Umanisti al bivio: un vademecum letterario

Intervista a Carlo Mazza Galanti autore di “Cosa pensavi di fare?”.

Galanti romanzo bivi

Si vive una volta sola e la felicità non è il prodotto di un calcolo contabile.

(Carlo Mazza Galanti, Cosa pensavi di fare?)

 

Cosa pensavi di fare?, uscito nelle scorse settimane per il Saggiatore1, è il primo romanzo pubblicato da Carlo Mazza Galanti, già traduttore, critico letterario e giornalista culturale.

Un giovane appena uscito dal liceo scopre le proprie velleità da intellettuale e osservatore critico del mondo, e si appresta ad affrontare una trafila molteplice di scelte che lo condurranno verso destini professionali, amorosi ed esistenziali più e meno fallimentari. In alcuni casi le sue scelte, infatti, lo renderanno felice, in altri molto meno (e a volte deciderà di accontentarsi). 

Un romanzo che si sviluppa per bivi narrativi sembrerebbe la forma più adatta alla dimensione esistenziale fortemente precaria di chi lavora nel mondo culturale, fatta di brusche curve cieche prese a velocità nella corsa al successo – spesso assente o non eclatante – nonostante nella maggior parte dei casi si abbia difficoltà a vedere chiaramente cosa ci sia dall’altra parte: la tanto agognata stabilizzazione del contratto? Un altro assegno di ricerca? Una carriera promettente negli Stati Uniti? – tutte alternative contemplate nelle pagine, a tratti divertenti a tratti amarissime, del romanzo di Mazza Galanti. Un percorso che, come sa bene chiunque sia nato tra gli anni Settanta e Ottanta e abbia provato a inerpicarsi per questi stessi bivi impervi, è condannato a una certa miopia delle certezze, ma è solidamente sostenuto dal palliativo dell’illusione di una soddisfazione finale certa e meritata. Un noto dramma generazionale su cui il libro invita a riflettere nei suoi meccanismi più automatici e feroci.

Il protagonista, armato di una certa aspirazione ma equipaggiato solo di un’idea fumosa del come, è impegnato nell’urgenza principale di superare la condizione in cui si trova per poi scegliere quella successiva che appare più promettente tra le altre, seguendo la valutazione o il ricalcolo delle sue priorità. Tale valutazione spetta a chi legge il romanzo, proprio come avviene in un vero e proprio libro-gioco o librogame – genere diffuso soprattutto negli anni Ottanta e a cui il romanzo si richiama esplicitamente – basato sullo stesso principio dei giochi di ruolo. In questo caso, capitolo dopo capitolo, chi legge il romanzo sceglie quale svolta narrativa far intraprendere al protagonista, a fronte di due o tre alternative disponibili, sancendone in tal modo un determinato futuro.

La fatica che attende il protagonista a ogni “livello” è nota a chiunque abbia deciso di intraprendere la stessa strada in ambito umanistico (e non solo): abdicare alla felicità, o quanto meno alla serenità, nel presente per appaltarla completamente al futuro, facendo di quest’attesa e del barcamenarsi tra speranza e frustrazione, un lavoro a tempo pieno. Come descrive Mazza Galanti, questa maratona spesso si rivela per il protagonista una caccia ai fantasmi, come la speranza di una paga più dignitosa o di una stabilizzazione contrattuale che compensi lo sfruttamento di un capo o di un intero sistema, come nel caso di quello universitario, che mantiene un controllo di tipo feudale e a cui sottrarsi richiede sforzi e costi spesso insostenibili. Nelle pagine del romanzo, il nostro avatar, prima affascinato, poi confuso, disilluso e frustrato da carriere fallite e relazioni (non sempre, va detto) naufragate, sembra lanciato a gran velocità nella fitta giungla del mercato del lavoro come Alice nella rincorsa del bianconiglio.

