Problemi dell’homo zoomaticus

Contro chi è contro la didattica online

Un’alpaca in videoconferenza

Scriveva Wilhelm Stapel, un commentatore politico conservatore e antisemita, nel 1919: “Tutti sanno che, a parte l’alcool, non c’è niente di più pericoloso del cinema per la salute e la moralità della gente. Anche se lo spettacolo è decente, il solo fatto di abituarsi al lampeggio, svolazzamento, e contorcimento delle immagini sullo schermo tremolante lentamente ma inesorabilmente distrugge la psiche e, in ultima istanza, anche la stabilità morale”. Che cosa produrrà tutto ciò? “Un tipo umano, che instabilmente ‘pensa’ solo per idee grezze e generali, che viene trasportato da impressione a impressione, che non è più in grado di esprimere giudizi chiari e convincenti”. Stapel chiamava questo tipo umano, “inferiore per capacità sia intellettuali che morali”, homo cinematicus.

Quasi mezzo secolo più tardi (1963), Padre Atanasio scriveva su Famiglia Cristiana: “La televisione è entrata a far parte della vita della famiglia, come il ferro da stiro, la macchina da cucire e il macinino da caffè. Ma, contrariamente a queste macchine, tutto ciò che essa ci dà, ce lo dà in modo intimo e penetrante, talvolta carezzevole, talvolta brutale. La sua forza di penetrazione è molto più pericolosa”. Anche le riviste del Partito Comunista mettevano in guardia dai pericoli della televisione. Su Vie Nuove, il rotocalco del PCI, usciva nel 1956 un’indagine su “Lascia o raddoppia, gioco pericoloso?” a cura di Saverio Tutino, dove venivano riportate le sensazioni dei concorrenti che avevano partecipato alla trasmissione di Mike Bongiorno, per concludere come il quiz fosse un retaggio della cultura statunitense, intrisa di “sistemi propagandistici” crudeli e disumanizzanti.

Di reazioni sconvolte al dilagare dei videogame se ne trovano a bizzeffe, ma sicuramente ci saranno stati anche dei monaci che si lamentarono di quel Gutenberg che stampava i libri in serie, creando volumi non veri, inscemendo i lettori. All’arrivo di ogni nuovo strumento, tecnologia, media, c’è infatti chi ci ricorda che si stava meglio quando si stava peggio, che le nuove macchine non forniscono vero divertimento/educazione, che l’influenza del nuovo sulla psiche umana è deleteria. Non ci sono dubbi: ci sono rischi insiti nel cinema, nella televisione, nei videogiochi, nella didattica online e persino nella lettura dei libri stampati (quei caratteri così piccoli!). Ma è innegabile una certa tendenza a cercare i problemi, i danni, i rischi, a ricordare come prima era meglio, e considerare meno le possibili risorse. Anche gran parte del dibattito sulla didattica a distanza (o DAD) sta prendendo piede su queste premesse. Si lamenta la nascita di un homo zoomaticus.

Non si intende qui mettere sullo stesso piano, buttare in uno stesso calderone, posizioni molto variegate e composite, pubblicate qui su il lavoro Culturale e in molti altri luoghi. Né si vogliono negare gli enormi problemi di questa repentina transizione, dall’impreparazione sostanziale di insegnanti e studenti, a strutture tecnologiche inadeguate e reti internet che si saturano troppo facilmente, passando per le difficoltà (specie per chi ha figli o famigliari da accudire) di dover lavorare da casa, al lavoro di cura (spesso ancora a prevalenza femminile) non tutelato, e alle legittime e necessarie preoccupazioni verso le piattaforme private multinazionali (Zoom, Microsoft Teams, G-suite) con le quali lavoriamo. Il carico di lavoro è spesso aumentato, in particolare perché spesso si è provato a tradurre tout court un’ora offline in un’ora online, in una situazione emergenziale.

Eppure non può esserci solo questo, e nella marea di articoli – tantissimi, comprensibilmente (perché non si può che partire dalla propria esperienza) ma anche ombelicalmente in prima persona – si rischiano errori grossolani. Si dice che alle università, per esempio, converrebbe tantissimo trasformare tutta l’educazione online, dimenticando quanti soldi girino intorno alle strutture universitarie, tra servizi che offrono e (almeno in ambito angloamericano) costosissime proprietà immobiliari. Oppure si pensa alla didattica a distanza come una brutta copia, un surrogato di quello che si faceva prima, mentre se non si prova a pensarlo come qualcosa di diverso si perde in partenza.

Ma soprattutto: davvero prima andava tutto bene? Quello delle disuguaglianze è un esempio sintomatico. Com’è noto è compito della Repubblica italiana rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l’eguaglianza dei cittadini (articolo 3 della Costituzione), ma un conto è vivere in lockdown o quarantena in quattro in 50 metri quadri, un conto è Madonna che pontifica su quanto il Covid-19 sia un great equalizer dalla propria ampia vasca da bagno riempita di fiori. Per tornare alla didattica a distanza, migliori strumenti (tecnologici e non), presenza di genitori istruiti in casa, possibilità economiche diverse rendono inevitabilmente ineguale l’esperienza dell’insegnamento online. Quando non la rendono proprio impossibile.

