Liturgie di confine e complicità al ponte Allenby

Recentemente ho attraversato il King Hussein/Allenby Bridge per la prima volta nella mia vita. Il ponte, situato tra la Giordania e i Territori Palestinesi Occupati (TPO), è considerato un confine dal governo israeliano, che avanza pretese su tutta la Cisgiordania, ma non dalle autorità giordane, che lo considerano il risultato dell’occupazione militare israeliana post-67.

Tuttavia, i giordani cooperano alla sua gestione portando i viaggiatori in pullman al lato israeliano, coordinandosi con le autorità israeliane e condividendo informazioni circa l’identità dei viaggiatori con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e le forze israeliane. Di conseguenza, il confine al ponte Allenby ha una natura particolarmente ambigua, poiché nonostante una delle due parti coinvolte non lo riconosca, le “liturgie” burocratiche implicate nell’attraversarlo lo rendono una reale delimitazione territoriale, politica e fisica.

Ho iniziato a prepararmi per attraversare il ponte settimane prima, cercando informazioni e chiedendo consigli ad amici che hanno condiviso con me loro esperienze. Mentre mi domandavo come avrei dovuto relazionarmi alle autorità israeliane e sospendevo il mio account Facebook, mi chiedevo quale fosse la relazione tra l’attraversare quel confine e il normalizzare l’occupazione, e quali ne fossero le possibili conseguenze, rilevanti per me in quanto anti-razzista e a favore del BDS come metodo di lotta contro l’occupazione. Tuttavia, ero anche determinata a passare quel confine: non solo avrei dovuto partecipare ad una conferenza a Ramallah ma anche incontrare amici e colleghi, e non volevo perdere l’occasione di farlo.

Il mio desiderio di attraversare il ponte era forte ma in conflitto con la preoccupazione di riprodurre il confine – contestato e gestito da una forza occupante – riconoscendo l’occupazione. Dopo averlo con successo attraversato, ho riflettuto a lungo sulle liturgie coinvolte nell’intero processo dell’”attraversamento” e sul comportamento umano che ne consegue.

Burocrazia e liturgie

Negli ultimi anni, i “border studies” hanno offerto riflessioni importanti su che cosa rende i confini tali: non solo politiche sicuritarie e recinzioni militarizzate, ma anche gli esseri umani che attraversano le frontiere partecipano attivamente a renderle tali. Una miriade di tecnologie di governo concorrono nel produrre confini a capacità di inclusione differenziale, mentre liturgie burocratiche pervasive producono legalità e illegalità, introducendo un instabile elemento di definizione della vita dei migranti. Burocrazia e liturgie permettono – o impediscono – di attraversare i confini, fornendo la necessaria legittimità per farlo attraverso i documenti. Esse controllano e gestiscono la paura; questa si può diminuire o accrescere a seconda delle circostanze e i soggetti.

Mentre teoricamente i giordani non considerano il ponte Allenby un confine, le liturgie burocratiche presenti ricordano a tutti che “questo è un confine”. Le autorità giordane collaborano alla gestione dei soggetti “in attraversamento” dal 1994 a seguito degli accordi di Oslo, esaminando la loro identità e condividendo informazioni con gli israeliani. Anche l’ANP è coinvolta nella circolazione di informazioni, e controlla gli ingressi presso il confine dell’area A a Jericho. Palestinesi e giordani possono arrestare i soggetti sospettati di mettere in pericolo Israele, come previsto dagli accordi di Oslo. Dal lato israeliano, allo stesso modo, i controlli di sicurezza sono centrali nell’esperienza dell’attraversamento. Razza e nazionalità sono elementi fondamentali. Mi è stato raccontato di un turista cinese respinto perché si temeva potesse stabilirsi e lavorare illegalmente in Israele. Questo mostra come, al di là delle tristemente note discriminazioni verso arabi, musulmani e palestinesi, il race profiling abbia ricadute più ampie, che ne confermano la centralità nello screening dei passeggeri.

