Un processo per stupro

Pubblichiamo Processo per stupro: un documentario a cura di Loredana Rotondo, realizzato da Rony Daopulo, Paola De Martiis, Annabella Miscuglio, Anna Carini, con la regia di Loredana Dordi, andato in onda sulla RAI nel 1979. Pubblichiamo inoltre un estratto dalla prefazione, a firma di Franca Ongaro Basaglia, del testo Un processo per stupro, nato in seguito al documentario e pubblicato da Einaudi nel 1980.

Tra le righe che introducono il documentario che segue, la parole di Franca Ongaro Basaglia, pur articolandosi in un testo fortemente radicato nell’epoca in cui è stato redatto, riportano alla luce alcune delle radici storiche e culturali che ci consentono di leggere in modo più approfondito e meno superficiale le modalità con cui è emersa e si sta sviluppando la vicenda Weinstein.  È dunque più facile comprendere il perché di molte delle posizioni che hanno trovato il proprio spazio in questo teatro contemporaneo, a partire da quelle più contraddittorie: le donne che giudicano la debolezza delle donne, le donne che aggrediscono l’impossibilità di altre donne di denunciare, le donne che giudicano l’incapacità delle violate di denunciare tempestivamente la violenza subita e, a seguire, tra le altre posizioni, anche quelle degli uomini che minimizzano o che attribuiscono alla donna la responsabilità connaturata che essa porta con sé.

Nell’aprile 1979 Fiorella, una ragazza di 18 anni, denunciò per violenza carnale di gruppo, 4 uomini di circa quarant’anni. Il documento e il documentario che seguono ne raccontano, in modo disarmante e dettagliato, gli sviluppi.

L’omertà maschile è sempre riuscita a riportare la donna al suo posto: una mezza persona non può accampare diritti. Si sa, l’uomo è fragile, la carne è debole – però la donna viveva in una cultura (ben lungi dall’essere morta) in cui la sua esistenza era confermata dal suo esistere agli occhi dell’uomo; e finché questa cultura la educava a vivere in funzione di lui, era l’uomo che la voleva (e la vorrebbe tutt’ora) così; lei non poteva che adeguarsi a ciò che le veniva richiesto perché non aveva altre possibilità di sopravvivenza. Il margine di libertà di cui si appropriava, poteva talvolta portarla ad arrivare fino al fondo di questa immagine di sé che le veniva imposta, sì da presentarla sfacciatamente come fosse una sfida: una scelta, non una condanna. Ma l’uomo non tollera questo margine di libertà di cui lei può appropriarsi, e condanna ciò che lui stesso ha voluto. Come pretendere che una donna non sia seduttiva – ed in questo sta essenzialmente la sua funzione enfatizzata ed esaltata per secoli – per poi condannarla quando seduce? San Bernardino affiora ad ogni processo: se lei stesse a casa, velata, rinchiusa, non si esporrebbe a tutti quei rischi e non indurrebbe l’uomo in tentazione. Ma se vuole essere libera, se vuole camminare per strada, andare al lavoro, passeggiare da sola; se vuole vivere insomma, è questo lo scotto che deve pagare: sarà violentata perché l’uomo, se ne ha l’occasione, la stupra e non c’è niente da dire.

Al fondo di questo discorso c’è una premessa che lo sostiene e lo avalla: la violenza, cioè la possibilità di determinare l’altro e di assoggettarlo con la forza (che può essere di natura diversa, fisica, psicologica, economica) è riconosciuta nella nostra cultura come un valore; così come la debolezza, cioè la mancanza di questo potere (fisico, psicologico, economico) come una menomazione, un handicap, un’inferiorità. Nel rapporto fra l’uomo e la donna, la donna è debole e inferiore perché è stato culturalmente riconosciuto un valore alla violenza sessuale nei suoi confronti: alla sua possibilità di penetrarla è stato dato un significato di appropriazione, segno di virilità e di aggressività maschile. Mentre è stata culturalmente riconosciuta come una menomazione la condizione di cui – per natura fatto per essere penetrato – viene da questo atto espropriato e domiato: da cui il mito della dolcezza e della passività femminile. Questa logica assurda minaccia la donna da quando è bambina. Da quando è bambina può capitarle qualche cosa. Se succede si dirà che è già maliziosa, che per natura seduce, richiamando i precedenti di quelle Lolite innocenti che provocano l’uomo maturo. Ma per evitare che queste bambine violentate o molestate debbano sostenere tante domande, i genitori che sanno non fanno denunce, così viene accettata e taciuta una violenza ancora più grave, perché la giustizia ha bisogno di prove che può dare solo la bambina sconvolta da un’esperienza di cui è meglio non parli in tribunale. Sono i silenzi che hanno permesso il perpetuarsi di questa pratica tanto da farla apparire naturale, come tutto ciò che riguarda la donna che, nei casi di violenza carnale, ritorna – davanti alla legge – alla sua vera natura: felina, seduttiva, corruttrice, provocatrice, femmina: solo perché donna. Imputabile perché per natura seduce, è dunque imputabile perché, per natura, può essere facilmente sedotta.

