Psicoanalisi di Parigi (Prima Parte)

In seguito agli attentati del 7 gennaio e del 13 novembre 2015, il presente di Parigi è un presente ferito, esso viene rimosso, rinnegato favorendo così sia la regressione verso un passato tanto glorioso e mitizzato quanto nostalgico (il “vieux Parigi” conviviale fino alle “Nuits debout”), sia il tropismo prospettivo di notevoli progetti futuri, brillanti e fluidi: la Tour Triangle, le Grand Parigi, la pedonalizzazione degli argini della Senna. In entrambi i casi, si osserva un’elusione del presente. Il nostro obiettivo sarà proprio l’analisi di questa fuga dal presente che nell’ambito dello studio psicoanalitico del comportamento, consiste nell’evitare il confronto con l’oggetto o la situazione fobogena (avoidance behavior in inglese). 

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Abstract 

After the attacks of January, the 7th and November, the 13th, 2015, we notice, in images or discourses about Paris, what psychoanalysis calls an avoidance behavior. The gazes turn away from current matters and address either the past or the future. On the one hand, nationalistic emblems emerge as a symptom of “the covering of the ipse with the idem” (Ricoeur) and nostalgic practices draw back to a mythical and picturesque past. On the other hand, ambitious architectural or infrastructural projects envisage a fluid and utopian future. Even some works of arts have only a cosmetic function of hiding the wounds inflicted on the city. A remedy to the problematic narcissism (Blanchot) of this humiliated city would be to study the morphogenesis of the meaning (Desmarais) of the respective districts and to compose for each of them a Bilderatslas Mnemosyne (Warburg) which confronts the denied present with the pregnancies of the past located in the same place, allowing a hermeneutics of the present through its multi-layered and multifaceted symbolic, artistic and historical density.


1. Parigi “oltraggiata”

La celebre frase pronunciata dal generale de Gaulle in occasione del suo discorso del 25 agosto 1944 al municipio di Parigi, “Parigi oltraggiata! Parigi spezzata! Parigi martirizzata! ma Parigi liberata!”, è stata riesumata varie volte in seguito agli attentati del 13 novembre, come a voler esorcizzare l’angoscia del presente, sempre nell’ottica di una nevrosi fobica. L’articolo di Philippe David apparso su «Le Figaro», intitolato Paris outragé, Paris brisé, Paris martyrisé… esorta a rompere con la filosofia del politicamente corretto al fine di resistere alla barbarie jihadista, e riprende le parole di de Gaulle, custode di un passato invincibile, per riformularle a suo piacimento:

Parigi oltraggiata, Parigi spezzata, Parigi martirizzata, ma purtroppo Parigi non ancora liberata… non ancora liberata dal terrorismo che ha colpito la nostra capitale per la seconda volta in dieci mesi. Non ancora liberata dalla filosofia del politicamente corretto […]. Non ancora liberata dall’accecamento autoinflitto dei nostri dirigenti […]. Allora alle armi concittadini!

Philippe David incita alla guerra in risposta a una realtà che «scoppia in faccia agli ingenui di ogni specie».

Su «Libération», nome azzeccato per l’occorrenza, la tribuna del 22 novembre 2015 intitolata “Parigi oltraggiata: una città di fronte ai rischi del mondo” di Jacques Lévy e Michel Lussault, rinvia a un passato più remoto, cioè al motto della corporazione galla dei ”nauti” di Lutezia che in seguito è diventato il blasone di Parigi: «La popolazione di Parigi, oggi come l’11 gennaio, ha fatto sapere che è ferita ma viva più che mai: fluctuat nec mergitur». L’articolo, in sintonia con l’orientamento del giornale, privilegia l’analisi dell’evento e delle responsabilità, quali le segregazioni urbane o ancora l’invasione dell’Irak da George W. Bush. L’articolo scavalca quindi il presente, volgendosi verso il futuro, verso le risorse della metropoli per «inventare una modernità nuova», una «società parigina creativa, mista e aperta, portatrice di avvenire» e di «un modello di vita insieme», cercando così di far fronte alla stigmatizzazione di Parigi che Daesh definisce la «capitale dell’abominio e della perversione». L’autore dichiara quanto «L’Europa, dovrebbe essere anche luogo di un grande cantiere, con un obiettivo semplice: riconciliare l’Europa con il suo futuro».

