In occasione dell’incontro La realtà, la storia, l’utopia – Prospettive plurali sulle pratiche psichiatriche, che si terrà a Siena venerdì 6 aprile alle 15.30 presso il S. Niccolò, aula 101, pubblichiamo due estratti a firma di Piero Cipriano, psichiatra Forum Salute Mentale, dedicati al tema della contenzione.
L’incontro è organizzato in occasione dei 200 anni del S. Niccolò, l’ex O.P.P. di Siena e dei 40 anni della legge 180, dal Comune di Siena con l’Università di Siena, Azienda USL Toscana Sud Est e in collaborazione con il lavoro culturale.
Parteciperanno: Piero Cipriano, Psichiatra Forum Salute Mentale, Giovanna Del Giudice
Presidente Conferenza Salute Mentale Franco Basaglia, Massimiliano Cerretini, Psichiatra UFSMA Siena, Simonetta Abati, Coordinatrice Infermieristica SPDC Siena-Val d’Elsa. Coordina Silvia Jop, redattrice di il lavoro culturale.
(L’appuntamento, su iniziativa di Fabio Mugnaini, rientra nel progetto di ricerca interdisciplinare “L’altro nostro quotidiano” ed è sostenuto dal Dipartimento di Scienze Sociali Politiche e Cognitive.)
Estratto da Il manicomio chimico, Elèuthera 2015
FUOCO ALLE FASCE
In un reparto psichiatrico d’Italia, un SPDC, non dico quale, un uomo viene legato al letto, con quattro fasce viene legato, perché ha deciso, a tutti i costi, che deve uscire dal reparto blindato. Però, pure da legato (nessuno capisce come ha fatto) riesce ad appiccare il fuoco alle fasce e incendiare il letto. Per sua fortuna gli infermieri si accorgono subito delle fiamme e lo salvano dall’auto da fé. I medici, nelle lunghe discussioni e brain storming dedicate all’evento critico, decidono che quel gesto è la conferma che il malato è proprio indomabile, e dunque hanno fatto bene a legarlo. Come al solito si autoassolvono, convincendosi che questa è l’ennesima prova che legare, delle volte, è inevitabile. Però non valutano che oltre ai quattro arti avrebbero dovuto non dico perquisirlo, che non va bene violentare la privacy di un malato, ma almeno legargli, una per una, le dieci falangi delle mani.
Facciamo un passo indietro.
Un giorno di agosto del 2013, in un SPDC del Lazio, un uomo di cinquantasette anni, legato al letto, ha fatto lo stesso gesto. Ha cercato di liberarsi, dando fuoco alle fasce. A differenza dell’uomo di cui sopra, però, nel suo caso nessuno si è accorto per tempo che il legato, in quanto pericoloso per gli altri, era nel frattempo diventato pericoloso pure per sé, e s’era fatto torcia, come uno dei Fantastici quattro bruciava, e ora io non lo so se diventerà mai un supereroe vivo e deforme oppure morirà, non lo so se quest’uomo diventerà uno dei martiri della psichiatria in generale, e della contenzione in particolare, e se il suo nome si aggiungerà ai nomi di Franco Mastrogiovanni e di Giuseppe Casu, e se il suo sacrificio servirà a metterla finalmente fuori legge, quest’usanza di legare le persone nei reparti psichiatrici e non solo.
Facciamo un altro passo indietro.
Nella primavera del 2013 un SPDC di Roma è stato chiuso, perché ha preso fuoco, per colpa di un ricoverato mentale che fumava. I pazienti mentali fumano quasi tutti. Pare che la nicotina riduca gli effetti degli psicofarmaci. Loro, d’altronde, si difendono come possono. Insomma, stanno chiudendo, i SPDC del Lazio, uno dopo l’altro, per colpa del fuoco. Per autocombustione.
