Quaderni di fotografia e bugie

Il concetto che vorrei esprimere è molto semplice: la fotografia non può essere uno strumento al servizio del vero. Non può esserlo per sua natura, anche se i quasi due secoli che ci separano dalla sua nascita sono stati floridi di tentativi, volti ad assegnarle una posizione di primo piano nell’olimpo degli strumenti capaci restituire certezze.

Non mi riferisco ai generi fotografici che fanno della menzogna tecnica, compositiva e narrativa il cavallo di battaglia del proprio linguaggio, come la staged photography, il fotomontaggio o certa fotografia glamour; ma alla fotografia intesa come documento storico, antropologico e sociale, ovvero la forma che le ha conferito lo status di prova inoppugnabile.Vorrei riportare solo alcuni esempi, presi dalla storia vicina e lontana di questo medium, per riflettere su qualcosa che riesce ancora a stupire le persone, sebbene sia ormai un dato di fatto.

Roger Fenton,Valley of the Shadow of Death (1855)
Roger Fenton,Valley of the Shadow of Death (1855)

Prendiamo il 1855 in Crimea, dove debutta per la prima volta la fotografia di guerra, con l’inglese Roger Fenton: il lavoro, commissionato da un editore per ragioni di politica interna, riceve forti incoraggiamenti dal principe Alberto e dal segretario alla Guerra, ma il risultato è nettamente divergente dall’idea comune di conflitto armato, con i suoi orrori e le sue privazioni. Nel complesso Fenton produce circa trecento fotografie incentrate su ritratti di singoli o gruppi, serenamente composti e pacati, dove la ricerca estetica sembra prevalere su quella documentativa, perfettamente in linea con le direttive commerciali e politiche di chi aveva commissionato e dato il suo beneplacito per il reportage. L’immagine che meglio riassume questo approccio assolutamente pilotato nei confronti della documentazione di questo conflitto è quella dal titolo Valley of the Shadow of Death dove una strada deserta, con la sua curva che sparisce dietro all’orizzonte, fa rimbalzare l’occhio in un moto circolare infinito, attraverso una composizione estetica perfetta ed essenziale, dove l’unica allusione alla guerra sta nel gioco di parole del titolo e nelle palle di cannone seminate nella vallata come motivi decorativi geometrici. Di ben altro tenore è la fotografia di Timothy O’Sullivan del luglio 1863 (appena otto anni dopo), a Gettysburg in piena Guerra di Secessione: il titolo, anche questa volta particolarmente è evocativo, Harvest of Death, e lo scatto, pubblicato su Gardenr’s Photographic Sketch Book of the War, mostra esplicitamente i cadaveri di alcuni soldati sudisti senza intenti estetici; il commento all’immagine di Alexander Gardner, sostenitore dei nordisti, nel mettere in luce l’utilità morale di questo genere di fotografia che testimonia la terribile realtà della guerra, lascia trasparire anche un intento propagandistico e intimidatorio, sottolineando quale fosse il prezzo pagato per il tradimento da parte dei confederati, che chiama “ribelli”.

Due immagini distanti pochi anni, dove si raccontano eventi facilmente paragonabili per drammatica intensità, eppure due modi diversi, addirittura discordanti e marcatamente personali, di descrivere storicamente lo stesso genere di situazione, quello della guerra.

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Timothy H. O’Sullivan, Incidents of the War: A Harvest of Death, Gettysburg, July 1863

Prediamo un altro esempio.

Una delle fondamentali Verifiche (1969-1972) di Ugo Mulas, prodotte negli ultimi anni della sua vita, ha come titolo L’uso della fotografia e mostra due emulsioni di carattere istituzionale, raffiguranti Re Vittorio Emanuele II sulla stessa lastra, prodotte dai fratelli Alinari.
I due ritratti, apparentemente identici, presentano piccole differenze: la prima fotografia mostra il re più di profilo rispetto alla seconda (mediante un fotoritocco del tempo). Questo dettaglio è tutt’altro che insignificante e dona all’immagine la possibilità di due letture, come specifica Mulas, totalmente divergenti: «da un lato il re ha un aspetto fiero, un poco eroico, dall’altro, senza ritocco, il re è vecchio, ha grandi borse sotto gli occhi, è come mummificato dall’età. La compresenza, non tanto di due foto quanto di due realtà su una sola lastra, sorprende, anche per il personaggio ritratto, che è un re, l’immagine del potere. Sullo stesso portante corrono due immagini apparentemente simili, e in realtà opposte, come fossero il vero e la sua falsificazione, indici di un atteggiamento che è poi l’uso della fotografia: la storia vera, che resta negli archivi, e quella abbellita, accattivante, gradevole che viene diffusa».

Due fotografie dello stesso soggetto, immortalate nel medesimo istante e contesto, essenzialmente quindi lo stesso frammento di tempo, eppure due verità che percorrono strade opposte e l’una può essere utilizzata per confutare l’altra in un perfetto equilibrio di menzogna e utilitarismo.