In entrambi gli articoli, la Parigi oltraggiata, ferita e umiliata è irriconoscibile. Intaccata nel suo narcisismo, la città si rifugia in un passato più rassicurante o in un avvenire migliore. In entrambi i casi, il presente viene eluso, evitato. Come già analizzato,[1] l’iconografia della crisi partecipa a un’”economia dell’attenzione” (Yves Citton), la quale si può far risalire alla propaganda devota degli Andachtsbilder – figurazioni devozionali del medioevo, immagini anch’esse impregnate di una retorica fatta di “passione”, di un’iconografia sanguinaria e lacrimosa.[2] Il proselitismo religioso, economico e ideologico, ricorre in effetti agli stessi meccanismi per suscitare l’empatia. Nel nostro caso, le lacrime sono abbinate a degli emblemi nazionalisti e strumentalizzate a scopi federativi ed esaltanti: Marianne in lacrime, le bandiere antropomorfe a mezz’asta, i cittadini afflitti.

L’identità di Parigi va quindi studiata alla luce della distinzione operata da Paul Ricœur in Soi-même comme un autre tra l’identità-idem – immutabilità del carattere: «mêmeté, medesimezza, permanenza nel tempo–, e l’identità-ipse – l’ipseità, il variabile» – che dovrebbe poter «affrancarsi della medesimezza» se non ci fosse il rischio che «l’idem ricopra l’ipse».[3] Questo fenomeno potrebbe essere applicato all’identità di una città poiché tutto trae origine dall’ipse, «l’identificarsi a delle figure eroiche» o «l’identificarsi a dei valori dove accade che si ponga una “causa” al di sopra della propria vita» sedimenta diventando contrazione di un’abitudine o disposizioni valutative che mutano poi in Super-io interiorizzato. «I galli, nostri antenati», segmento di una frase pronunciata da Nicolas Sarkozy durante un meeting a Franconville (Val d’Oise) nel settembre del 2016, attesta questo sussistere dell’idem malgrado i tentativi di affrancamento dell’ipse. Il ritorno prepotente di una Francia mitica nasce da un narcisismo incoraggiato dalle immagini di una Parigi-miraggio, fatta di apparenza e retorica. Maurice Blanchot ebbe il merito di riesumare una versione più antica del mito di Narciso al quale Ovidio non fa riferimento nelle sue Metamorfosi:

Ovidio finisce per tralasciare il tratto del mito in cui Narciso, chinato sulla fonte, non si riconosce nell’immagine fluida che l’acqua gli restituisce. Non è dunque se stesso, il suo “io”, forse inesistente, che egli ama o desidera, sia pure nel suo disconoscimento e, se non si riconosce è perché vede un’immagine, perché la similitudine di un’immagine non rinvia a nessuno, avendo come caratteristica di non assomigliare a nulla, ma se ne ‘innamora’, perché l’immagine – ogni immagine – è attraente, attrazione del vuoto stesso della morte nella sua lusinga. […] Dobbiamo piuttosto pensare che Narciso, vedendo l’immagine che non riconosce, scorge in essa la parte divina, la parte non viva dell’eternità (poiché l’immagine è incorruttibile) che a sua insaputa è proprio la sua, e che egli non ha il diritto di contemplare poiché vana. In questo modo possiamo affermare che Narciso è morto (sempre che muoia) d’immortalità, un’immortalità d’apparenza che la metamorfosi in un fiore, fiore funebre o fiore di retorica avvalora.[4]

La città ha bisogno di riconoscersi in riferimenti fissi. Secondo Patrizia Laudati, semiologa di spazi urbani, gli elementi permanenti della dinamica urbana «funzionano come dei regolatori d’equilibrio e di continuità tra passato e avvenire, tra storia urbana e trasformazioni spaziali, tra tutto ciò che è già memoria e quello che partecipa al processo »[5], che richiama in qualche modo la «presunzione d’isotopia» (François Rastier), sfruttata nell’ambito del marketing.

