Un estratto da “La mafia è dappertutto. Falso!”.
Alcune pagine del recente libro di Costantino Visconti (Laterza 2016).
Confesso, da ragazzo era un chiodo fisso: la mafia è di casa nella politica. O, viceversa, la politica è di casa tra le cosche. Comunque non lavoravo certo di fioretto quando si trattava di esprimere valutazioni sui legami tra politici e mafia. Poi ho subito un piccolo trauma. Poco più che ventenne, organizzai insieme ad altri facinorosi, antimafiosi tutti d’un pezzo, un appello pubblico con cui invitavamo i cittadini a non votare nelle imminenti elezioni politiche alcuni noti esponenti dei partiti di governo, in quanto da atti giudiziari risultava che, chi più chi meno, avevano in qualche modo intrattenuto rapporti secondo noi equivoci con le cosche, seppure nessuno di loro avesse mai subito una condanna o addirittura un processo. Tra questi c’era Salvo Lima, poi ucciso da Cosa nostra nel marzo del ’92, il quale neanche replicò: avrà pensato, tra sé e sé, «so’ ragazzi…». Uno di loro, invece, un senatore, ci denunciò per diffamazione, in blocco. Per la verità, era giusto quello meno mascariato. Se non ricordo male, sul suo conto il nostro «segugio» Francesco aveva trovato tra le carte giudiziarie una sorta di «pizzino» che dimostrava un suo interessamento in favore della figlia di un notabile per farle avere un lavoro, interessamento richiesto a sua volta da un soggetto «in odore di mafia». Il nostro ragionamento era: dobbiamo separare giustizia penale e politica, nel senso che non occorrono condanne per formulare in capo a un esponente politico un giudizio di «inaffidabilità», soprattutto in un contesto – la seconda metà degli anni Ottanta – in cui, grazie soprattutto al primo maxiprocesso, affermare l’esistenza di Cosa nostra non era più un’eresia.
Perché fu un trauma per me questa vicenda? Perché ci condannarono, per diffamazione. In quella sorta di mini-maxiprocesso contro l’antimafia – eravamo 14, noi imputati – il pubblico ministero chiese l’assoluzione, ma i giudici dissero «colpevoli!», in nome del popolo italiano. Anche se, ad onor del vero, il tribunale riconobbe a nostro favore l’attenuante di «aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale» (art. 62 del Codice penale). Benché già studente di giurisprudenza, l’esito mi apparve però quanto mai contraddittorio. Ma come? Mi dicono che abbiamo agito per fini nobili e poi ci condannano? A ciò si aggiunga che conoscevo di fama il presidente del tribunale che inflisse la condanna: magistrato integerrimo, al di sopra di ogni sospetto. Non potevo neanche coltivare lo sport preferito dell’antimafioso di professione, ossia quello di denunciare il complotto dei nemici. E non è finita qua. Molti di noi condannati, soprattutto gli adulti che «tenevano famiglia», temevano che il denunciante iniziasse anche una causa civile per il risarcimento del danno. Ne aveva diritto. Avrebbe potuto ottenere un bel po’ di soldi. Ma non lo fece. Come se avesse voluto dirci: «giovani e meno giovani, con me avete sbagliato, io non sono amico dei mafiosi, ma siete in buona fede e vi lascio stare, una volta che un tribunale ha sancito che mi avete diffamato».
Insomma, anche sotto la Prima Repubblica, in cui si diceva spesso che politica e mafia siciliana «erano tutta una cosa», specie nell’ambito dei partiti al governo, in realtà bisognava mettere in campo analisi il più approfondite possibile, piuttosto che rapide e impressionistiche sintesi. E non tanto per separare buoni e cattivi con un taglio netto, operazione di per sé plausibile solo in un ristretto novero di casi, ma per comprendere meglio.
Ci ha provato la giustizia penale, soprattutto nell’offensiva giudiziaria che si è dispiegata dopo le stragi del ’92, con alterne fortune, se riteniamo che il successo di un processo si misura solo con l’avvenuta condanna degli imputati. Tanti politici eccellenti sono stati condannati a vario titolo per reati di mafia, è vero. Ma altrettanti processi sono terminati in un nulla di fatto. E i tre più grandi e famosi, nei confronti di Andreotti a Palermo, Gava a Napoli, Mancini a Reggio Calabria – accusati di reati pesantissimi come concorso o partecipazione nell’associazione mafiosa –, si sono conclusi con l’assoluzione. Sia pure in parte per prescrizione nel primo e nel terzo caso.
