Il Neobarocco. Appunti per domani

Pubblichiamo in anteprima alcuni estratti della postfazione di Stefano Jacoviello a “Il Neobarocco” di Omar Calabrese (La Casa Usher), che raccoglie le ricerche pubblicate in “L’età neobarocca” (1987), “Mille di questi anni” (1991) e gli inediti sulle evoluzioni dell’ultimo decennio

Malattia propria alle civiltà troppo complicate quella di languire dietro gli incanti dell’innocenza. […] Tutta la storia umana può essere intesa come un itinerario doloroso dall’innocenza che ignora all’innocenza che sa.

(Eugenio D’Ors, Du Baroque, 1936)

Nella produzione di Omar Calabrese la riflessione sul neobarocco sembra costituire un filone di ricerca a sé stante, apparentemente distante dall’interesse per la semiotica delle arti, tanto che i giornali gli avevano addirittura attribuito con una certa faciloneria la qualifica di “sociologo”. Eppure dietro l’edificio del neobarocco si celano, nemmeno così profondamente, le pratiche tipiche del semiologo. Dietro le quinte della divulgazione e dell’attività pubblicistica, lontano dalle incombenze di creativo per le aziende o di operatore della comunicazione, Omar riusciva a ritagliarsi uno spazio dedicato a elaborare una stilistica su basi semiotiche, orientata a studiare il modo in cui una cultura, sulla base di regole profonde rilevabili attraverso l’analisi dei testi, esprime il senso del mondo attraverso le forme del discorso. Dal loro assetto, sempre relativo a un “punto di vista”, traspare la presenza di un soggetto. Lo stile implica i tratti virtuali della sua competenza, le sue inclinazioni passionali, il suo modo di essere nella trama dei dispositivi discorsivi.

Piuttosto che meditare filosoficamente su un’immagine “orfana” del mondo che l’ha generata, Calabrese sceglie la strada dell’analisi, considerando la superficie del visibile come territorio da esplorare per scoprire il mondo che si cela al suo interno: un universo di forme in relazione che, una volta individuate, contribuiscono pezzo per pezzo alla ricostruzione del modello culturale che contiene le condizioni per cui quell’immagine può essere interpretata, ricordata, consumata. Diversamente dalle occasioni in cui si occupava di pittura (comunque da lui sempre considerata in quanto dispositivo della rappresentazione nel quadro teorico di una storia dell’arte intesa come storia delle idee), quando si è trattato finalmente di affrontare in campo aperto “la Categoria” [ del Barocco, n.d.r. ], Calabrese ha deciso di liberamente scavalcare gli steccati che allora sembravano ancora vigenti fra gli studi delle cosiddette semiotiche dei linguaggi specifici. Senza temere di porgere il fianco ad eventuali accuse di dissennato postmodernismo, non si è posto problemi di merito che distinguessero le opere d’arte dai prodotti di intrattenimento, gli assiomi del senso comune dai teoremi matematici, le profonde riflessioni sui temi etici dal moralismo più becero e convenzionale: sono tutte evidenze di un savoir faire, sintomi di un complesso sistema del sapere che si nasconde nel disordine degli oggetti e degli avvenimenti, ma sovrintende attraverso i suoi dispositivi al funzionamento della cultura. In termini foucaultiani, sono tutte espressioni riconducibili alle forme di un Discorso, e ne manifestano l’ordine[1].

[…]

Subito dopo la sua uscita, L’età neobarocca aveva avuto un successo strepitoso anche fuori dall’Italia, forse perché già prefigurava la tendenza di un gusto che si stava facendo globale. Lo spirito di quella riflessione era stato accolto ben oltre le sue implicazioni teoriche, e Calabrese aveva per giunta rischiato di essere etichettato come l’inventore di un marchio piuttosto che l’ideatore di un concetto, sinceramente non sempre compreso fino in fondo.

Tuttavia, Omar si era accorto fin da subito che, nonostante la pregnanza di quel modello interpretativo, il suo modo di pensare aveva giocato con la storia, e che quelle categorie avrebbero presto avuto bisogno di un adeguamento. Mille di questi anni, pubblicato qualche anno dopo, era già lì a segnalarlo. Calabrese sarebbe tornato su L’età neobarocca ponendolo al centro dei corsi universitari del 1996 e del 2003, che avevano lo scopo di misurare lo stato di salute di quell’idea mettendola alla prova della ricezione degli studenti.