Questi emblemi, essendo stati sconfitti, schiacciati, sventrati dal terrorismo, che si accontenta di usare strategie intimidatorie (quello che Jacques Derrida definisce «la minaccia del peggio a venire»)[6], verranno ancor più esibiti, evidenziati, mobilizzati dall’iconografia della crisi. Questa fierezza nazionale ha tuttavia un effetto perverso.

Il semiologo e archeologo Manar Hammad ha reperito un circolo vizioso nella distruzione del tempio di Bel a Palmira attuata da Daesh nel 2015, che un’analisi attanziale permette di spiegare: i terroristi in qualità di «soggetto distruttore» colpirebbero gli emblemi storici spettacolari riportati alla luce ed esposti dagli archeologi ovvero «l’anti-soggetto curatore» che, restaurando le antiche rovine, ne fanno un bersaglio perfetto per i vandali in cerca di clamore: «è proprio il lavoro degli archeologi che ha reso il monumento visibile ed esposto alla vendetta dello Stato islamico».[7]

Il turismo del dopo 13 novembre rientra anch’esso in questa logica infernale poiché gli emblemi di Parigi godono di una visibilità accentuata, generata dallo stato di emergenza che innesca un impressionante dispositivo securitario al fine di proteggerli con conseguente schieramento di sentinelle e vigipirates. In piena crisi d’identità, Parigi si aggrappa ai punti di riferimento fissi, emblemi mitici, costitutivi al contempo della sua «identità » (ciò che distingue Parigi da un’altra città) che della sua «identità simbolica»[8] (i suoi vessilli culturali), città idealizzata, come le Città ideali del Rinascimento, che non avevano nessuna vocazione abitativa.

Insomma, la città oltraggiata aspira a una Parigi più parigina della Parigi della realtà. Nel Le mal de Paris, Régine Robin dedica un capitolo alla “Parigi-cartolina” denunciandovi la deriva e «l’ideologia passatistica, populista, reazionaria«, «profumosa di terra natale” di una Parigi “bomboniera”», «medio sciovinista» proposta da Jean-Pierre Jeunet in Amélie Poulain (2001) o ancora i «chromos parigini» e la «città-museo»[9] che Woody Allen propone nel suo film Midnight in Paris (2011). Benché criticabile, l’idealizzazione è un elemento chiave dell’industria turistica, al punto che alcune città, tra le quali Vienna, hanno optato per i cosiddetti clusters museali – ovvero il raggruppamento in un perimetro ristretto di musei e di tutte le amenità di un luogo al fine di facilitare la visita turistica. Secondo l’architetto e urbanista Rem Koolhaas «C’è sempre un quartiere chiamato “messinscena”, dove vi si preserva un minimo di passato: in genere è attraversato da un vecchio treno, tram, o autobus a due piani […] Messinscena – altresì chiamata Rimorso».[10]

2. Il malessere di Parigi

La vecchia Parigi è scomparsa (ahimè, più veloce
d’un cuore cambia l’aspetto d’una città)
[…] Parigi cambia! Ma niente nella mia melanconia
s’è mosso! Blocchi, impalcature, nuovi palazzi,
vecchi sobborghi, tutto per me diventa allegoria,
e i miei cari ricordi son più grevi dei macigni.
(Charles Baudelaire, “Il cigno”, Quadri parigini, 1861)

Il “malessere” di Parigi non è una novità del nostro secolo, poiché ancor prima degli attentati, le trasformazioni urbanistiche dell’Ottocento avevano già recato oltraggio alla città. Ne “Il cigno” del 1861, Baudelaire descrive una creatura che «coi  piedi palmati sfregava il selciato secco» e che volgeva il suo sguardo al di là dei grandi lavori attuati dal Barone Haussmann, al di là dello sgombero della piazza del Carrousel, verso la “vecchia Parigi”, quella dei mercanti di cianfrusaglie e dei cigni nelle gabbie in piazza.[11] Per Franz Hessel Parigi è «metropoli e paesino perduto, giardino e tugurio»,[12] antitesi protratta da Walter Benjamin poiché i passages – passaggi, pur essendo l’ultimo rifugio per eccellenza del sogno e biotopo dei surrealisti che li dotano di un immaginario erotico e clandestino, non contribuiscono a destare il soggetto dal sonno capitalista. I passaggi, che traboccano di mercanzie feticce, favoriscono l’esperienza del flaneur che si «abbandona alle fantasmagorie del mercato» e alla moda «instancabile fornitrice d’illusione», inaugurando così «l’inferno del progresso e della modernità».[13] Il malessere di Parigi induce a voltare le spalle al presente, diversamente dall’Angelus Novus di Paul Klee, riletto da Benjamin, che condannato a contemplare le rovine del passato, volta le spalle all’avvenire.

