La pandemia di Covid19 è un fenomeno epocale, rispetto al quale è opportuno porre domande adeguate più che proporre risposte nette.
Viviamo un tempo di gravi difficoltà, di disaccordi, incertezze e paure diffuse. Su un punto, però, crediamo si possa trovare una convergenza di opinione: l’anno 2020 con la pandemia di Covid19 rappresenta davvero una «svolta epocale». Negli ultimi trent’anni si è forse abusato di questa espressione. Si potrebbe ipotizzare, non senza fondamento, che in occidente abbiamo sviluppato (o recuperato) una tendenza alla drammatizzazione, che in realtà cela un processo di normalizzazione dell’emergenza: un aspetto di cui tener conto, nel valutare l’impatto della pandemia. Essa, certo, si connota come un evento spartiacque, capace di distinguere nella storia, con grande nettezza, un prima e un dopo. E su scala planetaria
Proprio la propagazione capillare del virus costituisce il carattere peculiare dell’evento, ancor più dei numeri. Questi ultimi, infatti, nella loro vaghezza sembra svolgano la funzione di portarci rapidamente dal tormento (se consideriamo l’elevato numero di morti attribuibili al virus) al cinismo, (se rapportiamo lo stesso numero ad altre malattie o alla popolazione complessiva).
La diffusione dell’ingiustizia
È stato opportunamente osservato che la pandemia colpisce più severamente le fasce povere delle popolazioni , (ri)portando alla luce – se ce ne fosse ancora bisogno – un terreno sociale fortemente polarizzato, con le diseguaglianze in progressivo aumento in tutto il mondo: non soltanto quelle economiche, o non da sole, perché spesso intersecate con le diseguaglianze di genere e di razza e di età. Al virus della diseguaglianza, che di per sé miete molte vittime ogni anno su scala planetaria, si aggiunge pertanto il “nostro” coronavirus. Pure qui, i numeri precisi direbbero poco, anche se li avessimo (e bisognerebbe tenere in maggiore considerazione che invece non sono a disposizione o sono parziali): tuttavia, chiunque può concordare sul fatto che il nutrimento adeguato, l’accesso a cure opportune e tempestive, la possibilità di “isolarsi” in caso di infezione, la garanzia di un reddito sufficiente nell’evenienza di non poter lavorare per un periodo di tempo prolungato, siano condizioni che possono rendere l’impatto del virus meno drammatico. A scanso di equivoci: non già evitare l’impatto, ma renderlo meno drammatico. Per contro: non poter fare a meno di lavorare o di cercare un lavoro o di procacciarsi un reddito quotidiano; vivere in condizioni di affollamento abitativo; trovarsi nell’impossibilità di accedere a cure adeguate e tempestive, sono tutte condizioni avverse, che favoriscono la diffusione e l’impatto drammatico del virus. Potremmo aggiungere, visto che il tema è oggi di particolare interesse, che anche il livello d’istruzione e di cultura generale è da considerare un fattore in grado di influire sull’impatto della malattia tra le popolazioni. Sicché, la chiusura delle scuole – e delle università – accrescendo la frattura sociale, con le sue diseguaglianze, consolida quel terreno sul quale si è innestata la pandemia, con tutte le sue gravi conseguenze. Basti pensare al significato molto diverso della didattica a distanza per chi vive in abitazioni piccole o grandi, affollate o meno, con genitori o parenti colti oppure incolti. O ai ritardi, difficilmente recuperabili o non recuperabili, accumulati nei fanciulli in difficoltà, per esempio i portatori di autismo, con la differenza che comporta vivere con questi problemi in famiglie facoltose oppure povere. Ma l’elenco sarebbe lungo.
Ovviamente questo virus non è né democratico né antidemocratico; non risponde a criteri di giustizia: ma sta svelando con una certa chiarezza il carattere ingiusto del mondo che abbiamo costruito. Ognuno dirà: “lo sappiamo”. Bene: è ora di trarne delle conseguenze, riconoscendo in ciò il carattere epocale del passaggio storico che viviamo. È da questo che bisogna partire, perché chi pensa che le diseguaglianze siano il destino del mondo o è un disperato o è un privilegiato.
