Per una polifonia del limite

Su alcune possibilità di costruzione sonora.

Il musicista elettronico spesso ricerca e costruisce con curiosità pluridisciplinare il suo raggio d’azione. Muovendosi tra scienza e arte, cinema, fotografia e architettura, cura aspetti formali di un’evoluzione altrimenti effimera.1 Ricercare in musica discute il limite di una routine consolidata di scrittura o di registrazione. Il limite di un metodo può essere il punto di partenza, così come può esserlo il limitare le possibilità date.

Posso scegliere consapevolmente di limitare le mie possibilità di composizione a pochi elementi, usando, ad esempio, tecnologie obsolete della primissima ondata del digitale; oppure posso decidere di superare il limite imposto, sia esso estetico o metodologico, servendomi di metodi e tecniche poco ortodossi per arrivare al risultato.

Morton Feldman, nel suo Pensieri Verticali, ragiona su come la musica, paragonata alle arti visive, possieda un soggetto e una superficie. Ma se per un quadro è quantomeno intuibile individuare un soggetto (chi produce, chi fruisce o quanto è rappresentato) e una superficie (il supporto, la tela), nella musica il discorso si può fare più complesso.

A me pare che, da Machaut a Boulez, il soggetto della musica sia sempre stato la sua costruzione: «In musica la dimostrazione di qualsiasi idea formale, sia essa struttura o strettura, è una questione di costruzione, dove la metodologia è la metafora ordinatrice della composizione».2

Ci troviamo quindi di fronte a una realtà che è identificata dalla sua stessa disposizione di elementi e che, nella migliore delle ipotesi, auto-alimenta la metodologia del comporre. La musica come soggetto è costruita dalla disposizione di elementi musicali pensati per restituire una forma, cioè un elemento a sua volta organizzato. Cosa succede se invece cerchiamo la definizione di superficie in musica? «La superficie del musicista è una illusione dentro la quale egli mette qualcosa di reale: il suono. La superficie del pittore è qualcosa di reale a partire dalla quale egli crea una illusione».3 Il musicista elettronico può declinare nel dominio musicale quanto attribuito al pittore?

Per il musicista elettronico il supporto-macchina è l’elemento reale attraverso cui egli costruisce un’illusione sonora, un’utopia. Da qualche tempo a questa parte, nella storia del pensiero musicale, si ritiene opportuno introdurre e trattare l’oggetto o gli oggetti come protagonisti. L’oggetto, in qualità di superficie reale disposta (o predisposta), si identifica come medium nel processo di composizione.

Per comprendere il ruolo dell’oggetto-protagonista nel processo compositivo, è utile scomodare alcune figure che, da volenterosi pionieri, hanno cercato – empiricamente e a partire da concetti talvolta bizzarri – una soluzione alternativa alle estetiche in voga musicalmente nella loro contemporaneità: ricercatori inattuali rispetto alle estetiche a loro contemporanee che oggi godono di rinnovata attualità per le loro soluzioni metodologiche e di pensiero.

Il lavoro svolto da Luigi Russolo – dalla teorizzazione di nuovi strumenti musicali nell’organico orchestrale, fino al tentativo di brevettare il Rumorarmonio, strumento di sintesi ante litteram – fa interrogare finalmente sul suono in musica, alleggerendolo dai codici di scrittura standard per l’epoca. Così Russolo ri-cerca e svela il limite insito nella scrittura musicale: si narra che esista una gerarchia sonora, timbri nobili e pecore nere, categorie più o meno protette e outsiders. La sua lezione è preziosa. Vagliare e porre in discussione le categorie di definizione dei fenomeni sonori è un antidoto: «bisogna rompere questo cerchio ristretto di suoni puri e conquistare la varietà infinita dei suoni-rumori».4

Russolo fissa dei punti base che ci avvicinano sempre più a una modernità musicale. Si accenna all’ibridazione, alla multi-timbricità e al rumore, non più fratellastro del suono, ma esattamente il suo doppelganger.5 La superficie reale, utilizzata da Russolo per mettere in moto l’illusione utopica, è un dispositivo meccanico chiamato intonarumori, capace di imitare disparati timbri presenti in natura. Generalizzando, esso è un dispositivo meccanico messo in moto da un esecutore, quindi da una figura umana. L’intonarumori è una macchina costruita per ottenere suoni extra-musicali, con una loro musicalità intrinseca, ma orfani di una notazione standard, capace di produrre suoni riconoscibili anche a orecchie non educate.

Allo stesso modo László Moholy-Nagy, figura di spicco del Bauhaus, «proponeva, per esempio, di usare il grammofono non per riprodurre, ma per produrre musica, incidendo a mano la lastra del disco, cioè senza registrare un suono con un microfono».6 Il problema posto da Moholy-Nagy ha punti in comune con i quesiti, gli esperimenti e i lavori delle avanguardie musicali che operavano a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando la ricerca sul suono iniziava a contemplare in maniera sempre più estrema il supporto.