Il disamore nei confronti di Parigi si traduce in effetti in una compulsione archeologica. Ne Disagio della civiltà (1929), Sigmund Freud prende l’esempio del sotterramento della Città Eterna come metafora archeologica per sostenere la sua tesi della permanenza quasi inalterabile del passato nell’inconscio tramite la conservazione delle impressioni sedimentate – «le rovine dell’antica Roma appaiono inghiottite dal caos di una città che non ha smesso di crescere»[14] – con la differenza che rovine e demolizione rappresentano la regola nel caso di una città, l’eccezione nel caso della vita psichica.

La città di Roma con la sua sovrapposizione di imperi – pagano, cristiano, turistico – si presta perfettamente a tale allegoria poiché, come diceva Montaigne, «non ci si può camminare senza mettere il piede sulla ».[15] Ogni città ha origine in un cantiere, come sostiene Jean-Luc Nancy, il quale rileva il fatale intreccio tra l’urbano e il perpetuo sfondamento del suolo: «Ma la città si trova anche arata, riesumata, messa fuori di sé – questa città alla quale si finì per attribuire una “natura”, come si crede di poterlo fare col suolo in genere, con la terra, pure col sangue, la linfa e le radici.»[16]

In Notre-Dame de Paris (1831), Victor Hugo non fa altro che disseppellire la Parigi gotica imprigionata sotto gli strati del vandalismo architettonico e urbanistico e sotto la «marea crescente del suolo di Parigi» che divora uno a uno gli undici scalini della cattedrale «che aumentavano la maestosità dell’alto edificio».

Tuttavia, l’archeologia praticata sulla psiche parigina riesuma solo miti, immagini non solo ispirate da un nazionalismo esibizionista ma attinenti anche alla nostalgia di un passato popolare, conviviale, storico nel senso del paradigma indiziario di Carlo Ginzburg: «Ritrovare una torre dimenticata, un pezzo nascosto di una muraglia o questa prima cattedrale parigina nascosta sotto un parcheggio».[17]
Un compito contraddittorio incombe sugli artisti: svelare e cancellare, cancellare svelando, come nella scena della distruzione degli antichi affreschi scoperti durante gli scavi della metropolitana in Roma (1972) di Federico Fellini, di cui si poté scorgere un effimero bagliore prima della loro scomparsa.

I film e gli scritti “infraordinari”, ad esempio, venerano il quartiere come perno del vivere-insieme, luogo avviluppato da un’aura “antropologica” (vs non-luogo), un cronotopo potenzialmente festivo, quello che Jean-Christophe Bailly qualifica di barriol – parola composta che agglutina la parola barrio (quartiere in spagnolo) a bariolé (colorato, variegato); il malessere di Parigi origina una quotidianità insolita, che redime la coscienza compromessa con l’imperativo economico e l’urbanismo pianificatore. Tramite la mobilizzazione del quartiere, i luoghi vengono reincantati, ripoetizzati, resi più “abitabili”[18] nell’accezione di Michel de Certeau, cioè abitati da miti e leggende. Insomma, il quartiere permette di riappropriarsi dello spazio, di reinvestirlo semanticamente e di decifrarlo (Françoise Choay). Allo stesso tempo, l’infatuazione per il pittoresco, versione a sua volta secolarizzata del pellegrinaggio verso i luoghi di culto, altrimenti detto il pittoresco, spogliato dalle sue ambizioni pittoriche, si cristallizza, si coagula, si fossilizza in cliché.