Intellettuali, esperti e quaquaraquà
Qualche mese fa, durante il primo lockdown, un gruppo di intellettuali prese la penna per redigere un appello in difesa del governo: “Basta con gli agguati!”. Apparve sul Manifesto, il “giornale comunista”, ed era firmato da persone molto diverse tra loro, personalità apprezzate e apprezzabili; non tutte, ma la maggior parte di “sinistra”. Vennero criticate, come è normale quando ci si schiera, anche se qualcuno non la prese benissimo, e la (breve) discussione si polarizzò intorno a una sorta di polemica generazionale: gli “anziani” che difendevano l’etica della responsabilità (le chiusure, cioè il male minore); i “giovani” posseduti dall’etica della convinzione (allarmati per il vulnus alla democrazia parlamentare). Si trattava di una contrapposizione mal fondata, che però metteva in luce un problema importate: la faglia creata, in quel mondo tristo che è la “sinistra”, tra due modi di concepire la figura dell’intellettuale (termine che noi accogliamo in un’accezione molto ampia).
La figura dell’intellettuale che appartiene agli anni Settanta, che là si è formato, con la classe compatta e rigida, i sindacati, i partiti del movimento operaio, socialista, comunista, democratico, le forze “extraparlamentari”, è inattuale. Quell’intellettuale, alla fin fine, era “colui” che decideva del male minore, perché il tempo giocava a favore del socialismo, della democrazia, dei processi di emancipazione. E tanto per recuperare il mito del buon tempo andato, possiamo aggiungere che tale compito veniva assolto nel seno di una società civile ricca e problematica, curiosa e frizzante, che si organizzava in un vasto reticolo di associazioni, strutture e forme politiche alquanto stabili, soprattutto se paragonate a quelle attuali. Quell’intellettuale ha attraversato il deserto degli anni Ottanta, perdendo un po’ di quella fiducia nel progresso, ma trovando – spesso nelle aule universitarie – materia umana su cui lavorare negli anni successivi. Da Palermo a Torino, molti sono diventati dei punti di riferimento per quella generazione che ha incontrato la politica con la Pantera: una generazione che è stata poi massacrata dallo Stato nel 2001, prima a Napoli (presidente del consiglio: Giuliano Amato), e poi, in grande stile, a Genova (capo del governo: Silvio Berlusconi). Il massacro non fu solo metaforico. E gran parte della nuova generazione capì bene che non esisteva alcun “male minore”, fuori dalle paludate aule universitarie, fondazioni o centri di ricerca.
Non ci sembra un aspetto secondario della contrapposizione, forse anche dell’incomprensione, che sembra esserci tra i due “tipi” di intellettuale che si sono confrontati recentemente. Anche questo va detto con chiarezza: chi oggi insiste sul punto non comprende il carattere inedito della situazione che viviamo. L’espressione male minore è ormai priva di senso: se pensiamo di affrontare il mondo della pandemia e quello che ne seguirà con questa logica, abbiamo già fallito. È quella logica che ha creato le condizioni della sua diffusione tragica ed è quella logica che ne rende complesso il contrasto.
Il fatto che anche a sinistra chi esprime dei dubbi sulla gestione della pandemia (e non perché gli sia mancata la mezz’ora di jogging o la cena al ristorante!) sia zittito in nome delle migliaia di morti e tacciato di spregio per la vita umana è indice di soggezione culturale e perfino psicologica. Non è di chi si pone delle domande la responsabilità di non aver evitato la morte di migliaia di persone. A tutti noi, di qualunque generazione, tocca un compito diverso: cercare la verità e provare a esprimerla, per quanto possibile, con le parole adatte, con un linguaggio adeguato. Nulla di più, ma nulla di meno.
Si tratta di questioni elementari, dalle quali bisogna partire per ripensare la funzione intellettuale nel mondo attuale: e prima di tutto bisogna prendere le distanze da quella “politica” che agli intellettuali preferisce gli “esperti” (col paradosso poi che un virologo viene trasformato d’incanto in esperto di policies, un biologo in un improvvisato sociologo, e così via) e da quel mondo dell’informazione che alla riflessione seria preferisce gli strepiti dei quaquaraquà: statistici, fisici, esperti di numeri e curve che, indifferenti a un approccio olistico alla pandemia, si sono lanciati nella “modellistica”, propinando scenari da incubo a persone spaventate e fisse su qualche post di facebook.
Non si tratta della distinzione tra scienze dure e scienze sociali, perché il problema, ovunque, è la débâcle del pensiero critico. Questo, certo, si è sposato con la delegittimazione di alcune figure specifiche: di fronte a un evento epocale come la pandemia, filosofi, antropologi, storici, politologi, sociologi, geografi, urbanisti, e compagnia, avrebbero dovuto parlare, discutere, proporre, invece di cedere al silenzio, chiusi nelle proprie case in compagnia di un pc, specchio deformante di sé, degli interlocutori, dei referenti. Detto altrimenti, una crisi come quella che viviamo si sarebbe dovuta affrontare mobilitando tutte le risorse disponibili, e non ultime quelle degli scienziati sociali, il cui silenzio è sintomo di una crisi forse irreversibile di una parte consistente del sapere accademico.