Cecilia Cruccolini: Si direbbe che quindi dal 2015 non sia cambiato niente, anzi: il precariato, ancora intatto, è il materiale perfetto per un romanzo che contempla molteplici alternative possibili che coinvolgono non solo il lavoro, ma anche il mondo delle relazioni e dei sentimenti. Se senti di condividere questa premessa, per quale motivo a tuo avviso non sarebbe stato possibile, o forse meno efficace, sviluppare lo stesso materiale all’interno di un romanzo dalla forma più “tradizionale”?

Carlo Mazza Galanti: La forma che ho scelto ha il vantaggio di evidenziare a livello della struttura narrativa il divario esistente tra la responsabilizzazione sempre più incombente del singolo individuo, tra la continua ingiunzione alla scelta e all’autoimprenditorialità, e la scarsità (o la scarsa diversità) oggettiva delle opzioni che si aprono davanti alla maggior parte di noi. L’invito a tirare la monetina o un dado che ogni tanto avanzo al lettore è meno un tributo al caso che un commento sconsolato sul poco spazio di manovra a nostra disposizione. Uso la prima persona plurale perché immagino che i lettori de Il lavoro culturale si trovino in buona parte in una delle situazioni descritte dal libro. È un fatto economico e socioculturale che informa nel profondo molte persone giovani e non-più-così-giovani che vivono oggi nei paesi ricchi, e che in Italia si manifesta con dei tratti peculiari che ho cercato di mettere a fuoco (per esempio la consolante certezza del “mattone”). Le possibili combinazioni presenti nel libro – moltiplicando le soluzioni potenziali di ognuna delle tre parti con quelle delle altre due – danno un numero con nove zeri. Eppure, a vederle da una certe distanza, queste migliaia di combinazioni possibili, ricadono tutte dentro una bolla angusta dove gli esiti sembrano predeterminati. Anche chi cerca di uscire da questo piccolo mondo, ad esempio partendo per paesi “altri” o dandosi alla vita di campagna, in verità si allontana solo di poco dal proprio tracciato. Il racconto a bivi sottolinea ironicamente questa contraddizione tra (l’apparenza di) una libera scelta e il carattere deludente degli esiti. La famosa frase della ex ministra Fornero (“non bisogna essere troppo choosy”) che ho messo in esergo della prima parte, fotografava una evidente condizione di incomunicabilità generazionale e sembrava involontariamente ironizzare sulla libertà non richiesta (o naturalizzata, e quindi percepita come un dato di fatto) che caratterizza chi è nato e cresciuto nella fase neoliberista del capitalismo. Oggi il Covid, se da una parte sta ridando spazio alla dimensione pubblica e statale, dall’altra mi sembra stia funzionando come acceleratore di certi processi di isolamento e precarizzazione che già esistevano. Siccome il mio libro non è un saggio ma vuole essere letterario, era importante per me che esibisse la propria letterarietà in maniera plastica e quindi formale. La costruzione a bivi è stato il modo in cui ho cercato di ragionare diciamo artisticamente sull’identità narrativa nella nostra epoca: chi siamo, cosa vogliamo, come ci raccontiamo la nostra storia.

C.C.: Volendo rintracciare possibili riferimenti, e andando più indietro rispetto ai librigame degli anni Ottanta, la struttura del libro richiama il Borges de Il giardino dei sentieri che si biforcano, ma anche gli esperimenti letterari dell’OuLiPo (Officina di letteratura potenziale), il movimento nato nel 1960 in Francia da Raymond Queneau e François Le Lionnais che auspicava la creazione di romanzi a partire da tecniche di ispirazione matematica. Vita, istruzioni per l’uso di Georges Perec è il testo-simbolo di una delle idee fondamentali del gruppo, quello di romanzo come macchina creatrice di storie. Un’altra idea abbastanza simile – e certamente non l’ultima elaborata nell’ambito di questo genere di riflessioni – a cui rimanda spesso la lettura del tuo romanzo è quella de La città assente di Ricardo Piglia in cui il mistero è alimentato dalla scoperta di una macchina, un generatore di storie, inventata da Macedonio Fernández. In quest’ultimo caso la macchina produce una cartografia alternativa di Buenos Aires e leggendo Cosa pensavi di fare? si percepisce chiaramente che una metafora cartografica ben si adatta alla proliferazione di svolte intraprese dal pedone-avatar protagonista del libro. 