Tutto è occasione di riconciliazione mitica con l’origine, persino l’esondazione della Senna nel 1955 che, stando a Roland Barthes, non solo ha «spaesato diversi oggetti» e «dato una rinfrescata alla percezione del mondo» – «le autovetture ridotte al loro tetto, riverberi mutilati, con il capo galleggiante come una ninfea, le case tagliate come cubi giocattolo per bambini, un gatto da giorni bloccato sopra un albero» – , «sconvolto le ordinarie linee del catasto», ma soprattutto ridestato «il grande sogno mitico del camminatore sull’acqua» – si va in barca a remi dal droghiere, il parroco entra in chiesa in barca, una famiglia fa le provviste in canoa – , ma anche il mito dell’Arca di Noè.[19]

Il bar, in qualità di enclave sconnessa dalla città, è un luogo ancor più propizio agli incontri poiché si rivela «magnetico», come lo dimostra Patrick Modiano ne Le café de la jeunesse perdue, un bar che ha fantasticato un bar, il Condé, e verso il quale i destini erranti convergono, in qualità di asilo per la «gioventù boema» e artistica, la “gioventù perduta”, senza regole né preoccupazioni dell’indomani. Il personaggio di Louki che Roland ha incontrato in una «zona neutra» e che «camminava contro corrente» sembra generato da tale luogo. Louki era entrata nel Condé attraverso “la porta dell’ombra” perché aveva «rotto con tutta una parte della sua vita». [20] Tuttavia, quando Roland rivisita il posto riadibito a pelletteria Au Prince de Condé, non c’è più alcuna traccia dell’antico bar.
Per riprendere la nostra psicoanalisi di Parigi, ci sembra che l’agrimensore infraordinario soffra d’ipermnesia come Funes el memorioso di Borges che si ricordava solo i particolari, il cane delle ore 3:14, ma incapace di una visione d’insieme. I lavori di esaurimento di un luogo effettuati da Georges Perec costituiscono una modalità di quest’eccesso e inadeguatezza costitutiva.

Questo desiderio di esaurimento incide anche sulle escursioni pedestri in ambiente periurbano, menzionate nell’opera dell’urbanista Paul-Hervé Lavessière, La Révolution de Paris, sentier métropolitain.[21] In sei giorni di marcia, in compagnia di colleghi, tra cui lo scrittore Jean Rolin, Lavessière effettua un grande percorso di 120 km collegando Saint-Denis, Créteil e Versailles, senza trascurare nessuna fermata di metropolitana o RER. Scopre paesaggi inediti (città giardino e padiglioni in pietra arenaria, mercati e svincoli autostradali, complessi residenziali e scuole repubblicane, terreni incolti e linee ad alta tensione, chiese e zone industriali, fortezze e moschee, cave di gesso e stazioni di smistamento, passerelle, canali, fiumi e ruscelli…) e sacche di poesia. Ed è così che a Montreuil si ferma davanti a un “muro da pesche”, muri un tempo fabbricati in pietra calcarea che conservavano il calore per stimolare la crescita delle pesche (in seguito servite alla tavola dello Tzar di Russia!).

3. Parigi al futuro

I progetti attuali di prospezione urbana esacerbano le anticipazioni nello spirito dell’Illuminismo di Louis-Sébastien Mercier, L’an 2440, rêves s’il en fût jamais (1770), dell’utopia futurista di Tony Moilin, Paris en l’an 2000 (1869) o dei «grandi assi meravigliosamente accessibili all’aria, alla luce e all’infanteria» del Barone Haussmann. Nel romanzo di Emile Zola Al paradiso delle signore del 1883, spicca già il progresso dei grandi magazzini dal fascino sfavillante che incarnano l’opulenza con il loro ammasso di mercanzie, il loro ruscellamento di pizzi e le loro macchine altisonanti e fiammanti, in contrasto con il «buco glaciale del vecchio commercio». Ma «non è oro tutto ciò che luccica» tuona il vecchio Baudu dal suo piccolo negozio fatiscente il Vieil Elbeuf, minacciato dalla «cattedrale del commercio moderno»[22] che per molti come lui rappresenta un mostro disumanizzante e vorace.