Ma la trasformazione che avrebbe messo in crisi non tanto quel modo di pensare quanto il sistema dei suoi riferimenti sarebbe avvenuta solo negli anni più recenti, presentando i segni di una degenerazione che lui sentiva il bisogno di descrivere.

[…]

Il sistema culturale sembra dunque tendere rapidamente verso un punto di catastrofe che lo trasformerà radicalmente. Forse, a questo punto del racconto, Calabrese comincia a temere che questa mutazione generale possa rendere ad un tratto incomprensibile quel modo di pensare che nel tempo si era così tenacemente embricato al suo modo di stare al mondo. Tenta allora di fare un’estrema sintesi di ciò che è accaduto nel mondo dell’arte e del design, in un modo che però non ha più il tono dell’indagine, ma piuttosto ricorda la maniera di chi infila nel bagaglio le poche cose care a portata di mano, prima di fuggire durante il terremoto.

Le sue panoramiche sono implicite meditazioni sul corso di eventi a cui lui ha partecipato attivamente. Sono un tentativo di saldarne il ricordo prima che vengano dimenticati, e anche la base per un’intima interrogazione sulle loro conseguenze. Lui che aveva guardato con una certa meraviglia l’avvento dell’estetica di massa profetizzata da Majakovskij, ora è costretto a chiedersi se il predominio dilagante del gusto non conduca oltre la trasformazione delle categorie estetiche dovuta all’avvento della riproducibilità tecnica, e porti alla fine dell’arte.

[…]

Nel 1991, all’epoca del primo “ritorno”, o forse del diretto proseguimento de L’età neobarocca con Mille di questi anni, per Omar il valore dell’apparenza non era ancora un dato negativo: era il sintomo di una «nuova sensibilità barocca che nelle apparenze ritrova il mondo della complicazione contro quello della semplificazione delle strutture elementari, e lo spirito festivo contro le leggi della razionalità vigente»[2]. Queste parole raccolgono tutta l’eredità degli anni Sessanta.

«Il vero libertino è colui che rende interessante la propria esperienza sensoriale, è colui che la rende estetica»[3], e coloro che erano ormai divenuti maturi quarantenni, come nuovi libertini, miravano a conferire un valore estetico a qualsiasi forma di visione che avvenisse attraverso o intorno ai media. Quei giovani allo stadio avanzato avevano tentato di trasformare il mero edonismo di quegli anni in un più raffinato libertinismo, e mentre i Matia Bazar resuscitavano dal baule del modernariato le Vacanze Romane con suoni elettronici mescolati a una voce da soprano, Giuni Russo cantava su armonie mutevoli: «Voglio andare ad Alghero in compagnia di uno straniero, le corse sfrenate su moto cromate di sera d’estate. Musica, la sabbia è musica, cristalli scintillanti sulla pelle che colorano un tramonto caldo e mitico… Che scandalo da sola ad Alghero!»[4].

Ma in questa profusione di piaceri Omar aveva avuto modo di registrare che la vita di quelle forme simboliche stava giungendo all’ultimo stadio di sviluppo, quello della moda che segue il consumo immaginario dello spettacolo di massa ed è diretta ad assorbire la diversità nei canoni di un gusto codificato. Nelle pratiche di consumo culturale della fine degli anni Ottanta si annidavano le origini dell’anestesia “estatica” che diverrà presto dominante.

Se nel 1991, prima dell’ondata penitenziale di “Mani pulite”, la domanda di successo appariva ad Omar come il sintomo di «una rinnovata fiducia nell’individuo di fronte alla collettività, una inedita esigenza di soggettività, e persino un generale bisogno di giustizia»[5], nell’ultimo anno della sua vita è giunto a dover rielaborare tutto, addolorato dalla diffusione del successo senza merito.

Oggi all’affidabilità e scrupolosità dell’individuo preparato si sostituisce la scaltrezza, la prontezza, la sfacciataggine, la volubilità, l’arte di dissimulare la menzogna: le qualità tipiche del professionista di successo. Con ciò le armi di Gracián appaiono ormai spuntate.

Se il merito è per sua natura “misurabile” sulla base di criteri espliciti e condivisi (cosa che serve a rendere valida un’oggettività che può essere solo presunta), il successo invece è autoevidente, e si valuta solo in termini assoluti: o c’è o non c’è, e poco importano le motivazioni. Il successo, che pure si dà a vedere, è paradossalmente cieco. È sinonimo di fortuna, che, si sa, «velut Luna, statu mirabilis…», parodiando la sapienza medioevale dei Carmina Burana cui D’Ors avrebbe riconosciuto i caratteri del barocco[6].