Ora la donna non accetta più la vergogna di essere violentata e di sentirsi anche colpevole. Vuole poter vivere come la persona e non rappresentare la sessualità. Ma proprio perché ha cominciato ad esistere, si dice che il fenomeno della violenza carnale vada aumentando in questi ultimi anni, presentando un carattere nuovo: la violenza di gruppo. Il più delle volte questo aumento viene imputato alla maggior libertà della donna, a un’invidia nuova che gli uomini hanno di lei, scoprendola improvvisamente biologicamente più forte di loro; alla rabbia nei confronti di questa sua sfacciata conquista di sé che li allontana e li esclude. Ma le donne sono sempre state violentate e stuprate, anche quando se ne stavano in casa (allora era il padre, il fratello, l’amico del nonno); anche quando vigeva la teoria della loro inferiorità biologica. Ed è difficile stabilire che questa violenza è aumentata negli ultimi anni, se prima la donna taceva. La differenza sta soprattutto nel fatto che adesso sono sempre più numerose le donne che denunciano queste violenze perché non sono più sole, si riconoscono l’una nell’altra, l’una nella sotria dell’altra; non è più un’esperienza isolata e nascosta e sono appoggiate e sostenute dai loro collettivi e dai loro organismi. In più, davanti al nuovo fenomeno della violenza di gruppo cui viene dato un significato reattivo e punitivo nei confronti dell’emancipazione della donna, si potrebbe anche dire che la libertà sessuale raggiunta dalla donna riduce – agli occhi dell’uomo – il carattere di trasgressione sociale implicito nella violenza carnale. La violenza di gruppo rappresenterebbe allora la trasgressione, l’offesa, quindi una risposta al cambio dei costumi sessuali – un passo oltre la trasformazione avvenuta – più che una vendetta nei confronti della libertà della donna.

L’esempio di questo processo comunque ci dà la misura dello squallore e della miseria umani che stanno sotto alla nostra cultura: stupratori che dichiarano di aver pattuito con la ragazza un compenso ma di non averglielo dato perchè «non soddisfatti… non valeva la pena… è meglio mia moglie». Avvocati che, per sostenere la loro tesi, arrivano a rimpiangere la prostutuzione come un mestiere che «in tempi lontani e anche vicini, ci può aver visto partecipi di momenti di piacere… che è di questo odio, questo giudizio contro chi dedica la sua vita al piacere degli altri?» (Il tutto per poter insinuare che la ragazza stuprata è una “puttana” ma – per carità siamo moderni – non c’è niente di disdicevole in questo). Madri che, dimenticando di esser donne, oggetto di una violenza costante, arrivano a dire: «Non le ha fatto niente di male. Nun l’ha ammazzata ‘sta ragazza». Una “mazzetta” di due milioni buttata sul tavolo come offerta di risarcimento e pubblico ministero e avvocati che discutono sulla «congruità della somma versata in rapporto ai danni subiti». I commenti sottovoce di altri avvocati: «lasciamoli sfogare… la rapidità ci giova perchè sdrammatizza». Il presidente del tribunale che, per incoraggiare Fiorella, riassume la situazione con parole felici, adatte al luogo, al momento, alla circostanza: «Come vedete non siete sola, siamo tutti padri di famiglia…». Uomini d’onore, dunque, stupratori e avvocati. Basta infatti sentire come venerano le donne: «Vi confesso che pensiamo, parliamo sempre delle donne, siamo pazzi delle donne… le abbiamo sempre rispettate, ci alziamo nel tram e offriamo il posto…» (Avvocato Zappieri).

Questo è l’uomo che si è arrogato il diritto di rappresentare la razionalità, l’intelletto, il pensiero, relegando la donna nella natura e nella sessualità? In questo clima da “padri di famiglia” viene da domandarsi cosa sia questa famiglia, cosa sia questa legge che dovrebbe tutelare gli offesi; a quali parametri e criteri di difesa si rifacciano gli avvocati; se stiamo veramente vivendo nel 1979 in un Paese che si dice civile, o se non stiamo assistendo ad una ballata medievale o al processo a una strega che ha osato dire ciò che sapeva. Ma questo squallore ha una spiegazione. È perché la donna ha osato parlare, ha osato dire ciò che è stato inventato per dominarla e farla tacere, che viene svelato ciò che il suo silenzio copriva. È solo quando l’oppresso non accetta più l’oppressione che il potere si scopre nella sua vera natura, perché è costretto a giustificarsi, a trovare una ragione della violenza, a spiegare il perché dell’oppressione, a difendersi. E non c’è una ragione, un perché, se non l’oppressione. Finché si riesce ad imporla come una questione naturale, non è necessario giustificarsi e giustificarla. Ma quando si smaschera, il potere non sa cosa dire e dà uno spettacolo di sé che è vergognoso e che da solo conferma la forza di chi lo rifiuta.

Franca Ongaro Basaglia

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