Il paziente che ho descritto all’inizio era affetto da epilessia. Possiamo già discutere il fatto che un paziente epilettico venga ricoverato in un reparto psichiatrico, lui aveva un’epilessia con sintomi psichiatrici, ma di base era un malato di epilessia. Quindi, affetto da un disturbo neurologico. E’ (ancora) questa la differenza tra neurologia e psichiatria. Nella neurologia c’è un cervello rotto, nella psichiatria no. Che poi gli psichiatri vogliano a tutti i costi essere neurologi, e raccontare al mondo che pure i loro schizofrenici o depressi abbiano un cervello rotto, questo è un altro discorso. Comunque, il ricoverato epilettico, che per sbaglio trovavasi ricoverato in SPDC, non accettava ragioni, e voleva uscire a tutti i costi. Il pomeriggio precedente, poche ore dopo il suo ricovero, mi aveva implorato, con queste testuali parole: io, caro compagno comunista, devo uscire di qua, aiutami a uscire. Non stai bene, gli avevo saputo dire, sei in Trattamento Sanitario Obbligatorio, devi restare qua dentro, e gli avevo dato un calmante. Che l’aveva calmato, ma per poco. Infatti la notte prese un comodino e cercò di rompere la porta (sempre chiusa) del reparto. Voleva solo uscire. Per niente aggressivo. Infatti continuava a ripetere sono pacifico io, sono un comunista io, voglio solo vivere libero io. La psichiatra ordinò agli infermieri di legarlo al letto. Lui però, l’epilettico comunista, aveva un accendino in tasca, e dopo poche ore diede fuoco alle fasce. Fuoco alle fasce, non posso fare a meno di pensare che questo sarebbe un bel titolo, un titolo veramente efficace per qualunque cosa uno voglia scrivere, e non solo d’argomento psichiatrico. L’epilettico comunista fu più fortunato, però, dell’uomo torcia dell’altro SPDC. Il sistema antincendio funzionava. E lui si ritrovò estinto a colpi di estintore. Compagno, mi disse il mattino dopo, quando lo ritrovai legato e mezzo bruciacchiato, non mi hai aiutato a uscire da qui, che compagno sei, ho dovuto farlo, ho dovuto farlo per la mia libertà, mi disse, non potevo stare qui agli arresti ospedalieri, sequestrato, ho dovuto dar fuoco alle fasce. D’altra parte compagno, continuò, se la rivoluzione non la facciamo noi malati di mente, chi la fa? Voi, voi che siete sani, anche se siete compagni, ragionate troppo bene per dare fuoco alle fasce. Così mi disse. Lo giuro.
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Adesso, però, voglio scriverlo in modo brutale com’è che la penso. Voglio fare una specie di… come si dice? …di testamento biologico.
Io penso che se qualcuno, col camice bianco, mi legasse a un letto d’ospedale, mi scolpirei in testa la sua faccia, e quando fossi di nuovo un uomo libero lo andrei a cercare. Ovviamente, questa è un’evenienza abbastanza remota. Ma se mai dovesse succedere, conoscendomi, il medico mio aguzzino non se la passerebbe bene.
Da ciò, da questo mio stato d’animo, che è lo stato d’animo che mi sale quando vedo qualcuno legato ingiustamente (direi sempre), capisco quanto veramente cristiani (porgono pacificamente l’altra guancia) siano i pazienti mentali.
Da questo capisco pure quanto io non sia affatto cristiano.
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Ricapitoliamo.
Un SPDC di Roma in primavera ha chiuso, per un incendio provocato da un paziente.
Un SPDC del Lazio da agosto è chiuso, perché un paziente legato ha dato fuoco alle fasce, e ha dato fuoco pure a se stesso che ci era attaccato.
In un SPDC dove ho lavorato un uomo legato ha cercato di bruciare le fasce, ha preso fuoco il suo letto, lui è uscito indenne dall’incendio, il SPDC non è stato chiuso.
I SPDC stanno prendendo fuoco, molti, forse, verranno chiusi per fiamme.
L’estremo modo per impedire di legare i pazienti mentali?
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Insomma, che moltissimi SPDC siano dispositivi mortificanti non lo sto scoprendo io.
Che moltissimi SPDC vadano assomigliando sempre più a piccoli manicomi moderni non lo sto scoprendo io.
Che i manicomi, sia quelli grandi che quelli piccoli, sia quelli fatiscenti che quelli ben tenuti, vadano soppressi, non sono io il primo a dirlo.
Il primo a dirlo fu un tale, era il 1964, mezzo secolo fa, si chiamava Franco Basaglia, disse che “la distruzione del manicomio era un fatto urgentemente necessario, se non semplicemente ovvio”.
E di nuovo, nel 1978, prima che fosse approvata la legge 180, si disse contrario sia al TSO che ai piccoli reparti psichiatrici inseriti negli ospedali generali: contro il TSO perché rischiava di diventare una sorta di arresto sanitario incontrollabile nelle mani di medici di vecchio stampo (e così è stato), contro i SPDC perché sarebbero diventati piccoli manicomi dentro i già inefficienti ospedali civili (e così è stato).
Ma ora, ora che esistono, come fare per distruggerli?, come?
Bruciando le navi, come fece Cortéz per conquistare l’impero atzeco, solo distruggendo col fuoco le vele, il timone, le gomene, tutto, perché questa nave manicomio che è la nave della follia non può essere incendiata e affondata se non la si distrugge pezzo per pezzo, solo distruggendo tutta la nave manicomio, e affondandola, solo così questa nave della follia smetterà di veleggiare. Così disse, quel visionario di Basaglia.
