Pisa città aperta? Da Ikea a Rebeldía passando per Corso Italia

Insurrezioni (2)

di Mariangela Priarolo

«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». I. Calvino, Le città invisibili

Pisa, domenica, dicembre, pioggia. La città dormicchia, assopita e silenziosa come solo le città studentesche riescono a essere la domenica pomeriggio. Sì perché a Pisa, una città che ha circa ottantamila abitanti, vivono più di ventimila studenti. Senza di loro in giro per le strade la città appare deserta, abbandonata e triste, in balia dei ricordi e della malinconia. Sotto a un portone spunta ad un tratto un ambulante: è giovane, avrà vent’anni, ha la pelle scura e un mazzo di ombrelli in mano. Poco più in là un ragazzo cingalese, la stessa età e gli stessi ombrelli offerti ai radi passanti, che tirano dritti senza degnarlo di uno sguardo.

È una città strana Pisa: antica repubblica marinara con il mare ormai a distanza di chilometri, sembra aver dimenticato la propria vocazione all’accoglienza e i tempi in cui era fucina di idee e mutamenti. Il comune, governato dal PD come quasi ovunque in Toscana, ha inventato molto tempo prima di Sarkozy i rimpatri volontari assistiti dei rom, un modo eufemistico per definire dei provvedimenti di espulsione contro persone “non gradite” al sindaco e a una parte della popolazione, quella stessa parte che non tollera gli studenti dai quali però continua a riscuotere, spesso in nero, affitti esosi. Contro i rom, la “movida” studentesca e gli ambulanti che vengono da lontano il sindaco, l’anno scorso, ha indetto una vera e propria crociata, ricevendo peraltro manforte dall’allora ministro degli interni, il leghista Roberto Maroni, e invitando i cittadini a combattere il degrado, la sporcizia e il rumore mediante un rilancio della città, faraonica impresa già avviata dalla giunta precedente. La nuova Pisa, graziosa fenice risorta dalle ceneri della precedente, viene così ricostruita a suon di cemento e concessioni edilizie, svendendo vaste aree del patrimonio pubblico all’offerente più vistoso, oggi Ikea domani chissà. Una città vetrina, la nuova Pisa, in cui il presidente della repubblica è chiamato dal sindaco a inaugurare la rilastricazione di Corso Italia, la via dello shopping e dello “struscio” perbene, mentre la piazza con il megaparcheggio a due passi da lì aspetta da dieci anni che venga posata l’ultima pietra.

Ed è per un parcheggio che, nove mesi fa, fulmini e saette vennero scagliate contro chi, dalla primavera del 2006, viveva e rendeva vivo uno spazio in una delle zone effettivamente critiche per ogni città, la stazione, un luogo fino a quel momento abbandonato e fatiscente, restituito alla città e ai suoi abitanti da un gruppo di persone unite da ideali e interessi comuni: il Progetto Rebeldía. Da quelle mura cadenti di vecchi capannoni, appartenuti prima all’Enel e poi alla Compagnia Pisana dei Trasporti e concessi dal Comune in via transitoria, il Progetto Rebeldía trasse uno spazio di partecipazione e civiltà. Un luogo, Rebeldía, in cui più di trenta associazioni, alcune note – da Emergency, alla Lipu a Fratelli dell’uomo –, altre meno, svolgevano attività di supporto ai migranti, tra corsi di italiano e sportelli legali, ed esperimenti di economia solidale, creando occasioni di socialità per studenti e cittadini vecchi e nuovi grazie ai concerti e alle feste delle comunità straniere, e continuando a riflettere tra incontri e dibattiti su una società in perenne mutamento. Una ciclofficina, un cinema, una biblioteca di diecimila volumi nata in virtù del sostegno di volontari e donatori, una palestra di arrampicata costruita pezzo per pezzo fino a divenire la seconda per grandezza della Toscana, una cucina e una caffetteria eque e solidali coronavano un sogno divenuto realtà: uno spazio libero, gratuito e aperto a tutti in cui tentare di costruire una città e un mondo davvero diversi. Ma il progetto Sesta porta, un parcheggio per gli autobus con uffici e negozi privati la cui costruzione non è, a oggi, ancora iniziata, ha spazzato via tutto questo, costringendo il Progetto Rebeldía a lasciare uno spazio che prima di allora non esisteva. Le promesse del Comune, dell’Università e della Provincia, impegnatisi pubblicamente a trovare presto un’altra sistemazione di fronte ai tanti e tanti cittadini che protestavano contro lo sfratto, non sono state mai rispettate e il nuovo spazio trovato dal Progetto in via Andrea Pisano, un insieme di edifici semiabbandonati da anni e di proprietà comunale, continua a rimanere in balia del tempo, degli elementi e della burocrazia.

Spazi pubblici lasciati vuoti e deserti pur di non ammettere che la riqualificazione di una città non implica per forza cementificare e tirare su muri, né dividere o respingere chi vede le cose diversamente, ma, al contrario, può e deve significare l’apertura e la condivisione dei beni comuni in una prospettiva che guardi davvero al futuro. In un’epoca come la nostra infatti, in cui la crisi economica e culturale rischiano di favorire forme di pensiero assai pericolose perché isolanti ed escludenti, sembra al contrario sempre più necessario creare dei luoghi in cui ritornino a incontrarsi le persone, le loro vite, le loro idee e i loro corpi. Degli spazi veri, concreti, in cui costruire giorno per giorno le risposte alle domande che la nostra società “liquida” continuamente ci pone e riallacciare quei legami tra individuo e comunità di cui voci anche assai distanti tra loro lamentano oggi, giustamente, la mancanza. In questa direzione l’esistenza stessa del Progetto Rebeldía dimostra come la costruzione di uno spazio fisico comune all’interno del quale pensieri e persone diverse si incrocino ed incontrino non sia il mero sogno di un visionario, ma un’esperienza realmente praticabile e il cui valore, certo non monetizzabile quanto quello di un appalto concesso a una multinazionale, è, forse proprio per questo, tanto più urgente difendere.

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