C.M.G.: La città assente non l’ho mai letto ma lo possiedo nell’edizione Sur e ora che me ne hai parlato credo proprio che sia arrivato il momento di leggerlo. I miei scaffali sono pieni di libri che aspettano, magari per anni, la giusta combinazione di stimoli per essere letti. Quindi grazie di avermi fornito l’occasione. Sulla cartografia ti potrebbero rispondere le mappe dei percorsi che ho messo alla fine di ogni sezione del libro. Le ho disegnate a matita (mi servivano per controllare la coerenza delle possibili combinazioni) e i grafici del Saggiatore le hanno trasformate in una disegno preciso, schematico, squadrato, la cui ortogonalità ricorda un circuito elettrico o la piantina di una metropolitana più che un viluppo di rami o un albero della vita (per inciso quella dell’albero della vita è forse la matrice iconografica del mio progetto – uno dei momenti esteticamente più esaltanti della mia vita è stato quando per la prima volta ho visto, anzi ho camminato sopra, il mosaico di Otranto). Mi piacciono molto quei grafici. Oltre a servire al lettore per orientarsi, mi sembra che rappresentino icasticamente, come dicevi tu, una specie di mappa sintetica delle opzioni esistenziali a disposizione del o dei protagonista/i. L’idea di racchiudere in poco spazio un mondo, un “cosmo”, è antichissima, forse vecchia quanto l’uomo. Come l’albero della vita, appunto, o tutti quei teatri, edifici, grafici, che cercavano di rappresentare visivamente l’universo attraverso uno schema combinatorio e di cui parla la Yates nel suo bellissimo libro sulle arti della memoria rinascimentali. Nel mio piccolo, credo di avere provato un piacere di quel tipo a mappare le vite contenute nel libro, a vedere l’universo del mio protagonista ridotto sinotticamente a un garbuglio di traiettorie combinabili tra loro.

C.C.: Tornando alla tradizione francese, tra gli obiettivi dell’OuLiPo era presente anche una riflessione metaletteraria, una messa alla prova giocosa e radicale dell’idea tradizionale di romanzo, condotta però secondo un rigore che voleva essere quanto più scientifico e consapevole possibile, indirizzato verso quelli che venivano riconosciuti come i limiti del genere, ossia una trama lineare e una forma chiusa con un unico e univoco finale. Il romanzo andava dunque preso ed espanso, il suo sviluppo centrale sfilacciato in nuove diramazioni impreviste e perfettamente controllate. L’esito più eclatante è stato quello di aver contribuito a smantellare una convinzione fondamentale che andava al di là del romanzo e cioè quella di un unico possibile universo di senso, di un unico sviluppo possibile dell’esperienza umana. Queste riflessioni sono state in qualche modo presenti, prima o durante la stesura di Cosa pensavi di fare? In che misura ti ci riconosci?