Nel processo Andreotti, in particolare, la prescrizione si è abbattuta su una parte della condotta piuttosto sostanziosa, ritenuta provata dai giudici, e cioè il fatto che l’imputato avrebbe «collaborato» con Cosa nostra fino alla primavera del 1980. Sì, avete letto bene: secondo i giudici di appello, suggellati dalla Cassazione che nulla ha avuto da ridire sul punto, il sette volte presidente del Consiglio avrebbe «coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi». Roba dell’altro mondo, diciamocelo: soltanto una rimozione collettiva ha consentito a questo paese di tirare avanti e di risparmiarsi sensi di colpa formidabili.
Certo, a far scivolare nell’indistinto oblio il processo Andreotti hanno probabilmente dato una mano alcuni pubblici ministeri che sostennero l’accusa. A processo neanche iniziato, fu pubblicato da un editore napoletano un libro che raccoglieva gli atti dell’indagine che avevano portato al rinvio a giudizio del senatore, con il pretenzioso titolo La vera storia d’Italia. Ecco, forse sarebbe stato meglio che uno di loro, magari il più autorevole, tra uno specchiarsi e l’altro, si fosse fatto inquadrare da una telecamera e avesse dichiarato: «Ma che stupidaggini! Dobbiamo considerare questo un processo come gli altri, nelle aule di giustizia non si fa la storia! Soltanto dei presuntuosi e/o ingenui coltiverebbero addirittura l’ambizione di riscrivere la storia del nostro paese dal buco della serratura di un processo penale, quand’anche imponente come quello che è stato istruito nei confronti di Andreotti. Non c’è bisogno – infatti – di essere storici di professione per sapere che il paradigma criminale può, tutt’al più, dare un limitato, parzialissimo ausilio a chi per mestiere e con competenza vuole provare a spiegare quadri sociali e storici complessi come gli anni Settanta e Ottanta, italiani e non solo».
Parole simili non furono dette dai pm i quali, piuttosto, non facevano che manifestare la loro irritazione o – peggio – una sorta di aristocratica indifferenza verso chi osava discutere criticamente, anche in modo non ostile, le «magnifiche sorti e progressive» dell’autoproclamato «processo del secolo». Verosimilmente perché i pm di allora, e con lo stesso spirito non pochi loro colleghi che oggi calcano le scene, credono per davvero che la «questione criminale» sia la principale, se non l’unica chiave di lettura dell’intera storia del nostro paese. E anche per questa ragione essi ritengono che bisogna soltanto lasciarli fare, in tutti i modi: solo così si può liberare l’Italia. Il resto sono solo «pannicelli caldi», «armi di distrazione di massa». Insomma, le molte semplificazioni di allora fanno pendant con la rimozione odierna, così come ancora oggi, del resto, alcune toghe telegeniche accreditano l’idea che la lotta alla corruzione endemica che tormenta il nostro paese sia un affare che riguarda soprattutto la giustizia penale e il girone dei «cattivi» e non – piuttosto – precisi meccanismi regolativi della spesa pubblica, moduli organizzativi della pubblica amministrazione e, più in generale, l’ethos diffuso di un intero paese.
Forse, a questo punto, conviene ricordare che il camaleontico Andreotti è stato assolto.
Sarà forse perché abbiamo affidato prevalentemente alla giustizia penale il compito di comprendere e spiegare i nessi tra mafia e politica che oggi, da siciliani, dobbiamo portare un fardello più recente e forse ancor più pesante: due presidenti di Regione, succedutisi uno dopo l’altro dal 2001 al 2012, condannati per reati di mafia. Il primo, Totò Cuffaro, pochi mesi fa ha finito di scontare la pena per favoreggiamento, aggravato «dal fine di agevolare la mafia»; il secondo, Raffaele Lombardo, è ancora impegnato nel processo per concorso esterno, alle prese con una sentenza di condanna di primo grado che molto probabilmente sarà oggetto di non pochi approfondimenti giuridici e avendo ottenuto un’assoluzione in un altro processo per corruzione elettorale. E non mancano procedimenti penali in corso nei confronti di politici, talora anche di spicco, in Campania e in Calabria, per lo più incentrati su vicende legate a erogazioni pubbliche locali e a voto di scambio. Perfino un ex assessore della Regione Lombardia è accusato dalla Procura di Milano di aver concluso un patto con gli ’ndranghetisti del luogo per ottenere da loro voti in cambio di denaro: il processo di primo grado è alle battute finali.