Tra i compiti della Giordania vi è quello di trasportare i passeggeri al terminal israeliano, funzione che si traduce nell’aspettare il “via libera” degli israeliani. I due terminal sono divisi da 5 km di no man’s land, ricordo della guerra del 1967, che si attraversano esclusivamente con bus organizzati e guidati dai giordani. Ma prima, le autorità giordane “razionalmente” gestiscono i passeggeri, dividendoli per nazionalità. Stranieri e giordani sono separati dai palestinesi – ovvero coloro in possesso di un documento di identità rilasciato dall’ANP. Questi sono obbligati ad attraversare Allenby per entrare in Cisgiordania dal 2000, quando è stato loro vietato il transito via Ben Gurion per ragioni di sicurezza.

Inoltre, anche i palestinesi con doppia nazionalità e due passaporti sono obbligati a questo tragitto, poiché Israele riconosce loro unicamente il documento rilasciato dall’ANP. I palestinesi sono trasportati al terminal israeliano dalle 7 di mattina, mentre gli stranieri e i giordani dalle 10. Tuttavia, il tragitto dura spesso di più per i palestinesi, e molti riferiscono attese eterne negli autobus.

Mariam Barghouti riflette sulla “complicità giordana” nel generare, e perpetuare, la sofferenza palestinese attraverso condizioni di viaggio impossibili, che ricordano ai palestinesi la loro impotenza, e commenti circa la libertà di movimento. Uno, in particolare, è siginificativo: “Perché venite tutti qui?” chiede un soldato giordano a una donna palestinese. “Non potevate rimanere in Cisgiordania? Sarebbe stato più comodo per tutti”, continua, “ironicamente” riferendosi alle diverse ondate di immigrazione palestinese (post-48 e post-67) in Giordania e volontariamente ignorando che per i palestinesi, il restare o andarsene non è una scelta.

Per i palestinesi anche il processo di screening dei documenti è molto delicato. Dal 1994, i giordani e l’ANP sono de facto co-responsabili della protezione di Israele, in nome della quale possono arrestare i viaggiatori. Come Weizman scrive in Hollow Land, lo scopo di Allenby non è disciplinare i passeggeri palestinesi, bensì gli agenti giordani e dell’ANP. Infatti non è il passeggero palestinese, ma l’agente giordano o palestinese che ha dovuto interiorizzare la disciplina derivante dall’essere sotto lo sguardo degli addetti alla sicurezza israeliana.

Dal lato israeliano, le liturgie del confine avvengono in un ambiente diverso, più ordinato e pulito. Sulle pareti del terminal ci sono molte porte che si aprono su piccole stanze per gli interrogatori. I documenti di identità e i permessi di residenza hanno qui un ruolo centrale.

Adi Ophir, Michal Givoni e Sari Hanafi svelano come la burocrazia israeliana sia un sistema che normalizza la subordinazione dei palestinesi, che devono produrre in continuazione permessi per viaggiare, attraversare il muro, prendere residenza, lavorare, andare a scuola. Tutte le attività dipendono dalla capacità di produrre documenti, che sono gli strumenti attraverso cui avviene l’esproprio della terra, del controllo sul tempo e la libertà di movimento.

Ad Allenby, i palestinesi sono divisi a seconda della loro residenza (Gerusalemme, Cisgiordania) ma ugualmente non controllano il processo che li attende – al punto che è noto che in questo terminal avviene ogni tipo di sopruso. Le lunghe code sono sorvegliate da personale composto prevalentemente da giovani donne che esercitano uno stretto controllo sulle persone in coda e il loro comportamento.

