Una lettura dell’“Annuario Kaiak n. 6” a cura di Eleonora de Conciliis.
Cosa vuol dire per una rivista di filosofia occuparsi di droga? Questa è la domanda con cui si apre il volume “Psicotropie”, il sesto annuario della rivista Kaiak. In un’epoca di così detto rinascimento psichedelico, dove libri che trattano dell’argomento da una prospettiva antropologica, artistica, biografica, scientifica hanno scavato una nicchia sempre più profonda nel mercato editoriale, una prospettiva puramente filosofica ancora non era emersa. Come approcciarsi filosoficamente alle sostanze psicotrope?
Innanzitutto, c’è da dire che, nella storia della filosofia, i pensatori non sono stati del tutto immuni dal fascino delle droghe: uno su tutti, Walter Benjamin, di cui si parla ampiamente nel volume, per cui l’hashish ha giocato un ruolo sperimentale fondamentale nella sua produzione filosofica.
E dunque, dove iniziare? Una famosissima citazione di Feuerbach vuole che l’uomo sia ciò che mangia. A sua volta, il filosofo aveva mutuato questo pensiero dal medico e fisiologo olandese Jakob Moleschott, secondo cui senza fosforo non c’è pensiero. «Perché tu introduca qualcosa nella tua testa e nel tuo cuore» scriveva infatti quest’ultimo «è necessario che tu abbia messo qualcosa nello stomaco». Una chiara condanna verso quella riflessione filosofica che ha sempre messo le idee al principio di tutto, dimenticando che a produrle è il corpo – ed infatti sia Feuerbach che Moleschott con fermezza affermarono che è la materia a generare lo spirito e non il contrario. Lungi dal tessere l’elogio della gola, o un banale motto culinario, il senso di entrambe queste citazioni va ritrovato in una profonda disputa che fu prima politica e poi metafisica. Il discorso dei due filosofi, infatti, rimette in discussione il dualismo che divide l’uomo dall’altra parte di sé stesso: il corpo e la mente, l’anima e la carne. Un discorso che è stranamente contemporaneo e profondamente post-umano. In un senso molto materialista, dire che l’essere umano è ciò che mangia significa dire che non esiste una reale distinzione tra ciò che è umano e ciò che è vegetale – o animale –, tra ciò che è vivo e ciò che è morto, tra ciò che è nutrimento e ciò che è nutrito. Questo è il vero insegnamento di un certo materialismo: gli esseri sono composti tutti dalle stesse sostanze. Se tale affermazione ricorda una certa ontologia piatta di harmaniana memoria è perché ne è il naturale sviluppo. Predatore e preda, seguendo il Calasso del Cacciatore Celeste, non sono più due categorie ontologiche, al più sono ruoli contingenti, mutevoli, che l’antropologia può usare per interpretare alcuni rituali; alla base però non v’è nessuna divisione naturale del mondo. Così si passa da una considerazione sul cibo a una riflessione sulla natura delle cose. Inoltre, il cibo ha sempre avuto una connotazione metafisica speciale, perché si porta dietro un “peccato originale” dall’inizio dei tempi: per mangiare bisogna uccidere, ogni pasto è inizialmente un atto di violenza. Per questo intorno alla caccia si sono sviluppati profondi e complessi riti di espiazione della colpa, di sacrifici e di estasi.
L’introduzione di sostanze nel corpo – tramite l’alimentazione – poi, presenta un affascinante processo di hacking, di costruzione di nicchia: dal vino all’alcol, ma anche la carne – le proteine –, gli zuccheri e così via… queste sostanze modificano il corpo di chi le ingerisce in modi fenomenologicamente notevoli. All’interno di questo paradigma si colloca il volume “Psicotropie”, l’annuario numero 6 della rivista online di filosofia Kaiak. Già dal nome – letteralmente “nutrimenti dell’anima” – il libro si presenta come un’analisi filosofica delle sostanze psicotrope appunto. Come viene scritto nell’editoriale:
Esse hanno in effetti accompagnato e in parte addirittura reso possibili i sacrifici, le battaglie, i riti di passaggio, il lavoro sia manuale che intellettuale, nonché […] alcune pratiche artistiche. Anche se si guarda al Novecento, e si considera ad esempio che il caffè è a tutti gli effetti una droga (come tale indispensabile a molti di noi per poter lavorare), o che, riguardo alla guerra, quasi tutti i soldati americani in Vietnam hanno assunto anfetamine, è possibile far saltare molti (presunti) steccati e partizioni, e al tempo stesso allargare il concetto di esperienza o fenomeno psicotropo rituale oltre i recinti dell’antropologia o della sociologia delle religioni.
Eppure, come dicevamo all’inizio, non si può parlare di sostanze “psicotrope” come categoria ontologica. Non esiste cioè una ontologia della droga, in quanto ogni sostanza, quando ingerita, produce effetti psicologici alterando la chimica dei processi metabolici: una lezione che viene recuperata da Paul B. Preciado in Testo Tossico. Perché dunque si parla di droga – con tutto lo stigma che il termine si porta dietro – per la cocaina ma non per l’alcol o il caffè? Perché c’è una differenza tra le droghe cosiddette leggere e quelle pesanti, distinzione che non ha base scientifica? Ancora una volta, la risposta è da cercare nel sociale piuttosto che nel biochimico. E così nell’editoriale viene affermato che
ci è parso opportuno riflettere “filosoficamente” sul fatto che la nozione di psicotropia – alla lettera, come già ricordato, nutrimento dell’anima – appare legata in modo ambiguo e ambivalente a quella di dipendenza, e quest’ultima a quella di passività, la quale è, in fondo, la faccia oscura tanto dell’iper-attivismo capitalistico, soprattutto nella sua narcotica versione hi-tech, quanto del “metabolismo” vero e proprio.