Ora, siccome è chiaro che questo messaggio la grande maggioranza degli psichiatri, tradizionali e pessimisti, non è in grado di recepirlo, tocca alle vittime, ai folli, dar fuoco alla nave, alle vele, al timone, alle gomene… alle fasce. E questo ha fatto il comunista epilettico.
Compagno dottore: Fuoco! Fuoco alle fasce!
Estratto da La società dei devianti, Elèuthera 2016
ABOLIRE LE FASCE DI CONTENZIONE E’ UN FATTO URGENTEMENTE NECESSARIO, SE NON SEMPLICEMENTE OVVIO
Il 21 gennaio 2016, mentre presentavamo la campagna per abolire la contenzione, al Senato, ho pensato che, tra i primi firmatari, io ero quello più esposto. L’unico psichiatra non in pensione, non direttore di dipartimento, nemmeno primario, che lavora, in un SPDC restraint, ancora sotto il ricatto di ordini di servizio, di legamenti, di strenua difesa della regola della contenzione. Uno psichiatra che da quasi quindici anni lavora nei SPDC restraint d’Italia. Sempre, per mia sfortuna, in SPDC dove le persone vengono legate. Pensavo, mentre aspettavo il mio turno per dire due cose, che se lavori nei reparti dove si lega, e provi a non legare, e dopo un po’ ci riesci perfino a non legare, a un certo punto riesci, forse, a comprendere qual è la dinamica del legare. L’ho già scritta questa cosa ma la ripeto.
La scienza del corpo morto
Innanzitutto capisci che legare una persona, a un letto d’ospedale, è solo l’ultimo atto violento di una serie di atti violenti che l’istituzione (psichiatrica in particolare, o medica in generale) agisce nei confronti di una persona con un disturbo psichico. Una persona che, quand’anche non arrivi in ospedale già ammanettata dalle forze dell’ordine, o forzata fisicamente, nel momento in cui varca la soglia di un reparto psichiatrico viene spogliata, perquisita, privata di oggetti personali ritenuti pericolosi (lamette, cinture, lacci, accendini), regolamentata negli orari per mangiare, dormire, fumare, prendere i farmaci, fare i colloqui, privata della possibilità di uscire (porte chiuse e sbarre alle finestre e telecamere sono la regola, anche per chi è in ricovero volontario), obbligata ad assumere farmaci anche se non vuole, forzata a ricevere iniezioni. Insomma, mi domando, è forse un segno di follia se, in risposta a tanta prevaricazione e violenza istituzionale, una persona già in crisi reagisce con un moto di rabbia, tirando un calcio alla porta chiusa, o urlando, o rifiutando di prendere una terapia imposta e non negoziata? Eppure è a questo punto che l’istituzione psichiatrica compie il definitivo atto violento: lega al letto questa persona.
Il folle è violento perché è malato. Questo si pensa, di solito. E se invece la sua violenza fosse una risposta alla violenza delle istituzioni della follia? E se la violenza dell’internato (ieri) dei manicomi, o del trattenuto provvisorio (oggi) nei SPDC, fosse un moto di rivolta contro l’istituzione che lo mortifica, che sancisce la trasformazione del suo corpo malato in un corpo istituzionale, in un suppellettile da sorvegliare e controllare alla stregua di una porta, di una serratura, di una finestra?
Dunque ecco che mi è sempre più chiaro perché i corpi obbligati dei malati, che da anni vedo depositare con violenza nei SPDC, per riprendersi un po’ di quella soggettività che gli viene estorta dall’istituzione, si oppongono, si insubordinano, diventano agitati, aggressivi, rifiutano le cure o tentano di fuggire, e quasi sempre la risposta dell’istituzione, del SPDC bunker, del servizio forte, blindato, è un rilancio, un’escalation della violenza iniziale, per cui ecco l’uso del farmaco a scopo non terapeutico (sedare) e ecco l’uso delle fasce (legare).
D’altronde (scrisse Franca Ongaro) la medicina è la scienza del corpo morto, scienza che ha cercato di comprendere, nelle aule di anatomia patologica, l’uomo vivo, il malato, attraverso il corpo morto del cadavere. E pure l’ospedale, il luogo di cura per definizione, riproduce il corpo morto dissezionato del cadavere, coi suoi reparti per lo scheletro, per l’apparato digerente, respiratorio, cardiovascolare, eccetera. E in ospedale l’uomo vivo è gradito sempre allettato, clinofilo, perché la clinica è corpo morto, e pure nel reparto psichiatrico, deputato alla cura della psiche malata, il corpo è quasi sempre orizzontale, cadaverico, grazie al ruolo clinofilo di farmaci e fasce.