Il non essere allineati o il non lasciare abbastanza spazio tra l’inizio della coda e lo sportello di controllo documenti sono comportamenti sanzionarti. Così può succedere che uno sportello venga chiuso come punizione per una coda disordinata: considerando che l’impiegata ha esclamato che “dei cani saprebbero fare la coda meglio” e che le code intorno hanno dovuto accogliere altri viaggiatori, questo episodio ha creato enorme tensione e riaffermato chi detiene il monopolio del tempo. Inoltre, esso ha anche mostrato che la burocrazia non è meramente una tecnologia atta a controllare i palestinesi, bensì uno strumento che all’occorrenza crea incertezza con lo scopo di ampliare la portata di tale controllo.

Che serve per attraversare il ponte?

Preparandomi per Allenby, ho chiesto ad amici e conoscenti di condividere la loro esperienza, rendendo il mio viaggio un’impresa collettiva attraverso cui frustrazione e paura sono state messe in comune ed esorcizzate. Ho scoperto che non esistono schemi a cui si può far riferimento per sapere cosa fare e cosa no.[1]

Il processo è estremamente arbitrario e cambia a seconda delle persone coinvolte. Infatti, il terminal di Allenby è anche un centro di formazione per il personale di sicurezza, una palestra dove testare o “migliorare” tecniche di interrogatorio. Non avevo idee chiare sul come intendevo relazionarmi alle autorità israeliane. Volevo attraversare il ponte a qualsiasi costo, ma allo stesso tempo mi sentivo a disagio nel silenzare i propositi del mio viaggio. Tuttavia, arrivato il mio turno allo sportello, ero esausta e determinata ad essere il più elusiva possibile.

Allo sportello, i timbri libanesi sul mio passaporto hanno attirato l’attenzione dell’impiegato. Avevo partecipato a una conferenza a Beirut ma, essendo una studiosa di politica iraniana, non intendevo soffermarmi sui miei interessi di ricerca. Tuttavia, il mio viaggio riscuoteva grande interesse e mi sono state fatte molte domande circa il convegno: la sede, gli organizzatori e l’argomento in discussione. Tutto intorno era rumoroso ed era difficile carpire le domande. In più, avevo l’impressione che le mie risposte non fossero ascoltate, non essendo mai stata guardata dal mio interlocutore. Probabilmente, egli aveva già deciso che la mia storia meritava di essere approfondita. In attesa di accomodarmi in una delle piccole stanze, la mia ansia è cresciuta al punto da decidere che, se volevo raggiungere Ramallah, non avevo alcuna scelta se non fingermi un’innocua turista.

Un palestinese-americano mi ha detto che stava aspettando il suo interrogatorio da più di due ore ma per me, europea, l’attesa è durata mezzora. Durante i miei due interrogatori, molte domande (spesso le stesse) mi sono state rivolte circa la mia professione e la mia ricerca, e il mio viaggio in Israele — un’entità geografica mitica, tanto onnicomprensiva quanto ambigua. Mentre allo sportello non avevo fornito dettagli sulla mia ricerca, ho qui adottato un approccio diverso. Era chiaro, almeno a me, che precisione era quello che la mia interrogatrice, una giovane donna, voleva. Inoltre, sapevo che le informazioni date sarebbero state controllate. Avevo intenzione di far capire che accettavo tutte quelle domande; che sapevo che erano fatte in nome della sicurezza di Israele; e che intendevo collaborare. Ho volontariamente parlato del mio lavoro in Iran prima che mi venisse chiesto, senza alcuna sorpresa da parte della interrogatrice: sapeva già o si aspettava che io collaborassi. In attesa del secondo interrogatorio, pensavo che alla fine mi avrebbero fatta passare. Mi rassicuravo ripetendomi che non era dimostrabile il contrario di quello che io sostenevo, e che ero stata onesta. Questo doveva essere importante, in fin dei conti, perché a me era costato molto.

Alla fine, ho ricevuto il visto. È stato grazie alla mia “buona condotta” oppure a motivi che nulla c’entrano col mio comportamento? In fin dei conti tutti sono cooperativi, soprattutto ad Allenby. Forse la mia interrogatrice era di buon umore, o stava testando una nuova tecnica di interrogatorio e non ascoltava nemmeno quello che dicevo. Oppure era solo annoiata e io ero un diversivo: non importa che gli interrogatori siano lunghi, nessuno controlla il tempo o il perché di un interrogatorio, a parte chi interroga.