Pensare altrimenti
Chiudere le scuole non è un male minore. Nonostante un certo accordo nella letteratura internazionale sul rischio relativamente più basso che si corre negli istituti scolastici, in Italia la stampa mainstream ha dato ampio spazio ad alcune interpretazioni tra il dilettantesco e l’ottuso che hanno come fine tenere alta la tensione. Del resto anche tra gli interpreti dei grafici ci sono coloro che si innamorano di una tesi (“chiudere, chiudere”) e vedono ovunque solo prove a sostegno, gli occhi allucinati e il cuore pulsante. Nessun dubbio, naturalmente, perché gli dei non mentono e ai numeri possiamo fare dire di tutto. Ma come ha scritto Valentina Pazé: «Posto che il “rischio-zero” non esiste, che cosa va tenuto aperto il più possibile, salvo il verificarsi di un vero e proprio stato di necessità?». Già: le priorità, le scelte, le visioni del mondo, un’etica. Abbiamo bisogno di ragionamenti, non di atti di fede.
Che insieme alla scuola si siano chiusi teatri e cinema, che si siano annientate tutte le possibilità conviviali, dai concerti alla semplice possibilità di fare sport, anche in questo caso con nessun legame con le modalità di diffusione dell’epidemia, rivela più che una ragionevole preoccupazione per la pandemia una visione del mondo delle classi dirigenti. La stessa modalità di definirle, attività non essenziali ci dice meglio di tanti discorsi quali sarebbero le occupazioni serie di una collettività: lavorare e consumare, in uno scenario ormai anche fisicamente spettrale. Calata la notte, le città italiane sono deserte, in quella che forse è la migliore rappresentazione della «guerra» in corso, con le parole più tipiche che sempre l’accompagnano; è stato necessario, infatti, riesumare il lessico di un “passato maledetto”: assembramento, coprifuoco erano parole di fascisti e questurini, e provoca un certo sgomento sentirle usare oggi, con leggiadra superficialità, da intellettuali terrorizzati.
Cosa si può fare? Ragionare in prima istanza e in maniera disincantata sulle condizioni che hanno permesso o favorito o drammatizzato la pandemia; uscire dalla delirante colpevolizzazione degli atteggiamenti dei singoli individui che cercano di sopravvivere nella paura (non solo ragazzini irresponsabili ma anche anziani a rischio hanno preferito sfidare il contagio piuttosto che isolarsi, privandosi degli affetti più cari); riflettere sulle enormi responsabilità politiche nascoste dal mantra del “meno peggio”, responsabilità politiche indicibili perché dietro l’angolo si staglia il terribile ghigno della becera destra italiana; affrontare i dilemmi dell’ora, ammettendo che l’alternativa “chiudere o non chiudere” è stata del tutto illogica (al limite: cosa, come e quando chiudere?); immaginare le conseguenze di lungo periodo della serrata delle scuole, del sovraccarico delle strutture sanitarie e del burnout del personale; quindi collegare pratiche di alternativa: discorsi, esperienze, sperimentazioni in una visione coraggiosa di discontinuità che ruoti intorno all’etica della cura (non alla legge del profitto), ossia ponendo al centro il bisogno, anziché le gerarchie per classe, genere, etnia ed età.
La pandemia ci sta insegnando una cosa basilare: dopo, se non si è ricchi, abbastanza ricchi, da soli non ci si salverà; il che mal si acconcia con gli effetti di lungo periodo del cosiddetto “distanziamento sociale”, che si traduce appunto in isolamento. È necessario individuare subito strade diverse, all’insegna della prudenza, ma non della paura irrazionale dell’altro. In basso, la paura accompagna la disperazione, che in alto si specchia nel disprezzo classista: verso chi non capisce, non sta a casa, non obbedisce, non crede ai nuovi idoli.
Bisogna individuare altre vie, e se non ci sono, progettarne di nuove. Ma prima, se non è troppo tardi, bisogna accordarsi sulla direzione da prendere e per far ciò prendere parola. Auspichiamo quindi che una prima discussione pubblica possa scaturire da queste nostro contributo.