La repressione istituzionale non passa soltanto attraverso misure e azioni coercitive. Può essere favorita anche da categorie e discorsi che tendono a imporre specifiche rappresentazioni della realtà sociale, condizionando le strategie operative degli attori coinvolti.
Il sapere di polizia1 è un ambito cruciale al riguardo. Al suo interno, sono presenti nozioni – relative soprattutto alle folle e all’ordine pubblico2 – che esemplificano chiaramente una certa visione del conflitto e dei soggetti, individuali e collettivi, che lo animano.
Anche la ricerca sociale è un punto di osservazione privilegiato sulla produzione di concetti e frames propedeutici a condotte repressive o, comunque, funzionali a una loro legittimazione. L’autorevolezza di cui godono i saperi veicolati da studiosi riconosciuti e istituzioni accreditate può fornire un valido sostegno a rappresentazioni negative dei movimenti sociali.
L’idea di ordine pubblico (OP) è centrale nei manuali prodotti dal Ministero dell’interno a partire dal secondo dopoguerra. Fino agli anni ottanta, questi testi vedevano nell’OP una condizione di equilibrio e omogeneità morale. Un volume del 1973, ad esempio, fa coincidere tale nozione con «quel complesso di princìpi fondamentali sui quali poggia l’organizzazione politica e sociale dello Stato, princìpi che non sono soltanto quelli dell’ordinamento giuridico vero e proprio ma che abbracciano norme della più varia origine (es. norme morali, politiche, storiche, ecc.)»3. Su questo punto, un manuale per la formazione dei Carabinieri è ancora più esplicito: «la tutela dell’ordine pubblico mira a prevenire e reprimere tutte quelle attività che contrastino coi principi etico-sociali, posti alla base del vivere civile, nonché ad eliminare tutte quelle turbative che ledono la vista, l’udito, l’olfatto, il sonno dei cittadini, oltre i limiti della legge e della buona consuetudine sociale»4.
Per tutti gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, dunque, al concetto di OP era sotteso un chiaro riferimento a uno Stato etico: al di là dei manuali, nel suo agire concreto la polizia poteva impedire azioni che fossero in contrasto con i valori morali e sociali considerati alla base dello Stato. A partire dall’inizio degli anni Ottanta, invece, la polizia, secondo alcuni studiosi5, avrebbe preso le distanze da una visione tipica dei regimi totalitari per abbracciare una concezione propria dei regimi liberali e democratici, al cui interno l’assenza di disordine è sostanzialmente equiparata a una condizione di pace e sicurezza. Come evidenziato altrove, tuttavia, il passaggio da un’idea di ordine pubblico ideale a una materiale non è un dato scontato, sia che si guardi ai comportamenti effettivi tenuti dalla polizia sia che ci si concentri sul suo sapere. Un manuale del 2001, ad esempio, definisce così la nozione di OP: «tutto ciò che è indispensabile per garantire l’ordinato svolgimento della vita sociale, e di conseguenza è valido ad assicurare non solo il rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche i valori etici, nazionali e culturali»6.
Ma la persistenza di una visione ideale dell’ordine emerge soprattutto se ci si focalizza sulla descrizione delle folle effettuata dalla polizia. L’interesse specifico per questo tipo di soggettività sociale si sviluppa a partire dai primi anni Sessanta, quando capitoli o interi manuali cominciano a essere dedicati alle strategie e alle tecniche per il mantenimento dell’OP, con approfondimenti sulla composizione delle masse in piazza e sulla loro gestione.
I testi per la formazione del personale7 descrivono i raggruppamenti di persone in luoghi pubblici come entità unitarie, dotate di specifiche caratteristiche – indipendenti dalle ragioni per cui si sono costituite – e funzionalmente suddivise al proprio interno.
Tendenzialmente, alla folla è attribuita una natura irrazionale, mentre ad alcuni suoi elementi sono assegnati tratti iper-razionali e criminali. Alcuni passaggi contenuti nei manuali dei primi anni Settanta sono piuttosto significativi al riguardo:
La folla, qualunque sia il motivo per cui si è costituita, va controllata attentamente dalla polizia. Essa, infatti, non agisce razionalmente ma con esplosione di sentimenti passeggeri, spesso provocati da notizie false e tendenziose, per cui si lascia facilmente trascinare o all’entusiasmo o ad un comportamento vietato dalla legge. Talvolta una folla di persone che accresca di numero può diventare massa e quindi turba scalmata che, all’inizio, si limita a manifestare il suo stato d’animo lanciando urla e minacce e successivamente può trascendere ad atti di violenza. In questo caso la massa segue gli individui più facinorosi e sconsiderati con conseguenze spesso delittuose.8
La folla […] è particolarmente sensibile agli incitamenti e può indursi, sotto la spinta di chi la guida o di istigatori, a compiere azioni sconsiderate, anche in contrasto con le stesse aspirazioni dei suoi componenti.9
Dalla prospettiva dei manuali di quegli anni, dunque, la folla è emotiva, soggetta all’influenza di «fattori psicologici» come «la suggestione, per cui i componenti […] accettano inconsciamente e senza obiezioni le idee di un loro membro influente»10. Per questo, alle reclute si consiglia di evitare «di scambiare frasi con i dimostranti» e di farsi a loro volta «suggestionare deflettendo dalle consegne ricevute o dall’adempimento del proprio dovere»11.