Mentre uscivo dal terminal israeliano chiudendo così le mie 10 ore di “attraversamento” mi sentivo umiliata. Che cosa ci vuole per attraversare il ponte? mi chiedevo, pensando alle persone respinte. La ricompensa ricevuta, il visto, simboleggiava il mio atteggiamento collaborativo che aveva reso la giornata più facile alla mia interrogatrice, la quale aveva ottenuto risposte senza intoppi. Quel visto simboleggiava la forza di un potere arbitrario e la sua (in un certo senso incredibile) legittimità. Tali riflessioni rendevano la domanda circa il legittimare l’occupazione attraverso e attraversando i confini più pressante.

Libera dalla complicità

In attesa del mio volo all’aeroporto, guardavo la gente accogliere amici e parenti di ritorno. La bandiera israeliana è ovunque a Ben Gurion. I passeggeri erano accolti da canti nazionalisti, che coinvolgevano tutti i presenti, e da messaggi di benvenuto: da I missed you e Welcome to Israel al suggestivo That Aliyah Moment. Un gruppo di giovani ebrei americani ha trascorso la sera nella hall degli arrivi accogliendo i passeggeri con canti, balli e fiori. Anche alcuni palestinesi sono atterrati e si sono affrettati verso l’uscita.

Viaggiare in Palestina è una sfida etica perché la complicità con l’occupazione è ovunque: a partire dall’ANP e il governo giordano, fino ad arrivare a un qualsiasi viaggiatore o viaggiatrice, ci si confronta non solo con sé stessi ma anche con un sistema di sicurezza pervasivo che determina azioni e decisioni.

Avendo lasciato Ben Gurion senza menzione della conferenza a Ramallah, ho contribuito a cancellare non solo i palestinesi, loro esistenza e vita intellettuale ma anche l’occupazione, rinunciando a nominarla. Tuttavia, il menzionare la conferenza avrebbe potuto mettere gli organizzatori in pericolo, esponendoli a possibili ripercussioni. Non è un caso che ci sia stato chiesto di non accennarvi, se non obbligati. Inoltre, il rischio di essere respinti al confine la volta successiva è una possibilità reale e va presa in considerazione, anche per ragioni di testimonianza politica. “È importante che parli di cosa vedi qui”, mi è stato detto spesso. Alla fine, mi sono accontenta di aver ingannato il personale di sicurezza, di essere stata più furba di loro. Lo stesso avevo fatto settimane prima ad Allenby: “Benvenuta in Palestina” mi ero detta appena fuori il terminal israeliano. È sciocco ma allevia l’umiliazione.

Normalizziamo l’occupazione quando attraversiamo le frontiere “israeliane”? Nicola Pratt ha scritto che la resistenza non può avvenire al confine ma che essa si svolge in connessione al progetto politico di cui si è portatori quando si viaggia in Palestina.È inoltre importante ricordare che è in parte grazie alla simulazione che persone provenienti da tutto il mondo possono partecipare alle azioni di resistenza contro l’occupazione che si svolgono in Palestina. È sempre grazie alla simulazione che esistono testimonianze sui confini israeliani e sull’esperienza di chi li attraversa. È questo che consente la produzione di conoscenza sul ponte Allenby e, più in generale, sui confini, rendendoli così un luogo di contraddizione e di lotta.

Ringrazio Nicola Perugini e Jamil Khader per i loro commenti sulla versione precedente di questo articolo.

Note

[1] Un gruppo di persone basato ad Amman si è attivato per raccogliere le storie di coloro che sono stati respinti dalle autorità israeliane. Il loro slogan è “Trasformiamo l’ingiustizia in creatività”. Hanno generosamente condiviso le loro esperienze con me. Contatto: callfordenied [at] gmail.com

Print Friendly, PDF & Email
Close