Una lettura di “Plenitudine digitale” di David Jay Bolter (minimum fax, 2020).
Esiste un termine capace di restituire la vastità dell’attuale ecosistema mediale, fatto di equilibri variabili, relazioni mutevoli tra formati e dispositivi tecnologici, interazioni anche conflittuali tra tecnologie e comunità di utenti? Secondo Jay David Bolter il termine più adatto è quello di plenitudine e il suo libro Plenitudine digitale. Il declino della cultura d’èlite e lo scenario contemporaneo dei media, apparso da poco in italiano per i tipi di minimum fax nella traduzione Linda Martini, ha come obiettivo principale quello di spiegare l’appropriatezza di questa scelta terminologica.
Secondo la Treccani “plenitudine” deriva dal latino “plenus” (pieno) e indica «pienezza, completezza, perfezione, pieno e totale possesso o godimento». Pertanto, con plenitudine si intende una situazione di abbondanza nella quale i soggetti coinvolti possono trarre il massimo vantaggio. Per Bolter, la cultura mediale odierna è caratterizzata da ubiquità (non esiste un unico medium che ingloba tutti gli altri, così come non c’è un solo spazio di fruizione) e varietà (uno stesso contenuto, ad esempio un concerto o un film, può generare molteplici esperienze mediali). Ne consegue che la plenitudine digitale è «un universo di prodotti (dai social media ai videogiochi, dalla tv al cinema, e così via) e pratiche (la realizzazione di tutti questi prodotti insieme al loro remix, condivisione e critica) tanto vasto, vario e dinamico da non risultare intellegibile come un tutto unico» (pp. 35-36).
La plenitudine digitale non assomiglia a quell’enorme macigno di ingranaggi che pesa sulla testa dell’uomo solitario nella prateria, come accade nella copertina firmata da Saul Steinberg per il numero del “Times” (maggio 1965) intitolato “The Communications Explosion”. Piuttosto, come suggerisce lo stesso Bolter, il modo migliore per ritrarre la plenitudine sarebbe quello di immaginare infinite variazioni di “View of the World from 9th Avenue”, la vignetta realizzata da Steinberg per il “New Yorker” nel 1976: «Quasi ogni punto focale, ogni sorta di blog, di social media o di remix video, […] funge ora da centro per una determinata comunità di utenti. […] Per molti gamer […] i videogiochi sono il centro della cultura digitale e la punta di diamante della vita sociale e creativa. I videogiochi sono la Ninth Avenue; tutto il resto è sullo sfondo» (pp. 51-52).
Esistono centri e periferie mobili, non ci sono utenti ma comunità di pratica a cui si appartiene per passioni e competenze, non esiste più una linea di demarcazione netta tra gerarchie culturali. Come scrivono nella loro prefazione Luca Barra e Fabio Guarnaccia, il saggio di Bolter ha indubbiamente una «vocazione massimalista» (p. 5) ma la sua forza sta nel tentativo, davvero arduo, di descrivere la complessità attuale dei media e di raccoglierne le sfide senza adottare toni apocalittici o da integrato, evitando posizioni tecnofile o “luddiste”.
La plenitudine digitale, per sua natura onnivora, può fare a meno degli “ismi” che hanno caratterizzato tanta letteratura teorica e dei “post” con cui spesso si è decretata la crisi di un medium. Il modernismo d’élite diventa popolare, il postmoderno viene riassorbito dalle pratiche dal basso dei prosumer come quella del remix, i media cooperano o competono tra loro, mentre i processi rimediazione avvicinano un medium all’altro, senza farli scomparire ma amplificandone le potenzialità e la portata. In altre parole, c’è posto per tutti (media e pratiche) e per tutto (le diverse forme espressive): social network, blog, motori di ricerca, piattaforme partecipative, videogames, serie tv, cinema, musica, realtà virtuale, ecc.
Nella plenitudine digitale le “regole di convivenza” si basano su quattro scale valoriali, ai cui estremi si collocano coppie di concetti opposti ma compresenti: valori estetici caratterizzati dal polo della catarsi e da quello del flusso, valori socio-estetici contraddistinti dalla dicotomia originalità-remix, valori tecnologici (organicità/spontaneità e proceduralità/datificazione) e infine valori socio-tecnologici in cui si fronteggiano storia e simulazione. Queste scale valoriali sono un continuum in cui è possibile collocare, a livelli variabili, formati, tecnologie e pratiche di fruizione.