Ma davvero prima, nella scuola e università offline, le esperienze del figlio del dottore e quelle del figlio dell’operaio erano uguali? Davvero trovarsi in classe li rendeva, misteriosamente e miracolosamente, uguali? Davvero lo spazio della classe offline è sempre uno spazio democratico e orizzontale? Qual è la battaglia da farsi, quella contro la DAD o per fornire a studenti e insegnanti gli strumenti, tecnologici e non, adeguati? Per quanto non manchino quelli che semplicemente si lamentano dei bei tempi andati, molti e molte di quelli che oggi si scagliano quasi aprioristicamente contro la didattica online esprimevano ieri critiche giuste e importanti contro le disuguaglianze legate all’apprendimento. Ripartire da queste critiche e allargarle all’online è forse più utile di una battaglia contro il mezzo.

Un altro esempio di questa corsa al nuovo cattivo. Ci dice Psychology Today che insegnare online ci sta esaurendo. Verissimo, ma anche passare una giornata a insegnare e fare riunioni dal vivo non è che fosse cosa più riposante al mondo. Oppure gli studenti che giustamente si lamentano che questa non è l’università per cui hanno pagato. Il problema, però, sta a monte: l’università dovrebbe essere gratuita, gli studenti non dovrebbero essere clienti. In questa ossessione per il pericoloso nuovo poi si è dimenticato di andare a vedere quanto ci sia di nuovo. Che cosa faceva in fondo il maestro Manzi che negli anni sessanta educava grandi e piccini dalla cattedra di Mamma Rai? Didattica a distanza, naturalmente.

La crisi dovuta agli effetti del virus sta funzionando piuttosto come un acceleratore. Niente di nuovo, anche questo: “la pandemia del 1918 impose un’accelerazione ai cambiamenti avvenuti nella prima metà del Novecento e contribuì a dare forma al mondo che conosciamo” (scrive Laura Spinney in 1918 L’influenza spagnola). Il potere accelerativo delle pandemie è risultato particolarmente chiaro nel caso della didattica on line. Ha avuto gioco facile l’università di Edimburgo nel ricordare come siano ben 15 anni che offre corsi online. Allora forse quello che dovremmo chiederci, insegnanti di vari ordini e gradi, è dov’eravamo fino all’altro ieri. Dov’eravamo mentre questi processi erano già in movimento e molto chiari? Per questo non ha molto senso dirsi contro la didattica online, perché l’insegnamento online esiste, è un dato, un fatto, con cui dobbiamo fare i conti, ci piaccia o meno. E questo non dai primi di marzo, ma da molto più tempo, e se ci siamo trovati così impreparati è perché abbiamo fatto finta di non vedere processi già in atto. Scagliarsi contro le macchine, dai luddisti in poi, non ha mai prodotto grandi risultati, se non perdere completamente il controllo dei mezzi di produzione (o di comunicazione) di massa.

Alberto Manzi (1924-1997)

Questa crisi sarebbe piuttosto questa un’occasione per ripensare alcune strutture date per assunte e immodificabili, provando a sperimentare. Dario Siess su La ricerca propone “un superamento delle unità “aristoteliche” di azione-tempo-luogo didattici che inquadrano il format educativo classico” per pensare “un modello più flessibile e decentrato di scuola”, “che ridimensiona la ‘lezione’ (in quanto ‘lectio’) in presenza proponendo fonti diversificate d’informazione e conoscenza, che assegna al docente un ruolo (fondamentale) di regista dell’apprendimento più che ‘attore protagonista’ delle diverse fasi della vita scolastica”. Provare insomma con l’aiuto della didattica online a rendere più democratica la scuola.

Tra colleghe e colleghi circola una battuta malvagia: a chi non piaceva insegnare in classe, e si era faticosamente abituato a farlo, non piace neanche insegnare online, ha poca voglia di sperimentare. È innegabile che con la didattica online possa aiutare a raggiungere persone che altrimenti non avrebbe accesso all’insegnamento, e come nota Mario Del Pero “è uno strumento con il quale sperimentare forme di didattica nuova e integrativa, paradossalmente più dialogiche e interattive”. O come dice Paola Italia la didattica a distanza può essere “un’opportunità per chi, anche prima dell’isolamento, non poteva partecipare alle lezioni, per ragioni personali, famigliari, geografiche, mediche, oppure semplicemente per gli studenti lavoratori”. A queste ragioni pare nessuno o quasi stia pensando, dando troppo per scontato che prima si andava tutte e tutti allegramente in classe, anche chi abita a decine di chilometri dall’università o dalla scuola, anche chi deve accudire famigliari o lavora full time, anche chi è impossibilitato o in difficoltà per ragioni mediche. Nell’interessante discussione sull’università senza corpi, infatti, si corre il rischio di assumere che questi corpi siano abili, capaci di arrivarci all’università, o che tutte e tutti si sia a proprio agio col proprio corpo da volerlo esporre nell’arena sociale. E invece anche l’aula ‘in carne e ossa’ può e sa essere brutale. Dovremmo non dimenticarlo, proprio ora, quando se vogliamo impedire che nascano i mostri dobbiamo cercare di capire come influenzare il mondo nuovo.

La demonizzazione dell’homo zoomaticus è insomma già cominciata. Si insiste spasmodicamente sugli innegabili aspetti negativi di questa mutazione che abbiamo dovuto affrontare rapidamente, accantonando il resto: potenzialità, opportunità, necessità. Sta a noi provare a provare a prendere il controllo dei mezzi di comunicazione di massa invece di cercare sterilmente di distruggere le macchine.

Questo pezzo nasce non solo come parte di una serie di articoli qui su il lavoro culturale, ma anche stimolato da una discussione interna alla redazione, che l’autore ringrazia. Grazie anche per rilettura e suggerimenti, diretti e indiretti, a Francesco Casetti, Chiara Colangelo, Damiano Garofalo, Alessandro Pes e Giovanni Pietrangeli.

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