C.M.G.: La metaletterarietà di matrice avanguardista e neoavanguardista è qualcosa che ho frequentato da lettore e critico. Poi me ne sono abbastanza distaccato, ma il mio libro evidentemente risente di quelle influenze. La dimensione “ergodica” come si dice, il coinvolgimento del lettore nell’assemblaggio della trama, la struttura mobile o modulare, ovviamente tutto questo induce a una riflessione su come è fatta una storia, sull’idea di “opera aperta”, sulla costruzione dell’identità narrativa di un personaggio eccetera. In questo caso la dimensione metanarrativa ha, o vorrebbe avere, un valore esistenziale e sociologico. Anche altri livelli del testo giocano metaletterariamente con gli schemi e le strutture classiche del romanzo: a livello autoriale per esempio, certe ambiguità autobiografiche presenti nel testo, oppure alcune “mise en abyme”, come la presenza del libro stesso all’interno del libro (a un certo punto il personaggio si dedica alla scrittura di un romanzo sul precariato). Certe simmetrie tra una sezione e l’altra determinano rimandi e “rime” che a loro volta portano l’attenzione del lettore sulla struttura. Una volta che intraprendi la costruzione di un testo narrativo su una base così ludica e artificiosa come quella del librogame poi, come dire, un gioco tira l’altro, vengono quasi in automatico. Il protagonista stesso a un certo punto si mettere a fare giochi linguistici con i romanzi che traduce: una specie di sfogo o vendetta contro un lavoro divenuto ingrato e che, per estensione, potrebbe alludere al fatto che il gioco della vita rappresentato dal libro che il lettore ha in mano è a sua volta una sorta di compensazione per l’amarezza della vita vissuta (se parliamo di un lettore “fraterno”, ovviamente). I librigame tradizionali prendevano elementi standard di trame fantasy, storiche, poliziesche ecc., e li ricombinavano, o meglio ti permettevano di farlo. Il mio libro innesta sulla struttura combinatoria una serie di altri tricks letterari che lo immergono in una dimensione ancora più artificiosa. Allo stesso tempo non volevo assolutamente fare un’opera radicalmente sperimentale. Molta letteratura d’avanguardia è interessante ma noiosa, a volte è troppo formalista, mentale, opaca. Io desideravo scrivere un libro non ostico, nei limiti delle mie possibilità e di una forma narrativa così poco ortodossa. Non credo che venderò molte copie, ma spero di essere riuscito in quell’intento.

C.C.: In Cosa pensavi di fare? è evidente un lavoro puntuale sulla lingua: lo stile è asciutto, misurato, e l’esattezza lessicale non lascia spazio a perifrasi articolate o stratificazioni. Elementi che combinati all’indicativo presente, col quale restituisci a mo’ di resoconto gli esiti e le conseguenze delle svolte intraprese dal protagonista, contribuiscono a evidenziare un senso di inevitabilità tragica, come se le scelte disponibili dessero soltanto l’illusione di un libero arbitrio, giungendo al paradosso per cui l’esistenza di chi ambisce a lavorare nel mondo culturale sia ridotta a un parossistico gioco a scommessa. Questo aspetto contribuisce all’originalità del romanzo, che riesce anche ad alternare un livello più apertamente comico-grottesco a uno più tragico, restituendo a chi legge una narrazione vitale, autoironica e antiretorica. Ci sono stati riferimenti particolari per le tue scelte stilistiche?

C.M.G.: Ti ringrazio per la vitalità che riconosci nel libro. Perec resta per me sempre un punto di riferimento fondamentale (anche stilistico) in questo genere di narrativa, come Calvino, Cortázar e altri scrittori capaci di conciliare umorismo, profondità, immediatezza e originalità formale. Forse alla base di tutto c’è quella tradizione settecentesca rappresentata da autori come Sterne e Diderot, quando il romanzo borghese ancora non si era cristallizzato nelle sue forme tipiche ottocentesche (“monologiche” come dice Moretti) e la scrittura narrativa poteva permettersi di essere molto più polimorfa e bizzarra di come è poi diventata, salvo appunto darsi allo “sperimentalismo” e quindi condannarsi alla marginalità. Anche Orlando della Woolf, che cito in esergo, appartiene esplicitamente a questa famiglia di libri. Chi dalla Woolf si aspetta impegnativi flussi di coscienza e abissali apnee d’introspezione si stupisce di fronte a un romanzo così lieve e allo stesso tempo così strano e intelligente. Sull’asciuttezza dello stile ho ricevuto critiche di segno opposto: per lettori meno letterati lo stile è fin troppo complesso e ornato. Non so se l’asciuttezza di cui parli sia direttamente funzionale al senso d’ineluttabilità che attraversa il libro. Personalmente ho l’impressione che avrei potuto spingermi molto oltre nell’elaborazione stilistica, cosa che magari avrò modo di fare in futuro, ma di nuovo, considerato il già alto tasso di artificiosità del testo ho preferito mantenere un profilo linguistico basso, non trascurato (cesellare ho cesellato) ma neppure troppo complesso. Il mio scopo non era di ritrovarmi con in mano una cosa simile a quel cono di metallo alieno del racconto “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius” di Borges, piccolo ma pesantissimo e incomprensibile. Preferivo immaginare “Cosa pensavi di fare?” come un manuale di sopravvivenza, o un vademecum per lavoratori culturali: un testo con una certa funzione, anche se non è chiarissimo quale: forse consolatoria.