A partire da questo punto, i saggi che compongono il volume si dipanano per esplorare la dimensione sociale ed insieme metafisica della dipendenza.
Il primo articolo vero e proprio dell’antologia è però lasciato a Jean Baudrillard, con un lucido testo del 1987 in cui si riflette sulla politicizzazione della dipendenza. Scrive il filosofo:
Bisogna tenere conto di questa logica “perversa” e distinguere un uso delle droghe legato ad un insufficiente sviluppo sociale ed economico (come spesso è ancora nei paesi in via di sviluppo o, per l’alcool, nelle classi svantaggiate) da un uso legato, al contrario, alla saturazione dell’universo del consumo, come ha iniziato ad apparire negli anni ’60 nei paesi industrializzati, ad un tempo come apogeo e come parodia di questo stesso consumo, come anomalia contestataria di un mondo da cui bisognava fuggire perché era troppo pieno e non perché gli sarebbe mancato qualcosa.
Tuttavia, come suggerisce Enrico Schirò nella sua postfazione al testo di Baudrillard, si apre anche un’altra interpretazione molto più inquietante: che le droghe non siano semplicemente sostanze fisiche vissute come oggetti di consumo, ma che in un certo senso, anche alcune pratiche sociali possano agire sul sistema nervoso allo stesso modo di un agente psicotropo. Se un videogame – quando usato in maniera malsana – funziona come un pharmakon (nel senso di veleno) perché riprogramma i circuiti di dopamina nel cervello e dunque funziona come una fuoriuscita, una fuga dal mondo, allora che dire di tutte quelle tecnologie che volens nolens stanno ristrutturando il tessuto sociale a scapito del nostro benessere psicologico? Il filosofo Gerald Moore, nel testo tradotto da Marco Pavanini e inserito nel volume, offre una lucidissima analisi di questi processi utilizzando la categoria di dopamining.
Chiamiamo questa tendenza dell’economia contemporanea “estrazione di dopamina” (dopaminage), o “dopamining” in inglese, al fine di descrivere il tentativo sistematico di stimolare questo neurotrasmettitore, […] per programmare il consumo compulsivo […]. Senza la dopamina, non apprenderemmo mai dall’esperienza e non avremmo alcun senso affettivo dell’avvenire. Ma essa è altresì responsabile degli eccessi nell’apprendimento esperienziale della dipendenza, che entra in gioco quando siamo costretti dai nostri ambienti artificiali, senza essere in grado di esercitare un’influenza reciproca sulla loro costruzione. Si dirà, dunque, che la dopamina è legata a ciò che è in noi, al contempo, più elevato e più regressivo.
Approcciarsi filosoficamente alla droga – anche a quella tecnologica – significa allora, e soprattutto analizzare i meccanismi cerebrali e sociali che sottendono al godimento, alla dipendenza, al piacere; a quei loop tecnologici di cui siamo schiavi – byte e hype in primis – e su cui perdiamo agency sempre di più.
Si può ritenere che il costante flusso di immagini, di suoni, di testi a cui siamo esposti inconsapevolmente e continuamente sia simile a un’esperienza psichedelica collettiva che ci è sfuggita di mano, su cui non abbiamo alcun tipo di controllo. Questa prospettiva viene ad esempio analizzata nell’articolo di Daniele Dottorini sul cinema come allucinazione. Se il cinema crea uno stato di coscienza particolare, simile ad una allucinazione, come viene argomentato magistralmente, allora c’è un discorso più ampio da fare anche sul content. Il continuo flusso di informazioni a cui siamo sottoposti nel mondo digitale – scrolling infinito, suoni distorti e perturbanti, filtri che rendono i colori innaturalmente accesi – hanno su di noi letteralmente l’effetto di un’esperienza psichedelica; un’esperienza però che a differenza di quelle indotte con sostanze lisergiche non ha fine, da cui non ci si può tirar fuori. I circuiti di rilascio e assorbimento di dopamina (ciò che ci fa provare piacere) vengono costantemente riattivati e assuefatti dall’immensità di stimoli digitali – il design del refresh delle app è molto simile al meccanismo base delle slot machine; lo scrolling infinito fornisce contenuti sempre nuovi impossibili da trovare nel “vecchio” mondo analogico – al punto da riprogrammare le strutture cerebrali e costringerci a rimanere su quei contenuti. Non c’è più possibilità di trovare piacere fuori dall’app, fuori dal content.
Dunque, tra approcci psicoanalitici all’estatico, e analisi metafisiche della dipendenza, “Psicotropie” si configura come un volume a tutto tondo e ricco di interessanti spunti sulle psicomachie della società contemporanea.
[Fotogrammi tratti da Enter the Void (2019) di Gaspar Noé]