Psicoanalisi di Parigi (Seconda Parte)

Il presente ferito, rimosso, rinnegato di Parigi. 

Qui la prima parte.

1. Morfogenesi e anatomia del presente

Torniamo ora a Freud. Sebbene l’equazione freudiana tra stratificazione/sedimentazione della città e della coscienza sia destinata al fallimento, poiché se nulla viene cancellato come suggerisce Jean-Bertrant Pontalis, «è proprio una Roma surrealista alla Max Ernst che questo paragone lascia intravedere»; ciò non toglie che, oggigiorno, la topologia stessa della città porti le tracce di questi strati molteplici, le colline ne sono un esempio. Esse sorgono spesso sui resti di vecchi edifici o si formano attraverso la sovrapposizione di macerie, come ad esempio la collina del Testaccio nata dall’impilaggio di cocci d’anfore.

Ed è proprio questa situazione attuale della città che ci proponiamo di analizzare sul piano genealogico, topografico e geologico compiendo uno sforzo di anamnesi, che consiste nel seguire le linee di filiazione della città attuale. Questo è possibile a condizione di “rimitologizzare” l’urbano, di rievocare le leggende, di puntare su una stratificazione verticale piuttosto che su un urbanismo estensivo quindi orizzontale, contrariamente alle città “generiche” che sarebbero, secondo Rem Koolhaas, senza spessore: «La Città Generica […] non ha strati» (Rem Koolhaas, La Ville générique, p. 75). L’architetto Henri Gaudin, scandagliando le antiche vestigia nell’attuale disposizione urbana o ciò che ne determina l’insediamento, ribadisce: «Il teatro di Pompeo traspare sotto la casa popolare, l’Impero pagano sotto la cristianità, il circo di Domiziano sotto le esedre barocche» (Henri Gaudin, La cabane et le labyrinthe (1984), Paris, Mardaga, 2000, p. 76).

Ed è una Parigi surreale, degna di un quadro di Max Ernst, che noi vorremmo approcciare. Se il presente è eluso in favore di un passato mitico e pittoresco o di un futuro asettico, non ci resta altro da fare che continuare ciò che Maxime du Camp aveva intrapreso, ovvero l’analisi anatomica, la dissezione del presente, del grande corpo di Parigi nella sua cronaca in dieci volumi intitolata Paris, ses organes, ses fonctions et sa vie (1875), il cui intento era di spiegarne il funzionamento, gli ingranaggi (le fogne, la mendicità, la posta, i trovatelli, i telegrafi, i mercati coperti): «Parigi m’apparve d’un tratto come un corpo immenso, ogni funzione era realizzata da organi speciali, sorvegliati e di rara precisione […] Ero deciso a studiarne uno ad uno tutti gli ingranaggi che danno il moto all’esistenza di Parigi».

Il presente di Parigi va affrontato in spaccato – Julien Gracq parlava già di “autopsia” (Julien Gracq, Autour des sept collines, Paris, Stock, 1988, p. 90.). È necessario puntare sulla morfogenesi (o teoria della forma urbana) piuttosto che sull’archeologia. La morfogenesi di Parigi di Guillaume Desmarais evita lo scoglio dell’archeologia poiché non mette a nudo, ma fa risorgere il vecchio nel nuovo, dandoci accesso ai valori profondi della nostra memoria collettiva che ha attraversato i secoli, quello che Isabel Marcos, nella scia di Jean Petitot e della teoria delle catastrofi di René Thom, chiama il livello delle forme fisico-simboliche (per esempio dei mostri marini che cristallizzano delle paure legate al mare come luogo abissale) secondo un processo dinamico che si suddivide in tre livelli:

Queste falde semantiche ci permettono di distinguere tre strati: uno strato socioculturale intermedio tra lo strato fisico-simbolico e un terzo strato concreto, quello della materializzazione effettiva di pregnanze latenti (monumenti, quartieri, piazze, etc.) trasformatesi quindi in salienze (Isabel Marcos & Clément Morier, «La théorie sémiophysique de René Thom permet-elle de comprendre autrement le concept de frontière?», Working Paper 8, MIS, 2016, p.5.