Non dimentichiamo, inoltre, che l’esperienza giudiziaria nel campo dei rapporti tra mafie e politica ha costituito l’epicentro di quello scontro tra giustizialisti e garantisti che ha a lungo imperversato nel nostro paese e ancora non ci lascia. L’accusa contro la magistratura «politicizzata», le «toghe rosse» lanciate all’assalto degli avversari politici, l’abbiamo letta e sentita migliaia di volte. Questo tipo di accuse, però, non ha quasi mai aiutato a capire come stessero davvero le cose, anzi ha alzato spesso una coltre di fumisteria senza arrosto. E così è ancora adesso.
Un conto, infatti, è prendere atto che la «politica» nel suo insieme indifferenziato (ma l’espressione non mi piace affatto) ha subito una caduta verticale di credibilità che l’ha resa particolarmente vulnerabile alle censure anche giudiziarie. E, in questo quadro, prendere anche atto che la magistratura, considerata nel suo insieme indifferenziato (anche stavolta l’espressione non mi piace affatto), non si può certo dire che abbia maturato e praticato un autonomo self restraint in grado di trattenere ricorrenti derive di controllo panpenalistico sulle prassi politiche, derive ispirate al ferreo pregiudizio secondo cui «i politici sono amici dei mafiosi».
Altro conto è, invece, accreditare a ogni piè sospinto ipotesi complottarde e cospirative dei politici contro i magistrati e dei magistrati contro i politici: continuare a farlo è una responsabilità che grava sulle classi dirigenti del nostro paese e quando riusciremo a liberarcene non sarà mai troppo tardi.
Fermo restando che, verosimilmente, drappelli di pecore nere in entrambi gli schieramenti abbiano coltivato simili incubi, ai nostri danni.
Le questioni da discutere, però, sono ben più articolate di questa schematica rappresentazione, ossessivamente riproposta, di uno scontro eterno tra le forze del bene e quelle del male.
Il punto è che l’esercizio dell’azione giudiziaria nel campo della contiguità alla mafia di tipo politico-elettoralistico sconta notevoli difficoltà per limiti strutturali, congeniti, dello strumento penale, uniti all’oggettiva scivolosità dello stesso terreno di intervento, ossia le multiformi e spesso ambigue espressioni dell’agire politico.
Al di là di quel che scorre nelle opinioni popolari correnti, il diritto penale è infatti (dovrebbe essere) legnoso, anelastico e va (o dovrebbe andare) per «rime obbligate»: si può (si deve) incriminare e processare un cittadino solo se si hanno le prove che ha commesso un fatto riconducibile a un tipo espressamente e compiutamente descritto dalla legge. Oltre non si può andare. Grazie a Dio. E alla Costituzione, prima di tutto.
La politica, dal canto suo, è un crogiolo di fenomenologia umana e spazia dall’alto delle funzioni superiori della personalità al basso delle pulsioni più primordiali di ciascuno di noi. È poesia elevata ma anche prosa volgarissima. Coltiva la cura di beni comuni e insieme interessi individuali e di gruppo. Si fa politica nelle istituzioni di primissimo rango, ma anche nei consigli di quartiere e nel più sperduto dei municipi. Il popolo partecipa, anzitutto votando, alla gestione del potere pubblico. La misura della libera partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica è la misura della democrazia. Ovvio.
Meno ovvio diventa quando in questo teatro entrano in scena le mafie. E la giustizia penale al seguito. Che deve acchiapparle senza fare danni, senza cioè mettere i bastoni in quel meccanismo delicatissimo che regola la generazione e l’espressione del consenso in politica.
La premessa, fin qui, è stata un po’ troppo lunga, lo ammetto. Ma per provare a spiegare norme e prassi giurisprudenziali che hanno a che fare con il rapporto tra mafie e politica bisogna che il lettore sia avvertito che questo non è un campo di battaglia dove usare la scimitarra per far pulizia, bensì occorre il bisturi. Diversamente, l’azione penale, da strumento di protezione della democrazia contro le mafie si può trasformare, in un batter d’occhio, in un attentato felpato alla Costituzione. A maggior ragione in un tempo, come il nostro, in cui «indagato» non è un cittadino che ha ricevuto un avviso di garanzia a sua tutela ma un mezzo-colpevole o comunque un non-innocente.