Il Grand Paris, ambizioso progetto urbanistico, geografico e sociologico nato nell’era Sarkozy che ambisce alla riqualificazione urbana e periferica della metropoli parigina e che conta tra i suoi traguardi anche il collegamento degli aeroporti Roissy e Orly, riposa su due pilastri: de-saturare la piccola capitale e fare uscire dall’isolamento la sua affastellata periferia. Il traguardo? Ripensare, ridisegnare e riorganizzare la città e la sua sconfinata regione per ottenere una “Grande Parigi” metropoli europea e mondiale.

La Tour Triangle è un imponente progetto di piramide-grattacielo che sorgerà nel cuore del Parco delle Esposizioni Porte de Versailles, che con i suoi 180 metri di altezza ambisce a diventare il terzo edificio più alto dopo la Tour Eiffel (324 metri) e la Tour Montparnasse (209 metri). Dopo sette anni di battaglie politiche l’inizio dei lavori è previsto nel 2017. 92 500 metri quadri di uffici, hotel, asili nido, zone di esposizione, ristoranti e giardini pubblici suddivisi in ben 42 piani, un megapalazzo trasparente che è possibile ricongiungere a quello che Peter Sloterdijk qualifica «spazio interno capitalista globale», ovvero la «capsula spaziale»[23] concepita sul modello della serra, al palazzo di cristallo disegnato dal giardiniere-paesaggista Joseph Paxton per l’Esposizione Universale di Londra nel 1851, o alle “Unités d’habitation” di Le Corbusier, delle vere e proprie machines célibataires, “macchine abitabili”, “intelligenti” e radiose solo di nome.

Nel fumetto d’anticipazione nostalgica di Benoît Peeters e François Schuiten, Revoir Paris (2014), l’elusione del presente spazia tra l’Ottocento, con le sue realizzazioni tecnologiche volte anch’esse al futuro, moderne e quindi transitorie per dirla con parole di Baudelaire, e una visione futurista apocalittica di una città-museo “incapsulata” (per parafrasare Sloterdijk), sotto una campana di vetro. Nel 2155, Kârihn, una giovane donna, viene selezionata sull’Arca, una sorta di «pseudo Paradiso» (p. 3), per una missione sulla Terra, e come Rastignac, si propone di rilevare la sfida: «A noi due Parigi» (p. 4). Approfitta del viaggio a bordo della sua astronave, il “Tubo”, per tuffarsi nelle sue ricerche su Parigi e le sue metamorfosi. Per lei questa è anche l’occasione per sognare una discesa in «immersione» (p. 18) dopo la lettura di Benjamin. Sbarca nell’Ottocento davanti ai passanti esterrefatti e strappa a uno di loro l’opera di Grandville intitolata Un autre monde: transformations, visions, incarnations, ascensions, locomotions, explorations, pérégrinations, excursions, stations… et autres choses (Paris, 1844) che però scompare al suo risveglio. La ragazza “utopiomane” (p. 37) si rituffa nell’universo di Albert Robida, celebre caricaturista autore della trilogia Le Vingtième Siècle (1883-1890), e dei suoi ordigni volanti. L’astronave finisce per atterrare e Kârihn scopre una Parigi sotto campana (annunciata da schermi sferici).

Per alleviare la propria coscienza, per ribaltare il «ricoprimento dell’ipse dall’idem» in «ricoprimento dell’idem dall’ipse», i luoghi emblematici accettano sensori di attenzione artistica che si iscrivono anch’essi in una logica di rivitalizzazione dell’industria turistica. L’artista americano Paul McCarthy fu colpito da uno sconosciuto in piazza Vendôme mentre gonfiava il suo albero di Natale intitolato Tree, scultura effimera presentata nell’ambito della programmazione “fuori le mura” della FIAC, che gli aveva dato carta bianca. Stando all’autore, la scultura evoca le forme di Brancusi, mentre stando ai passanti quelle di un sex-toy (plug anale). Appena esposto, il totem ha cominciato a spopolare sui social e a infiammare i dibattiti, soprattutto al seguito di un tweet postato da Le Printemps Français, movimento che riunisce militanti identitari e cattolici tradizionalisti: «Un plug anale gigantesco, alto 24 metri è stato appena istallato in piazza Vendôme! Piazza #Vendôme sfigurata! Parigi umiliata!» Alcuni giorni dopo, l’opera venne vandalizzata e sgonfiata. Si dimentica che la colonna Vendôme è essa stessa un sex toy napoleonico, [24] eminentemente fallico, ispirato alla Colonna Traiana, colata col bronzo di 1 200 cannoni sequestrati alle armate russe e austriache.