Saint-Denis: La pianura del Lendit

Nei suoi lavori sulla genesi della città di Parigi, Anne Lombard-Jourdan ha ampiamente studiato la pianura del Lendit. In epoca celtica, a una decina di chilometri a nord dell’île de la Cité, fu eretto un santuario sacro dove un’assemblea di druidi si riuniva ogni anno, attorno a un monticello chiamato “Montjoie”. Questo tumulo rappresentava la tomba di un antenato divinizzato che ricopriva il ruolo di intermediario privilegiato tra il mondo dei vivi e quello dei morti, e quello di garante dei rapporti di parentela e della legittimità del potere politico. La pianura del Lendit fu quindi considerata l’ombelico della Gallia, il suo centro sacro. In quale misura la nascita di un fulcro sacro permette di comprendere meglio la posizione nello spazio occupata dalla città? Per rispondere a questa domanda, Gaétan Desmarais ricorre al concetto teorico di “vacuum”, elaborato in geografia umana strutturale.

Il vacuum è un luogo attrattivo poiché investito di “pregnanza soggettiva”, il che spiega il raduno di soggetti nella loro vicinanza, e al contempo repellente poiché era proibito stabilirvisi, il che spiega la dispersione dei soggetti nell’ecumene circostante. Nel suo studio della morfogenesi di Parigi, Desmarais ha dimostrato che la pianura del Lendit funse da “vacuum sacro”, sede di Emittente trascendente che ordinava il raduno periodico dei soggetti e la loro dispersione nell’ecumene circostante. L’occupante del tumulo del Montjoie ricopriva codesto ruolo attanziale. Egli deteneva le funzioni mitologiche di “soveranità”, “forza” e “fecondità” che caratterizzavano l’ideologia tripartita dei popoli indoeuropei (Dumézil) ed era associato al “sole crescente”, che per i Celti compiva due percorsi antitetici: una corsa “diurna” da est a ovest passando per il sud e che delimitava la metà “chiara” del mondo, quella dei vivi e degli dei luminosi; una corsa “notturna” da ovest a est transitando dal nord e che corrispondeva alla metà oscura del mondo, quella dei morti e degli dei misteriosi.

Introducendo il concetto morfodinamico del vacuum laddove solitamente si parla esclusivamente di “centro sacro” o di omphalos, diventa possibile risolvere il problema del situs originario di Lutezia nell’île de la Cité. In tale ottica, il percorso mitico-rituale permette di vedere il fenomeno del vacuum come la prima emergenza della discontinuità nella continuità dell’ecumene. Il polo urbano di Parigi si trova nella metà “chiara” del mondo, in un luogo localizzato a sud del vacuum “sacro” dove si propagano le pregnanze euforiche dell’eroe mitico. Tale è la situazione effettiva dell’île de la Cité. Il sito insulare scelto per accogliere lo stabilimento “profano” è sì dettato dalle virtù naturali del luogo (protezione, accesso fluviale, eccetera), ma soprattutto dalla distanza che lo separa dal vacuum “sacro”, che non deve essere né troppo vicino, né troppo lontano. È quindi in riferimento al centro vuoto della Gallia che ci è possibile comprendere la posizione periferica di Lutezia.

Il vacuum permette inoltre a Desmarais di invalidare le teorie che fanno risalire la genesi di una città al mero stadio della sua realizzazione concreta:

Per quanto concerne Parigi, un tale ragionamento induce a sostenere che la prima urbanizzazione attestata si sia svolta integralmente sotto il regno di Philippe Auguste, costruttore della città sulla riva destra e dell’università sulla riva sinistra. Poiché il regno di questo monarca ha segnato l’ascesa della nazione, Parigi sarebbe una città esclusivamente francese (Gaétan Desmarais, La morphogenèse de Paris. Des origines à la Révolution, Paris, L’Harmattan, 1995, p.14).