C.C.: In alcuni punti, soprattutto quelli riguardanti le relazioni con le donne, lo stile asciutto marca in maniera deliberata le svolte più ciniche del protagonista. C’è un discorso di genere sotteso nel romanzo?

C.M.G.: È una coincidenza che mi fai notare tu per la prima volta, non l’ho fatto coscientemente. Non so se si possa dire che la parte sull’amore/sesso sia gender-oriented, il grosso del racconto è sulle peripezie di un maschio bianco eterosessuale medio o medio-alto borghese osservate dal suo unico punto di vista. Manca completamente il punto di vista femminile. È però vero che l’individuo precarizzato e quindi costretto a reinventarsi di continuo potrebbe essere un modo di definire lo sfondo sociologico ed economico di una incertezza che si riflette anche nei ruoli di genere. Alla mancanza di un terreno solido professionale, e poi (o prima) politico, si aggiunge questa dimensione sentimentale incerta e ondivaga. Coppie che scoppiano o che non riescono a stare bene insieme (perché per esempio lei pretende da lui degli impegni domestici che prima erano appannaggio solo della sfera femminile), bulimia sessuale e anoressia emotiva, sperimentazioni non andate a buon fine, mancata percezione di una chiara collocazione e/o funzione della coppia nella società e degli individui nella coppia (per esempio le difficoltà espresse dal personaggio a trovare un nome per definire la donna con cui sta: compagna? fidanzata? ecc). Non offro una lettura molto euforica della faccenda, ma per esempio il finale in cui il protagonista fa coming out mi sembra uno dei più allegri (e gender) del libro. È chiaro però che l’accento è messo più sulle disfunzioni delle educazioni sentimentali e dei rapporti tra i generi in una società post-tradizionale come la nostra. Le trasformazioni del lavoro e le nuove tecnologie finiscono di realizzare modelli relazionali sempre più effimeri, mutanti, mediati e provvisori, basati su idee e pratiche vicine a quelle che regolano gli scambi mercantili (perciò mi è sembrato giusto che anche la prostituzione fosse rappresentata all’interno del libro). La riflessione gender, se c’è, nel mio libro si colloca a questo livello.

C.C.: Leggere nel 2020 un romanzo a bivi non può non coinvolgere anche un pensiero sulla serialità: oggi vediamo chiaramente quanto la serie tv abbia fatto propria la messa in crisi delle forme tradizionali di narrazione, modulando con estrema duttilità strategie e premesse, spesso sfidando lo spettatore con nuovi compromessi interpretativi. Qual è la tua idea di questo rapporto in senso più ampio e generale, anche rispetto al gaming? Bandernatch, l’episodio interattivo della serie Black Mirror viene subito in mente in questo gioco di influenze e rimandi tra una tradizione di letteratura potenziale, serialità e videogame. 

Inoltre, qual è la tua percezione del rapporto tra questi linguaggi e del futuro di questo rapporto? Dovremmo aspettarci che diventi sempre più frequente e pervasivo, o costituisce un “trend” destinato a esaurirsi per lasciare spazio ad altro?