A partire da questa liuteria esoterica nasce il mio interesse verso la ricerca in ambito musicale. Dai primi anni del Duemila ho iniziato ad approcciare nuovi ascolti, a preferire nuove sonorità e a entrare in contatto con la musica contemporanea. Tra i molti compositori che iniziavo a indagare, ricordo una predilezione per i lavori strumentali di Karlheinz Stockhausen, per le opere di Sylvano Bussotti e per le composizioni per pianoforte preparato di John Cage: «composing for the prepared piano is not a criticism of the instrument. I’m only being practical».7 Le parole di Cage rispondevano alla mia esigenza di partire da un suono generato da uno strumento riconoscibile, modificandolo in modo da avere una tavolozza timbrica differente. Il suono del pianoforte preparato, parallelamente, insinuava un dubbio percettivo: il suono che ascolto, è un piano, una percussione o un suono artificiale? Nel percorso di ricerca ho alimentato l’indagine sull’ascolto con i lavori di Luc Ferrari, che ha composto Presque Rien attraverso il montaggio di registrazioni ambientali. I materiali usati potevano legarsi tra loro, o scontrarsi perché agli opposti, creando dei paesaggi sonori dal taglio surreale e familiare allo stesso tempo. La fotografia sonora può vivere nel paradosso, perché fissa nell’immobile un’arte che vive grazie allo scorrere del tempo.8

A posteriori mi rendo conto di aver vissuto un momento piuttosto importante per la mia formazione, ovvero il passaggio dal supporto analogico a quello digitale nell’ambito dell’home recording.

Passare alle possibilità del digitale è stata una sfida, non soltanto sotto il punto di vista tecnologico, ma soprattutto relativamente alla scrittura e alla produzione musicale.

Avendo fatto le mie primissime registrazioni tramite un registratore a cassetta della famiglia dei Portastudio 9 ho dovuto reinventare quanto perso, ovvero l’esperienza tattile del costruire suono. Le nuove tecnologie pensate per la registrazione musicale spingono il compositore a reinventare la metodologia di scrittura o di assemblage finalizzata alla restituzione in musica.

Ricordando Moholy-Nagy, il supporto diventa macchina di produzione, non più mero strumento tecnico di riproduzione, trasformandosi da ultimo anello della catena a soggetto e punto di inizio del processo di creazione.

Ricercare una tecnica, un metodo, è un aspetto che va di pari passo con la ricerca di strumenti adatti alla restituzione sperimentale e alla versatilità tipica di uno strumento tradizionale. I media che subentrano nel processo di produzione musicale possono sbloccare situazioni di procrastinazione e ridondanza, rendendo più chiari al musicista alcuni aspetti del processo creativo. Il lavoro sulla graphical user interface (GUI) è una possibile fonte di ispirazione per la produzione di forme musicali alternative. Una interfaccia extra-strumentale può rivelarsi il primo oggetto di indagine per la produzione, così come per i supporti analogici, che da meri contenitori di registrazioni, furono consacrati a strumenti di trasformazione del suono. Queste nuove procedure di composizione e di ricerca risultano particolarmente visibili nelle applicazioni pensate per le superfici tablet. A prima vista, un iPad ha una neutralità clinica disarmante. Il suo utilizzo come possibile strumento musicale non è la prima cosa che viene in mente, a meno che l’app che visualizziamo o utilizziamo non contenga, ad esempio, una tastiera temperata di memoria pianistica. Perso il feedback visivo tradizionale, l’approccio alla creazione cambia notevolmente. Un esempio particolarmente calzante è l’applicazione Borderlands, creata da Chris Carlson. Essa permette di gestire la sintesi granulare tramite una nuova gestualità dell’utente, con una GUI del tutto slegata da un possibile rimando strumentale.

L’equilibrio precario tra le possibilità offerte dalle nuove tecnologie e l’indagine tra forma e innovazione musicale pone oggi il ricercatore dinanzi a questioni aperte. Che si scelga di superare o assecondare il limite, ricercare è assumere un rischio. La necessità di andare oltre, può spesso lasciare indietro la musica, e trasformarla da prefisso a suffisso.

 

Bibliografia

John Cage, John Cage: Sonatas and Interludes (1946-48), Composers Recordings Inc., CRI 700, p. 2.

Lelio Camilleri, Il peso del suono. Forme d’uso del sonoro ai fini comunicativi, Apogeo Milano 2005.

Luigi Russolo, L’arte dei rumori, Stampa Alternativa, Viterbo 2009.

Michel Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 2001.

Morton Feldman, Pensieri verticali, Adelphi, Milano 2013.

Riccardo Falcinelli, Critica portatile al visual design. Da Gutenberg ai social network, Einaudi, Torino 2014.

Sulla dicotomia suono-rumore cfr. Salomé Voegelin, Listening to noise and silence. Toward a philosophy of sound art, Continuum, New York-London 2010.

Steven Johnson (ed), The New York Schools of Music and Visual Arts, Routledge, New-York-London, 2002.

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Note

  1. Cfr. Steven Johnson (ed), The New York Schools of Music and Visual Arts, Routledge, New-York-London, 2002.
  2. Morton Feldman, Pensieri verticali, Adelphi, Milano 2013, pp. 134-135.
  3. Brian O’Doerthy in risposta a Feldman, in M. Feldman, Pensieri verticali cit., p. 137.
  4. Luigi Russolo, L’arte dei rumori, Stampa Alternativa, Viterbo 2009, p. 11.
  5. Sulla dicotomia suono-rumore cfr. Salomé Voegelin, Listening to noise and silence. Toward a philosophy of sound art, Continuum, New York-London 2010.
  6. Riccardo Falcinelli, Critica portatile al visual design. Da Gutenberg ai social network, Einaudi, Torino 2014, p. 63.
  7. John Cage, John Cage: Sonatas and Interludes (1946-48), Composers Recordings Inc., CRI 700, p. 2.
  8. Sull’argomento cfr. Lelio Camilleri, Il peso del suono. Forme d’uso del sonoro ai fini comunicativi, Apogeo Milano 2005; Michel Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 2001.
  9. I portastudio sono macchine che tra le prime hanno permesso di portare la registrazione, che prima era prerogativa degli studi, in ambiente domestico.
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