Indagando sulle “zone vergini”(Philippe Vasset, Un livre blanc, Paris Fayard, 2007, p. 10) tralasciate dalla cartografia, «luoghi teoricamente vuoti» (ibidem), Philippe Vasset arriva nella piana di Lendit e si chiede che cosa abiti codesto vuoto, questo spazio “qualunque” (Deleuze) più che un “non-luogo” (Augé). Egli si mette quindi a immaginare delle finzioni al fine di dare vita a questo spazio:

Mi sono regolarmente sorpreso a elaborare finzioni per animare i luoghi che esploravo (rifacendomi all’autrice di romanzi gialli Germaine Beaumont, penso che il ruolo essenziale dello scrittore sia quello di “dotare di ospiti le case abbandonate”). Un luogo in particolare ha stimolato la mia immaginazione: passeggiando nella piana di Saint-Denis, un vasto rettangolo che sulla carta appare vergine […], sono capitato nel bel mezzo di un accatastamento di macchine, ce n’erano di tutte le marche e nazionalità e dei meccanici in tuta da lavoro blu vi si affaccendavano intorno. I veicoli erano tutti parcheggiati sullo stesso lato della strada, lungo un muro dietro al quale s’innalzava del fumo. Quando ho dato una sbirciatina attraverso una delle numerose brecce della recinzione […] – non è stato facile dal momento che degli individui vi erano addossati contro – ho visto delle carcasse di macchine, montagne di pneumatici, capanne in compensato e baracche di cantiere trasformate in alloggi di fortuna. Per cercare di spiegare questa bizzarra scena, ho immaginato in seguito che si trattasse di: 1) un’officina meccanica clandestina […]; 2) un raduno di appassionati di autovetture […]; 3) una carovana itinerante immobilizzata da avarie multiple […]. Non ho mai cercato di scoprire quello che in realtà si tramava dietro quel muro per non sciupare il mistero (ibidem).

Da nuovo “contadino di Parigi” (rifacendoci ad Aragon), egli dichiara forfait con un rispetto sacro. Nell’opera di Lorànt Deutsch (Lorànt Deutsch en collaboration avec Emmanuel Haymann, Métronome : l’histoire de France au rythme du métro parisien, Paris, Lafon, 2009, p. 53). scopriamo che la fiera di Lendit era una delle più importanti di Francia e che attirava migliaia di mercanti da tutta Europa e da Bisanzio, vi si vendeva tra l’altro la pergamena utilizzata dall’università di Parigi. L’ermeneutica che proponiamo dovrebbe dunque attraversare tutte queste realtà e leggerle in modo sincretico.

Ne La Clôture, Jean Rolin  compie una parte della pratica morfogenetica, poiché descrive la vita sul Boulevard Ney e dintorni all’inizio degli anni 2000 attraverso la biografia del Maresciallo napolenico Michel Ney, principe della Moscova, dotando la toponimia di una densità al contempo storica e pratica: il cavalcavia, i disoccupati, le prostitute assassinate, l’automobilista arrestato dalla polizia per aver ucciso degli storni che avevano insudiciato la sua macchina «sommersa dagli escrementi» (Jean Rolin, La clôture, Paris, POL, 2002, p. 37).