Visioni di questo tipo sono presenti anche nei volumi degli ultimi decenni. Un testo del 2000, ad esempio, individua nell’«emotività» il «fattore fondamentale» alla base del comportamento delle folle, e contiene un paragrafo dedicato allo studio del loro coefficiente emotivo e delle variabili che lo determinano12. Questo stesso testo mostra anche una lettura naturalizzante delle disposizioni comportamentali dei manifestanti:
Alcune folle appaiono predisposte naturalmente ad una risposta più pronta e meno condizionata da freni inibitori, o addirittura presto svincolata da ogni freno, sotto l’azione di stimoli. Tali predisposizioni sono da porre in stretta relazione con i fattori naturali. Alcuni di questi fattori esercitano una sensibile influenza sui fatti collettivi: la densità della popolazione (nei grandi agglomerati urbani la gente sembra più reattiva); l’educazione al rispetto della personalità altrui; il carattere della vita politica; il maggiore o minore senso della solidarietà sociale, ecc.13
La riduzione al piano “naturalistico” di fattori sociali ed economici favorisce una spiegazione dei comportamenti nelle piazze che rimuove del tutto il ruolo della razionalità individuale, degli orientamenti valoriali personali e delle logiche dell’azione collettiva.
La deresponsabilizzazione dei singoli – congiuntamente all’enfasi sulla dimensione emotiva delle masse e sull’indole criminale dei loro leader – contribuisce a svuotare il comportamento dei manifestanti di un contenuto genuinamente politico. La negazione della politicità delle folle, come mostrato altrove, è una risorsa strategica per delegittimare le soggettività sociali meno gradite e per giustificare un intervento repressivo nei loro confronti.
Una strategia di questo genere è presente anche in un testo di ricerca sociale embedded, Dieci anni di ordine pubblico. Focus sulle manifestazioni politiche – sindacali – sportive (Roma, Eurilink, 2015), scritto da due membri della polizia – Armando Forgione e Roberto Massucci – e da un ricercatore sociale – Nicola Ferrigni. Qui, la depoliticizzazione della masse riposa su una scelta classificatoria piuttosto discutibile. Le manifestazioni sono suddivise in sei tipi differenti, uno soltanto dei quali è definito “politico” mentre gli altri, pur riguardando temi quali l’immigrazione e la difesa dell’ambiente, sarebbero, a detta degli autori, non politici14.
Ma la criminalizzazione delle folle, nel campo della ricerca embedded, può anche seguire vie diverse dalla depoliticizzazione. In un volume scritto da un criminologo consulente della polizia di Stato e da un viceprefetto e direttore dell’ufficio concorsi della medesima istituzione – contenente un intervento di Antonio Manganelli, allora al vertice della pubblica sicurezza italiana – il carattere “politico” di una manifestazione o di un gruppo è considerato un elemento di per sé negativo:
Dopo la riforma delineata nella 121/81 […] si è assistito per molto tempo a manifestazioni sostanzialmente tranquille non inquinate da contenuti politici e finalizzate quasi esclusivamente al superamento di specifici problemi salariali. Negli ultimi anni, questo atteggiamento è cambiato, sostituito da manifestazioni collegate quasi sempre a rivendicazioni politiche a opera di minoranze in cerca di visibilità e di nuovi adepti, non raramente caratterizzate dalla presenza di soggetti violenti e professionalizzati, quando non da esponenti di organizzazioni criminali. […] alcune migliaia di cittadini, approssimativamente lo 0,1-0,2 % della popolazione – [tiene] costantemente in ostaggio con le proprie manifestazioni violente e con la propria cieca ideologia, tutto il resto del paese. Non è certo un caso che spesso si tratti delle stesse persone che cambiano “motivazioni” e casacca, dal termovalorizzatore alla possibile serrata al derby calcistico cittadino.15
In questo passaggio, sono evidenti sia le strategie della generalizzazione e dell’estremizzazione, che portano a equiparare membri di «organizzazioni criminali» e manifestanti, sia un uso acritico e disinvolto dei dati.
In altre pubblicazioni dello stesso autore16, inoltre, sono presenti visioni dell’ordine pubblico simili a quelle espresse dai manuali di polizia: sebbene il mantenimento della sicurezza pubblica sia fatto coincidere, dichiaratamente, con la tutela dei diritti costituzionali, tra le pieghe dei discorsi emerge in modo evidente una visione etica dell’ordine. Ciò accade nei passaggi in cui si tracciano, in maniera arbitraria e in assenza di fondamenti empirici, i confini tra folle legittime e illegittime e, dunque, si giustificano interventi preventivi sulla base non delle azioni compiute dai manifestanti ma delle loro idee.