Facciamo qualche esempio per orientarci meglio. Quando ci sottoponiamo a lunghe sessioni di scrolling sulla bacheca di Instagram, Facebook, Twitter o YouTube ci troviamo di fronte a un flusso costante, interminabile, di brevi contenuti prodotti dalla cerchia dei nostri nostri follower, oppure consigliati e di conseguenza mostrati per primi dagli algoritmi della piattaforma a cui abbiamo concesso volontariamente di archiviare e processare le nostre informazioni personali. Attorniati da una voragine di frammenti, sperimentiamo non tanto la vertigine della lista quanto il piacere di perderci, scorrendo un video dopo l’altro, sempre pronti a farci distrarre da un selfie o da un meme. Oltre ai like e ai commenti, i social media sono lo spazio del remix. Essi sono l’ambiente ideale per realizzare operazioni creative di campionamento e riscrittura, per giocare con i rifacimenti e le parodie. Le fan-art realizzate dagli spettatori incalliti di Star Trek o il franchise transmediale di Matrix campionano ed espandono contenuti esistenti senza per questo essere delle banali copie. Alla base dell’interazione e della partecipazione c’è una dimensione procedurale che caratterizza l’intero universo digitale, inclusi noi utenti: le azioni necessarie per interagire con i dispositivi e le interfacce di cui disponiamo si basano sulla ripetizione di una serie predefinita di regole e azioni. Infine, queste operazioni ci collocano in un ambiente simulato, una sorta di eterno presente, in cui vige il principio di rigiocabilità. Pensiamo all’aggiornamento di una pagina web, all’avviso di nuovi contenuti sulla bacheca dei nostri profili, al pulsante “restart” dei videogame. Le serie tv sono diverse dalle esperienze mediali fin’ora descritte, in quanto si collocano all’incrocio tra il flusso e la catarsi. Le lunghe narrazioni come Lost o Game of Thrones sono composte da tante linee narrative. Ciascuna di esse si irradia a partire da un nucleo tematico comune, sviluppandosi lungo diversi episodi e coinvolgendo i diversi personaggi. Inoltre, per loro stessa natura, le serie tv fuggono la fine: un buon concept seriale è tale se può ripetersi e prolungarsi, garantendo la proliferazione delle stagioni e la fidelizzazione del pubblico. Quindi alla classica (aristotelica) forma narrativa a cui ci ha abituato tanta sceneggiatura hollywoodiana – in cui alla situazione iniziale segue il conflitto e la risoluzione – si sostituiscono, o meglio si aggiungono, i mondi narrativi della serialità che si espandono nel tempo e si rendono sempre “abitabili” per nuovi personaggi e per le loro storie.
Come indicato dalla congiunzione presente nel sottotitolo del volume, secondo Bolter non c’è una relazione di causa ed effetto tra lo sgretolamento delle gerarchie tra le arti e l’avvento dei media digitali, piuttosto compresenza e influenza reciproca. A partire dalla seconda metà del Novecento, «i media digitali forniscono un ambiente ideale per una cultura mediale appiattita, o forse sarebbe meglio dire bitorzoluta, in cui esistono molti punti focali e nessun centro» (p. 26). Queste trasformazioni corrono in parallelo, determinando non solo lo stato attuale della cultura digitale ma anche le modalità della comunicazione politica.
Plenitudine digitale inizia e termina con un’analisi delle cause che hanno permesso la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi nel 2016. In breve, Trump è riuscito a costruire una narrazione per frammenti che ha influenzato l’agenda setting giornaliera, ha coniugato il formato breve dei suoi tweet con il coinvolgimento emotivo, ha costruito un personaggio da seguire e non da imitare, ha denunciato la distanza siderale che separa la working class dalle élite democratiche. Ecco dunque emergere gli effetti (nefasti) della plenitudine digitale sui discorsi sociali. Riprendendo implicitamente l’estetizzazione della politica analizzata dal Walter Benjamin nel suo saggio dedicato agli effetti della riproducibilità (analogica) sulle arti, Bolter definisce il populismo come una forma di fascismo pop, direttamente correlata al modernismo popolare, così come «il modernismo del Ventesimo secolo è stato la matrice culturale non solo di una straordinaria quantità di arte […] ma anche delle politiche estreme del fascismo» (p. 63). L’omologazione e la polarizzazione delle posizioni è l’effetto diretto dello stato di abbondanza informativa. Tra le maglie di questa complessità a una dimensione dilagano le fake news, che rimbalzano da una filter bubble all’altra; mentre i fatti duri e puri, ingrediente primario della post-verità, sfamano la voracità dei social network.