L’attualità ci impone di menzionare l’accampamento dei migranti con le loro tende di fortuna situato a due passi dalle terrazze dove la domenica mattina si prendre il brunch con vista sulla metro aerea. L’accampamento oggetto di un’operazione di pulizia il 31 ottobre 2016 al fine di effettuare une selezione e pre-valutazione per separare i richiedenti di asilo dai clandestini, viene definitivamente smantellato l’8 novembre. Il campo umanitario per rifugiati, 70 bd Ney, sempre rimandato, gestito da Emmaüs Solidarité e dall’Ofii (Office français d’immigration et d’intégration), con gli auspici della sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, viene finalmente costruito ma rimane tributario di un discorso dilatorio che rinvia in un futuro incerto i destini delle persone che vi transiteranno. L’architettura del luogo, un’immensa bolla gonfiabile di mille metri quadrati, incarna nuovamente le “capsule spaziali” di Sloterdijk. «L’alloggio avrà luogo in una struttura suddivisa in otto complessi, con camere per quattro persone in legno prefabbricato». Per questo progetto, concepito molto rapidamente, l’architetto del centro, Julien Beller, precisa che non è stato possibile posare dei blocchi di cemento poiché le costruzioni «dovranno essere spostate entro due anni». L’accettazione vi sarà incondizionata: ogni individuo beneficerà di una valutazione sociale, prima di essere smistato verso un luogo di accoglienza. Verranno forniti pasti, kit igienici e indumenti. La retorica del discorso corrobora l’elusione del presente poiché tutto rimane incoativo, tutto viene rimandato a un futuro incerto e a una sistemazione ignota. Il collettivo La Chapelle Debout! è più scettico. Uno dei membri, Houssam dice di essere contrario: «Questo campo rappresenta il massimo del provvisorio. L’alloggio sarà temporaneo, allo stesso modo del posto scelto». Il volontario teme soprattutto che questo progetto legittimi futuri smantellamenti di campi, “retate”, nome che dà alle evacuazioni. Allo stesso tempo, i piccoli commercianti della zona temono che il progetto di costruzione del Campus Condorcet presso la porta de la Chapelle, che avrebbe dato loro una speranza economica, venga rimandato per via del campo umanitario. Ricordiamo che la porte de la Chapelle è una delle diciassette porte forate nella cinta muraria di Thiers risalente a metà dell’Ottocento allo scopo di proteggere Parigi. In questi archivi morfogenetici memoriali, è necessario includere il brano di Fleurs de ruines di Modiano che, indagando sul suicidio di una giovane coppia rue des Fossés Saint-Jacques nel 1933, si ritrova dinanzi a una delle “porte” di Parigi e visitando un piccolo canile sente che un terrier lo prega di essere liberato, cosa che decide di fare:

Mi sono seduto con lui alla terrazza di un bar. Eravamo in giugno. La trincea della circonvallazione che dà una sensazione di accerchiamento non era ancora stata scavata. Le porte, a quell’epoca, erano tutte dei punti di fuga, la città gradualmente allentava la sua morsa per andare a perdersi nei campi abbandonati. Ed era ancora possibile credere che l’avventura ci aspettasse dietro l’angolo (Patrick Modiano, Fleurs de ruine, Paris, Seuil «Points», 1991, p. 142).

Questa mappatura “psicogeografica” – in riferimento à Michel Collot (Michel Collot, Pour une géographie littéraire, Paris, Corti, 2014), che prende in prestito il termine ai Situazionisti – o “cognitiva” – stando alla terminologia della comitiva Stalker – copre anche le zone più decentralizzate e mira anche a preservare dal ripiego identitario e nazionalista centripeto. Al fine di ottenere un vero e proprio Atlas Mnemosyne, essa dovrebbe essere correlata da indagini in etnosemiotica o da una ricerca di “paesaggi linguistici” in quartieri etnicamente ibridi, culturalmente eterogenei, dove codici, sistemi di valori e stili di vita entrano spesso in conflitto: «stratificazione di “mondi” che scivolano l’uno accanto all’altro, spesso ignorandosi» (Ilaria Tani, “Formazione e trasformazioni di spazi linguistici e sociali: riflessioni sull’Esquilino”, in Pezzini, ed., Roma, luoghi di consumo, consumo dei luoghi, Roma, Nuova Cultura. 2009, 221-242, p. 237). La creolizzazione culturale è suscettibile di dar luogo a prodotti culturali, a un’occupazione discorsiva dello spazio con nuovi idioletti che danno il cambio al parlare popolare della “zona” parigina che conosciamo grazie a famosi film quali Hôtel du Nord di Marcel Carné (1938), ambientato lungo il canale Saint-Martin difronte alla passerella della Grange-aux-Belles, o Casque d’or di Jacques Becker (1952), che prende spunto dal quartiere di Belleville.