Un certo tipo di sapere – parziale, stereotipato o addirittura distorto – è dunque funzionale all’esercizio di un certo tipo di potere – selettivo, opaco e a tratti arbitrario. La repressione, da questa prospettiva, appare come un meccanismo che si fonda non soltanto sull’uso esplicito della violenza e/o sulla persecuzione, amministrativa e giudiziaria, di coloro che svolgono attività di ricerca considerate poco “opportune”, ma anche su conoscenze presentate come scientifiche.
Tali conoscenze, persistenti nel tempo, contribuiscono a legittimare le istituzioni poliziesche e, parallelamente, a delegittimare gli individui e i gruppi che esprimono il proprio dissenso, configurandosi come modalità repressive a priori.
*Il testo è una sintesi di uno dei contributi al recente e-book Università critica, edito da il lavoro culturale insieme a Effimera.
Note
- soluzioni adottate al fine di risolverli (S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, 2000 e D. Della Porta e H. Reiter, Polizia e protesta. L’ordine pubblico dalla Liberazione ai «no global», Il Mulino, 2003).
- Per approfondimenti su questo punto si rimanda a E. Gargiulo, Ordine pubblico, regole private: rappresentazioni della folla e prescrizioni comportamentali nei manuali per i Reparti mobili, «Etnografia e ricerca qualitativa, 3, 2015; Mantenere l’ordine: feticci liberali e princìpi etici nella gestione della sicurezza pubblica, «Lavoro culturale», disponibile all’indirizzo http://www.lavoroculturale.org/mantenere-lordine-feticci-liberali-e-principi-etici-nella-gestione-della-sicurezza-pubblica/; L’Idra dalle molte teste: le folle nel sapere di polizia, «Lavoro culturale», disponibile all’indirizzo http://www.lavoroculturale.org/le-folle-nel-sapere-di-polizia/.
- Ministero dell’interno – Direzione generale della P.S.- Divisione scuole di polizia, Manuale di istruzione professionale: per allievi sottufficiali del corpo delle guardie di P.S., Fratelli Palombi, 1973, 409.
- Scuola di applicazione dei carabinieri, Sinossi di ordine pubblico, Tipografia della scuola, 1971, 7.
- Della Porta e Reiter, Polizia e protesta, op. cit.
- Ministero dell’Interno – Dipartimento della pubblica sicurezza – Direzione centrale per gli affari generali della polizia di stato (a cura di Valerio Donnini), Concetti tecnico-tattici di impiego delle Unità Organiche a vario livello nei servizi di Op, Roma, 2001, 5.
- Su questo punto, così come per i contenuti dei manuali compresi tra il secondo dopoguerra e la metà degli anni sessanta, si rimanda a E. Gargiulo, Costruire il bravo poliziotto. I manuali di polizia tra il secondo dopoguerra e la seconda metà degli anni Sessanta, «Zapruder», 41, 2016.
- Ministero dell’interno, Manuale di istruzione professionale, op. cit., 416.
- Scuola di applicazione dei carabinieri, Sinossi di ordine pubblico, op. cit., 14.
- Scuola di applicazione dei carabinieri, Sinossi di ordine pubblico, op. cit., 15.
- Ministero dell’interno, Manuale di istruzione professionale, op. cit., 417.
- A. Gianni, L’ordine pubblico di polizia. Orientamento alla gestione dell’ordine pubblico ed ai relativi servizi di polizia, Laurus Robuffo, 2000, 38-44.
- Gianni, L’ordine pubblico di polizia, op. cit. 38-39.
- Per un’analisi più dettagliata di questo volume si rimanda a Gargiulo, Sul sapere di polizia e sulle sue ambiguità, op. cit. In questo contributo, viene evidenziato come Dieci anni di ordine pubblico faccia un uso strumentale di dati statistici di dubbia attendibilità, sulla cui costruzione non è fornito alcun dettaglio metodologico. I dati richiamati nel testo sono relativi alla differenza nel numero di feriti tra forze dell’ordine e manifestanti (o ultrà, quando gli eventi sono di carattere sportivo): la sproporzione a vantaggio della polizia starebbe a testimoniarne la correttezza dei comportamenti. Un simile uso strumentale e acritico dei dati è evidente anche in altre ricerche, tra cui ad esempio S. Masiello, Ultrà. L’odio metropolitano, «Quaderni di sociologia», LIV, 52, 2010.
- F. Carrer e G. Dionisi, La valutazione dell’attività di polizia, FrancoAngeli, 2011, 83-84.
- Ad esempio, F. Carrer e J.C. Salomon (a cura di), L’ordine pubblico. Un equilibrio fra il disordine sopportabile e l’ordine indispensabile, FrancoAngeli, 2011.