arte e antropologia, così come ancora tra fotografia e documentazione post-coloniale, al fine di stimolare o ispirare riflessioni al di là dell’oggetto in sé e della sua contestualizzazione storico-etnografica.
La messa in scena di oggetti etnografici in qualsiasi contesto, infatti, non è mai neutra né oggettiva. Al contrario, essi sono sempre punto di intersezione di significazioni e istanze promosse da soggetti diversi. Nel periodo coloniale, per esempio, li si percepisce come segni tangibili della cultura in cui vengono prodotti della quale dimostrano – magari nella loro semplicità di forme, nell’artigianalità della loro realizzazione, forse anche in una certa qual rozzezza secondo il giudizio estetico occidentale – l’inferiorità intellettuale della popolazione di cui sono testimonianza, mentre successivamente il museo etnografico – in cui frequentemente tali artefatti trovano ospitalità istituzionale – diventando museo-laboratorio, ovvero luogo in cui la funzione di conservazione e documentazione viene accostata a quella di ricerca ed educazione, li va a utilizzare in direzione meramente didattica.
Di qui lo stesso oggetto muta e, nel tempo, viene a essere percepito in questi ultimi decenni come “mediatore” tra culture e sguardi diversi (quello del produttore dell’oggetto, quello del fruitore nel contesto culturale di questi, quello del collezionista, quello del curatore, quello dello spettatore eccetera). Di qui anche, a partire dagli anni Settanta, l’interrogativo in merito alle modalità di selezione e allestimento delle opere, dove queste utime si risolvono in direzioni sempre più critiche (delle relazioni interculturali nel passato e nel presente) e autoriflessive.
Il Musée du Quai Branly, in realtà, rispetto a tali sviluppi teorici e intenzionalità espositive mostra sin dalla sua stessa costituzione una certa ambiguità, per cui è stato ed è ancora oggi sottoposto a critiche di fuoco da parte degli antropologi culturali: l’allestimento permanente, infatti, tradisce ampiamente i presupposti che hanno motivato l’accorpamento di quelli che erano gli oggetti etnografici delle collezioni del Musée de l’Homme e del Musée des Arts d’Afrique et d’Océanie in un’unica istituzione, rendendo di fatto il nuovo museo un luogo quasi esclusivamente votato alla proposta dell’oggetto sempre vissuto come “artistico” e da godersi secondo una fruizione prioritariamente (se non esclusivamente) estetica. Scelta, questa, che cancella d’un colpo decenni di riflessioni sviluppate nell’ambito della museologia etnografica (per tacer di quanto neghi, di fatto, anche solo l’ipotesi di instaurare relazioni sempre più paritarie tra le culture umane restituendo un minimo di voce e potere decisionale ai gruppi culturali dai quali l’oggetto proviene).
Fanno eccezione a tal tendenza la sezione didattica e quella di ricerca, così come, spesso, le mostre temporanee, le quali – affrontando singole aree culturali o singole tematiche – seguono maggiormente lo sviluppo storico-antropologico dei fenomeni e le proposte più recenti della museologia etnografica, che tra l’altro annovera, come in questo caso, l’esplicitazione pubblica del lavoro dietro le quinte dei vari soggetti che manipolano l’oggetto, una volta che questo entra a far parte della collezione del Quai Branly.
Non è però fuori luogo far notare che il titolo invero parecchio “pop” e ammiccante Anatomia dei capolavori aprirà pure a un immaginario al contempo “esotico” e “artistico” e quindi potenzialmente accattivante per il pubblico, ma – ricorrendo al concetto di “capolavoro” (già oggetto di pagine e pagine di pluriennale critica culturale per l’etnocentrismo che reca in sé a partire dall’interrogativo di chi sia il soggetto che definisce tale un artefatto culturale e in base a quali criteri estetici spacciati per assoluti) – l’effetto che ottiene tra gli specialisti della disciplina è quello di innervosirne anche il più indulgente di loro con la chiara dimostrazione dell’abuso di parole e significati fuorvianti in nome del marketing. Pure quando il medesimo professionista potrebbe esprimere il proprio plauso per un’iniziativa tanto corretta scientificamente quando ben realizzata a livello divulgativo, e quindi potenzialmente istruttiva per il grande pubblico.
In conclusione, tecniche e tecnologie digitali di indagine sono preziose per ricavare dall’oggetto, e dell’oggetto, informazioni sul “come” sia stato fatto attraverso modalità non invasive e non distruttive che ne conservano l’integrità, dimostrando altresì una nuova cautela e attenzione nei confronti del contesto culturale di cui l’oggetto è parte. Ciononostante, l’ultimo caso citato dimostra come tali pratiche partecipino anch’esse d’una serie di questioni etiche irrisolte nelle quali ancora si dibatte la relazione tra le diverse culture umane: il rapporto visibile-invisibile nei vari contesti, la legittimità di svelare in nome della conoscenza quello che in alcuni di questi è intenzionalmente tenuto segreto, il che fare del sapere acquisito e, in ultima analisi, i limiti etici della ricerca.
Non cose da poco quando in gioco vi sono le vite di altri individui in altri contesti culturali che, come noi, abitano la contemporaneità, e sulle pratiche dei quali, in questa esposizione, possiamo riscontrare diverse strategie per rispondere e gestire i medesimi interrogativi: la vita, il suo mistero, e i suoi momenti critici quali la malattia e la morte.