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Ugo Mulas, L’uso della fotografia

Ancora una suggestione.

Prendiamo adesso Paul Strand, figlio prediletto dell’avanguardia americana dei primi anni del ‘900, lanciato da Alfred Stieglitz, con la sua fotografia spoglia e diretta, priva di retorica, come maggior esponente di quella che veniva chiamata straight photography, dedita sopra ogni cosa all’obiettività. Prendiamolo negli anni Cinquanta, durante il suo incontro con Cesare Zavattini, grande esponente del neorealismo (appunto). I due, animati da una comune passione etnografica, decidono di raccontare Un Paese (uscito nel 1955), per la precisione Luzzara, dando alla luce un volume permeato da un’affascinante commistione di neorealismo e fotografia americana degli anni Trenta. Si dice però che Strand non si sia fermato a una documentazione onesta e antropologica dei personaggi incontrati, ma che abbia mescolato un po’ le carte, a favore di principi meramente estetici, ri-contestualizzando personaggi del paese in ruoli che non erano i loro, solo perché maggiormente rispondenti all’idea di “italianità” che voleva raccontare. Ha importanza che questo aneddoto sia vero o meno? Il solo fatto che sorga un dubbio di questo tipo la dice lunga sulla “verità” dello strumento che stiamo analizzando. La cosa che conta è che il dubbio sia assolutamente plausibile e una possibile operazione di sostituzione di una persona reale con un’altra scelta appositamente fra quelle a disposizione, per interpretare in modo adeguato la figura ad esempio del macellaio, o del becchino o del derelitto, è qualcosa di diabolicamente e irrimediabilmente proprio del medium fotografico.

Da qui il pensiero vaga al miliziano di Capa, all’attimo decisivo di Cartier-Bresson e a tutti i dubbi più o meno leciti intorno alla pretesa di oggettività, di verità.

Paul Strand, Rlritratto della famiglia Lusetti
Paul Strand, Ritratto della famiglia Lusetti

Uno spunto ancora, forse l’ultimo per adesso.

Johnn Szarkowski, uno dei più illuminati direttori della sezione fotografica del MoMA e critico d’arte, a corredo del catalogo della mostra The Photographer’s Eye (1966) da lui curata, inserì, per ogni sezione del volume, un piccolo testo critico: l’insieme di questi pensieri intorno alla fotografia è diventato nel corso degli anni un vademecum fondamentale per chi abbia intenzione di approcciarsi al medium in senso moderno.
Una di queste sezioni aveva per titolo La cosa in sé e riportava di seguito un breve commento: «L’immagine fattuale delle sue immagini, per quanto convincente, era ben diversa dalla realtà vera e propria. Gran parte di essa rimaneva esclusa dal filtro costituito dalla piccola immagine statica in bianco e nero, e un’altra parte di realtà appariva con una chiarezza innaturale, con un’importanza esagerata». Rimarcando quindi il senso più profondo del fare fotografia, ovvero prendere dalla vita di tutti i giorni un oggetto, un frammento, un “momento” e porlo all’attenzione di tutti, dandogli un’importanza che nel flusso dei giorni e delle cose quotidiane non avrebbe mai avuto. Quindi una porzione di realtà strappata dal suo contesto, abbellita e vestita a festa.

Potrei continuare per ore, sfogliando mentalmente le pagine di storia della fotografia, per pescare altri esempi pregnanti di quanto poco ci sia di trasparente e oggettivo nelle documentazioni fotografiche.
Se prendiamo poi la produzione figurativa legata alle dittature del secolo passato, la questione si fa ancora più palese: fascismo, nazismo e comunismo hanno sempre raccontato la loro inoppugnabile verità fotografica, con una quantità di materiale talmente generosa da risultare in certi casi addirittura credibile.

La fotografia è nata per servire e riverire, questo è certo, ma non il vero. È nata per essere piegata al gusto e al volere di chiunque avesse da raccontare qualcosa, in buona o cattivissima fede, ma in modo assolutamente soggettivo.

Se siete interessati ad approfondire l’argomento una lettura imperdibile che consiglio è Un’autentica bugia: la fotografia, il vero, il falso (Contrasto, 2009) di Michele Smargiassi, guida attenta e intrigante all’analisi del concetto di veridicità in fotografia, in cui troverete anche alcune delle suggestioni che ho cercato di raccontare qui.

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Bibliografia

Michele Smargiassi, Un’autentica bugia: la fotografia, il vero, il falso, Roma, Contrasto 2009.

Jean Claude Lemagny, André Rouillé (a cura di), Storia della Fotografia, Firenze, Sansoni 1988, pp. 41-43.

John Szarkowski, The Photographer’s Eye, Modern Art 2007.

[Una prima versione di questo post è uscita su FotoForFake]

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