Takashi Murakami, che nel 2010 esponeva al castello di Versailles, desiderava rispondere al mondo sofisticato e irreale del castello di Luigi XIV con un’opera anch’essa sofisticata quanto irreale.

Nel quartiere un tempo agricolo di “La Chapelle” (Paris 18), è stata recentemente intrapresa una grossa operazione di ottimizzazione e riabilitazione fondiaria. Dopo aver demolito diversi padiglioni e palazzi, l’impresa Paris Habitat, con il benestare del sindaco, ha costruito dei nuovi alloggi sociali concependo uno spazio pubblico verde che fungerà da giardino condiviso, non senza imbattersi in qualche difficoltà. La commissione del vieux Paris ha infatti preteso che venissero conservati un fienile risalente al 16° secolo, una cantina e un padiglione del 18° secolo. Il costruttore vanta i propri alloggi sociali qualificandoli esemplari dal punto di vista energetico e dell’accesso ai disabili. Ciliegina sulla torta, spiega che le strisce oblique sui muri esterni eseguite dal collettivo di street-art “Graphic Surgery” al quale ha fatto ricorso per dare un tocco artistico alla struttura, sono la risposta plastica all’opera architettonica. A noi appare come un disperato tentativo di rispondere all’inerzia architettonica cercando di infondere dinamismo e vita a un quartiere esangue. Questi progetti architettonici, che sembrano sfidare l’epoca industriale responsabile della trasfigurazione del quartiere, appaiono come mere operazioni cosmetiche, risanamenti pseudopatrimoniali atti a camuffare nuovamente i veri problemi.

Ici-Même“, collettivo artistico parigino, ha intrapreso un fare cronaca dello sviluppo urbano della capitale francese, concependo delle performances virtuali che hanno come scopo il delineare nuove interazioni tra l’utente e il suo ambiente. Attraverso contraffazioni sofisticate della semantica urbana, le creazioni artistiche di “Ici-Même” si insinuano nella quotidianità della città moderna per analizzarne le problematiche. Gli artisti si concentrano sulle tattiche del marketing urbano con i suoi eufemismi, doppi sensi, coercizioni e assottigliamento delle libertà pubbliche.

Se fino a ora ci siamo concentrati su una psicoanalisi “verticale” di Parigi, Ici-Même, con il suo spettacolo di nuova generazione intitolato First Life, mette in atto una psicoanalisi “orizzontale”- variabile. In altre parole, equipaggiati di casco e smartphone, possiamo fare l’esperienza di realtà urbane alternative nei panni di un altro individuo. Questo concetto di “realtà aumentata” si avvicina molto alla sceneggiatura di James Cameron per il film Strange Days del 1995, che ha come protagonista Lenny Nero, un ex-poliziotto di Los Angeles che vive spacciando clips molto particolari. Attraverso un dispositivo futurista chiamato SQUID è possibile visionare questi clips facendo la stessa esperienza sensoriale di colui che ha filmato/o è stato filmato. Nella realtà virtuale parallela tutto diventa possibile, i sogni, anche quelli più sfrenati si realizzano e la sete di trasgressione e violenza è appagata.   

Il dispositivo itinerante di Ici-Même permette di prendere in prestito la vita di un altro, portarne le scarpe senza preoccuparsi della misura, forse per fuggire da una realtà scomoda, quella degli attentati terroristici e del “peggio a venire”. In questo caso, l’arte invece di sconvolgere e denunciare, appare come uno strumento consolatorio nelle mani di un’economia opportunista che trae profitto dalle frustrazioni altrui.       

       

[Christabel Marrama e Nathalie Roelens fanno parte del Multilingualism and Intercultural Studies (MIS) dell’Università di Lussemburgo]

 

Note

[1] Nathalie Roelens, “La svolta virale della filosofia contemporanea”, in Lexia, 24 “Semiotica e viralità” (in corso di stampa).