C.M.G.: Bandersnatch era interessante come esperimento ma non credo avrà un grande seguito. Lo streaming è (ancora) tecnologicamente poco adatto a un formato che richiede continui avanti e indietro. Molto meglio li libro, molto più ergonomico in questo senso. Le serie tv non mi pare che implichino molta più interattività dei vecchi romanzi d’appendice pubblicati a puntate: di fatto sono film più lunghi, e spesso la lunghezza si paga con la diluizione e la grossolanità: credo che molte serie sarebbero decisamente più belle se fossero più brevi. Altro discorso sono i videgiochi e su questo bisognerebbe scrivere una biblioteca, anzi immagino che già parecchia letteratura sia stata prodotta al riguardo. Di sicuro la fantascienza ragiona molto su questo mondo, come appunto Charlie Brooker, l’ideatore di Black Mirror. O Cixin Liu, il più famoso autore cinese di fantascienza, che nella sua “Trilogia dei tre corpi” immagina degli invasori alieni che indottrinano gli umani attraverso un videogioco. I videogiochi interessano un volume d’affari doppio rispetto al cinema (oggi col Covid e la crisi del cinema forse è diventato il quadruplo), e implementano nella nostra società una serie di tecnologie e modalità d’interazione che stanno letteralmente cambiando il modo di stare al mondo. Non a caso si parla di “gamification” anche riguardo alle piattaforme on line, o alla soluzione “smart” della vita aziendale. Si tende ad attribuire punteggi, premi, incentivi, posizionamenti, avatar digitali, a coinvolgere l’utente o il dipendente dandogli l’impressione di “giocare” e facendo in modo che si percepisca come il protagonista di scelte che in verità sono eterodirette. Volendo, il mio librogame potrebbe essere visto anche come una riflessione su queste dinamiche. Ma l’interattività digitale è il mondo 2.0, e in questo mondo la letteratura sopravvive come un ricordo lontano, la vecchia matrice di uno storytelling ormai piegato alle funzioni più varie, tutte però convergenti verso l’interesse dei soggetti economici coinvolti: nel caso del web, un oligopolio che controlla buona parte dell’ambiente virtuale. Ci si dice che per forza verrà fuori l’equivalente di Proust o di Joyce dei videogiochi, basta aspettare. Magari già esiste e non lo sappiamo. La mia impressione però è che il videogioco sia troppo “embedded”, troppo coinvolto nel sistema economico e nei rapporti di potere esistenti per concedere all’autore o agli autori (la stessa idea di autorialità mi sembra poco pertinente in quest’ambito) lo spazio di autonomia necessario alla creazione di quello che pensiamo quando usiamo la parola “capolavoro”. Più che grandi opere d’arte, ho l’impressione che dai videogiochi usciranno modi di esistere, come si gioca alla socialità di Facebook o di Instagram o di Tik Tok, ogni piattaforma con le sue regole specifiche, con i suoi giochi e giochetti, con i suoi vincitori e perdenti, con i suoi modelli più o meno coercitivi e capaci di determinare l’idea che ci facciamo di noi e degli altri. Il che è in un certo senso un esito molto più radicale. Il problema è di nuovo che queste regole sono tutte funzionali al principio della massimizzazione del profitto e gli strumenti di ideazione e realizzazione sempre più controllati da pochi soggetti dotati di poteri immensi. L’interattività del web oggi è soprattutto forza lavoro non pagata, data mining, e nuovi vettori di consumo e condizionamento. Se la letteratura ha avuto qualche ruolo in questo sviluppo, di certo non era previsto né credo desiderato.

Galanti romanzo bivi

 

 

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Note

  1. Inizialmente apparso come articolo su un numero di Aut Aut dedicato al lavoro intellettuale durante il neoliberismo, e riproposto interamente da Minima&Moralia.
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