La letteratura “di-sincretizza” quello che l’architettura e il tempo hanno “sincretizzato”. La città va vista come un crogiuolo d’immagini che lo scrittore o l’artista spiegano, i soli in grado di ripensare l’urbano nella sua stratificazione monumentale, fattuale e discorsiva, di incidere sul palinsesto della città, di leggere l’allusione nell’alluvione urbana «A Roma tutto è alluvione e tutto vi è allusione. Le sedimentazioni materiali dei secoli susseguenti non solo si sovrappongono ma si amalgamano, si penetrano vicendevolmente, si ristrutturano e si contaminano reciprocamente» (Julien Gracq, Autour des sept collines, op.cit, p. 8).

Georges Didi-Huberman ci ricorda che:

Gli Assiri abbinavano alla costruzione di ogni palazzo una storia – chiamata “cronaca di costruzione” – che in realtà era scritta per creare il ricordo della rovina, giudicata fatale, dell’edificio stesso” (Georges Didi-Huberman, La Demeure, la souche, L’Apparentement de l’artiste, Paris, Minuit, 1999, p. 27-28). in modo da prendere atto della scomparsa stabilendo uno stato dei luoghi genealogico, topografico e geologico. Ed è proprio lo stato dei luoghi genealogico di Parigi che ci proponiamo di stabilire effettuando uno sforzo d’anamnesi che consiste nel risalire la filiazione della città attuale, nell’evocare pratiche e leggende e nel puntare su una stratificazione verticale piuttosto che su un urbanismo estensivo quindi orizzontale: “Delle culture fioriscono, tramontano, rivivono, spariscono, sono saccheggiate, invase, umiliate, violate, trionfano, cadono improvvisamente nel silenzio – tutto ciò nel medesimo luogo. Ed è per questo motivo che l’archeologia è un mestiere che scava: essa riporta alla luce la civilizzazione (ovvero la città) strato dopo strato. La città generica […] non ha strati (Rem Koolhaas, « La ville générique », art.cit., p.75).

2. Conclusioni

Se una psicoanalisi di Parigi è auspicabile, dovrebbe portarci a quello che Catherine Malabou chiama “cinéplastique de l’être”: una “potenza distruttrice” (Catherine Malabou, Ontologie de l’accident, la plasticité destructrice, Paris, Léo Scheer, 2009, p.39) e, al tempo stesso, “plasticità creatrice”. Il passato non va né idealizzato, poiché diventerebbe pittoresco, né patrimonializzato, poiché si trasformerebbe in cliché. In compenso, l’attualità e gli artisti testimoniano del patrimonio intangibile di una città, insinuandosi nelle pratiche, occupando fisicamente e simbolicamente i luoghi.

Le “immagini” andrebbero raccolte in un Atlas Mnemosyne, come quello intrapreso da Aby Warburg, critico e storico dell’arte dall’identità ibrida che amava definirsi “Amburghese di cuore, ebreo di sangue, d’anima Fiorentino (Gertrud Bing, «Rivistia storica italiana», 71, 1960. S. 113.), un atlante illustrato come solo modo di dar adito alla città comprensiva e alle sue parti composite, e al contempo un “museo immaginario” che raccoglie “immagini del pensiero” (Benjamin), le cui giustapposizioni, anacronismi, vicinanze, ravvicinamenti singolari, liberano un pensiero nuovo. In passato alcuni artisti plastici, tra i quali Meryon con Parigi e Ernst con le città in generale, sono riusciti a confezionare allegorie sintetiche della città, simili a quelle dell’Atlas warburghiano. La semiologia urbana trarrebbe profitto a fare sue le visioni degli artisti.

[Christabel Marrama e Nathalie Roelens fanno parte del Multilingualism and Intercultural Studies (MIS) dell’Università di Lussemburgo].

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