[2] Georges Didi-Huberman ha di recente dimostrato che il pathos funge da amplificatore emozionale ed ha collegato l’importanza della figura lacrimosa ai Pathosformeln (“formule di pathos”) che Aby Warburg aveva raccolto scandagliando i secoli in vista del suo Bilderatlas Mnemosyne. Cf. Peuples en larmes, peuples en armes, Paris, Minuit, 2016.

[3] Paul Ricœur, Soi-même comme un autre, Paris, Seuil 1990, pp. 12-13, p. 143 e 147.

[4] Maurice Blanchot, L’Ecriture du désastre, Paris, Gallimard 1980, pp. 192- 196 (traduzione delle autrici).

[5] Patrizia Laudati, “Représentations spatiales et identité urbaine”, in Alex Demeulenaere, Folke Gernert, Nathalie Roelens (a cura di), Chorographies (in corso di stampa).

[6] Derrida parla dell’incompiutezza costitutiva di ogni “effrazione di tipo nuovo”: «Si dà trauma senza elaborazione del lutto quando il male viene dalla possibilità che il peggio debba ancora venire, che cioè si ripeta, ma in peggio. Il trauma è prodotto dall’avvenire, dalla minaccia del peggio a venire piuttosto che da un’aggressione “passata e finita”», Jacques Derrida, Le «concept» du 11 septembre, Paris, Galilée, 2003, p. 145.

[7] Manar Hammad, “Sémiotique de la destruction à Tadmor-Palmyre”, in Chorographies (in corso di stampa).

[8] Cf. Patrizia Laudati, cit.

[9] Régine Robin, Le mal de Paris, Paris, Stock, 2014, pp. 189-190, p. 196 e pp. 193-195.

[10] Rem Koolhaas, “La Ville Générique” (1995), in Junkspace, Paris, Payot et Rivage 2011, p. 63.

[11] Cf. Karlheinz Stierle, Paris, Capitale des signes. Paris et son discours (trad.dal tedesco di Marianne Rocher-Jacquin), Paris, Éditions de la Maison des Sciences de l’homme 2001, p. 518.

[12] Franz Hessel, Flâneries parisiennes, Paris, Payot-Rivages, 2013, p. 26.

[13] Walter Benjamin, “Exposé, 1939”, in Paris, Capitale du 19ième siècle (éd. Rolf Thielemans), Paris, Cerf 2009, p. 47 e p. 16.

[14] Sigmund Freud, Malaise dans la civilisation (1929), Paris, Seuil «Point/Essais» 2010, p. 16.

[15] Michel de Montaigne, “De la Vanité”, Les Essais, Livre III, 9, (1595) [1588], (éd. P. Villey et Saulnier), p. 440.

[16] Jean-Luc Nancy, La ville au loin, Paris, La Phocide 2011, p. 87.

[17] Lorant Deutsch, Métronome illustré, quarta di copertina, Parigi, Lafon, 2010.

[18] Michel de Certeau, L’invention du quotidien, Paris Gallimard 1980, p. 160.

[19] Roland Barthes, “Paris n’a pas été pas inondé”, in Mythologies, Paris Seuil 1957 p. 65.

[20] Patrick Modiano, Dans le café de la jeunesse perdue, Paris, Gallimard  2007, p. 18, 35, 105 e 24.

[21] Paul-Hervé Lavessière, La Révolution de Paris, sentier métropolitain, Paris, Wildproject 2014.

[22] Émile Zola, Au Bonheur des Dames, Paris, Gallimard, p. 45.

[23] Peter Sloterdijk, Le Palais de cristal : à l’intérieur du capitalisme planétaire, Paris, Pluriel 2014, p. 279.

[24] Colonna sulla quale anche Victor Hugo aveva ironizzato parlando di «Seul es resté debout; — ruine triomphale/ De l’édifice du géant !/ Débris du Grand Empire et de la Grande Armée,/ Colonne, d’où si haut parle la renommée !» ( Victor Hugo, “A la colonne de la place Vendôme”).

 

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