Anche coloro che potevano eventualmente vantare dei meriti si adeguano progressivamente al ricatto del successo, cercando il consenso assoluto alla rincorsa delle aspettative “popolari”, preferendo stimolare sensazioni negli interlocutori invece di provare a convincerli con il ragionamento. Affidando tutto al sentiment – termine orribilmente rubato all’inglese, oggi particolarmente in voga presso i sondaggisti – e relegando l’etica e la verità nelle stanze polverose dei più validi ricercatori che popolano le università italiane dimenticate: loro sì, vero modello di insuccesso, addirittura beffati dalla nuova ideologia del merito.

[…]

Il contrasto fra la fiducia nella nascita di un mondo nuovo che aveva caratterizzato l’attesa del Duemila e il sospetto sulla degenerazione di un’epoca si è risolto con la vittoria del secondo sentimento sul primo. Il Tempo è sopraggiunto per somministrare il disinganno.

La consapevolezza di un necessario ribaltamento dei criteri di giudizio non implica tuttavia l’idea di un fallimento del metodo, e neppure segnala un cedimento alle tentazioni del nuovo realismo. La domanda che Omar si pone, anche di fronte alla cupa degenerazione del neobarocco, è la stessa: nel momento in cui osserviamo una supremazia dei valori estetici sull’ordine dell’universo culturale, dobbiamo chiederci ancora che fine hanno fatto i valori etici e di verità. La previsione di trovarli da qualche parte, anche sotto le macerie dell’ “etichetta”, grazie alla fiducia in quel “modo di pensare”, è l’unica cosa che alimenta la certezza in una possibile rivincita.

Come Gracián e D’Ors, anche Calabrese era stato in qualche modo partigiano del fenomeno che lui stesso stava contribuendo a definire e spiegare. Ma sul finire di questa sorta di romanzo autobiografico, che narra in prima persona la storia di un punto di vista sul mondo, il protagonista riprende la giusta distanza. Giunto all’epilogo del suo percorso di vita e ricerca – che forse raramente hanno coinciso così tanto in un uomo, negli aspetti più intimi quanto nei comportamenti esteriori – Omar è disilluso, ma non vinto.

Lo dimostra il suo ritorno all’impegno politico. Ma ancora di più la voglia di spingere la ricerca verso un ulteriore e forse definitivo affinamento degli strumenti analitici elaborati finora: il progetto di un’iconologia analitica; una semiotica dell’immagine che fin dai suoi fondamenti andasse al di là dei limiti del visivo; una stilistica semiotica che servisse a descrivere, interpretare e spiegare le forme degli oggetti culturali, provando ad esaudire il richiamo della vocazione scientifica di una disciplina – la semiotica – che aveva già rischiato troppe volte di affogare nell’eccesso dei dettagli descrittivi e nella superfetazione di un metalinguaggio finito per somigliare al sistema autistico di una macchina celibe.

Con la solita apertura e generosità, Omar avrebbe percorso questi ultimi passi con i suoi allievi, facendo tesoro del patrimonio delle loro ricerche stimolate con vivo interesse e seguite “da lontano”, senza mai esercitare alcuna autorità, presentandosi sempre come una voce con cui dialogare, confidarsi, condividere le perplessità e sostenersi a vicenda nella fatica che accompagna ogni lavoro. Sempre insieme.

Sono sicuro che, costretto a lasciarci, avrebbe voluto consegnarci queste ultime pagine disordinate come appunti per domani, brevi cenni per rammentare cosa c’è ancora da fare, senza il tono elegiaco di un testamento. Piuttosto, come lo schizzo di un progetto che nel suo farsi, e proseguendo, l’avrebbe tenuto in vita, anche dopo la sua scomparsa. Alle sue domande oggi tocca a noi rispondere, con quello che avremo da dire, con quello che verrà.

[Qui il saggio di Umberto Eco contenuto ne Il neobarocco]

[1] Michel Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972.

[2] O. Calabrese, Mille di questi anni, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 12.

[3] Ivi, p. 170.

[4] Alghero, testo di Giuni Russo, musica di Maria Antonietta Sisini, 1986.

[5] O. Calabrese, Mille di questi anni, cit., p.7.

[6] Anonimo, “O fortuna”, Carmina Burana, XII secolo.

[7] Omar Calabrese, “A sinistra risponde uno squillo”, in Alfabeta2, n°17, a. III, marzo 2012.

 

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