Guardate questa bambina

A proposito di “Piccola città. Una storia comune di eroina”, il libro di Vanessa Roghi uscito per Laterza.

«Tutto quello che sappiamo sugli adulti è ciò che abbiamo visto e imparato dai nostri padri. Mio padre era il mio eroe. E il mio più grande nemico». (Bruce Springsteen)

Guardate questa bambina. Questa bambina sono io. Ho la piuma in testa e delle foglie in mano. È il 5 settembre del 1976 e Democrazia Proletaria festeggia sul monte Amiata le elezioni del 20 giugno, dove ha preso l’1,5 per cento. Ben 6 deputati. Ma io queste cose non le so. So, però, che c’è babbo che ha dipinto di rosso la porta del PdUP a Grosseto, e a me questo nome, Pdup, mi sembra che rimbalzi. Il Pdup sono davvero poche persone mentre il PCI ha preso quasi il 35% dei voti. Ma per me il Pdup rappresenta l’orizzonte unico e possibile di quella che è la Politica. Si chiama così. Ha la lettera maiuscola e la porta rossa, e poi la fanno mio padre e i suoi amici, che mi piacciono, perché mi raccontano la Favola di Mao Tse Tung.

Era questo l’incipit folgorante di un articolo scritto da Vanessa Roghi per «minima & moralia» e pubblicato il 4 maggio del 2017. Lo sguardo di una bambina nata nel 1972 a Grosseto, che guarda il mondo farsi grande sotto agli occhi che lo esplorano mentre le gambe lo misurano a passi sempre più lunghi. Di cosa era fatto quel mondo, che è quello dei suoi genitori, e come si è frantumato il giorno che lei è entrata in un’aula del liceo classico mentre il suo babbo veniva esposto alla gogna di un quotidiano locale? L’anatomia di quel mondo è raccontata nel bellissimo libro di Vanessa Roghi che ibrida narrativa di autofiction e ricerca storica sul presente. Oggetto: l’eroina. Case study: il padre dell’autrice.

Ma non c’è solo la vicenda di famiglia sotto la lente della storica. C’è una città, una città piccola. Una piccola città. E tutti diranno: “Bastardo posto”, citando Francesco Guccini. Giusto. Ma la piccola città che sta nell’incipit e nel titolo del libro di Vanessa è qualcos’altro. È quella di cui parla Bianciardi in apertura de Il lavoro culturale. Una piccola città che un tempo era chiusa, raggomitolata su se stessa e presidiata da mura medicee e da una cerchia di vecchie cornacchie fissate con l’archeologia e che all’improvviso si apre al vento e ai forestieri e si allarga sulla campagna. Ma quella tramontana di libertà dura solo una breve stagione. Poi la città si chiude in se stessa, più moderna ma anche piena di cemento, e presto si scoprirà trincerata e rancorosa, città nemica dei diversi. Ieri dei capelloni e dei drogati, oggi degli immigrati.

Io e Vanessa abbiamo cose che ci accomunano. Siamo nati entrambi nel grossetano, siamo coetanei e alcuni suoi amici sono anche amici miei. I nostri genitori però erano diversi. Suo padre era un anticonformista, uno che stava alla sinistra del partito che da noi era la Legge. Veniva da un ceto sociale borghese ma era in rottura con la sua classe. Mio padre veniva dalla classe operaia ma in certo modo era conformista, ossia era leale e conforme con i codici del sindacato, del partito e della classe operaia che del lavoro aveva fatto un elemento di identità sociale. Lui stava nella classe che avrebbe spezzato il giogo dello sfruttamento, a condizione di rispettare ogni singola mossa, nella politica come nella morale, del Partito.

Quando Vanessa parla dell’ostracismo dei boiardi del Pc ma anche della sua base elettorale verso persone come suo padre, io non esito a vedere in quello che ce l’ha con i capelloni, i vagabondi e i drogati, anche mio padre. Che non riusciva a capire la nuova generazione di compagni di lavoro in fabbrica che cominciarono a nascondere bustine e siringa dentro alle tute blu. Era un moralismo pericoloso, che nascondeva la realtà dei fatti e non voleva vedere il disagio di una generazione. “Drogati” per mio padre erano all’inizio solo i padroni, “tutti cocainomani come la vecchia capra” (un noto industriale di cui ometto il nome). Dopo i padroni dovette ammettere che avevano iniziato a farsi anche i giovani, “ma solo quelli che non hanno voglia di lavorare”, precisava. In realtà le droghe servivano in fabbrica proprio a lavorare, ossia ad attutire la noia e la fatica. Me ne sono accorto io stesso lavorando nella ristorazione: per fare il doppio turno, capitava spesso che alcuni colleghi assumessero stimolanti e farmaci per dare lustro alle gambe.

Che fosse un farmaco contro l’alienazione o una pratica di espansione della consapevolezza, quasi sempre quel papavero inciso ha lasciato dei buchi nelle nostre storie e nelle memorie. Troppo spesso lo associamo agli anni Settanta. Eppure io che come Vanessa negli anni Settanta ci sono nato, ho perso diversi compagni di infanzia nei primi anni Novanta per overdose. Buchi della memoria, persone che non riesco neanche a vedere come sarebbero state “da grandi”. C’è quasi una difficoltà a visualizzare chi è scomparso nella dipendenza da eroina.

Vanessa Roghi riesce invece a tenere gli occhi aperti e lo fa con un coraggio e una forza straordinari. Fissa la storia da bambina e la ricostruisce con lo sguardo da storica. Il risultato è straniante: viene da leggere la sua opera, scritta con metodo storiografico da una donna adulta, con gli occhi di lei stessa bambina, infilandosi tra le righe di questo libro intimo e doloroso, ma mai vittimario. Nei libri ci stanno i pieni e i vuoti, le righe e il bianco dell’interlinea. In questo ci sono tanti spazi pieni e l’autrice si espone tantissimo. Tra le righe, mi viene da pensare agli spazi vuoti per il lettore, che Vanessa deve aver lasciato al dialogo intimo con se stessa o col padre.

Guardate di nuovo questa bambina dopo aver chiuso il suo libro, ci chiede di seguirla nei suoi luoghi oscuri per tornare alla luce; guardatela risvegliarsi dal sogno e sentire che comunque alla fine va tutto bene, l’incubo è finito e rimane l’affetto enorme, che tracima da quelle righe, verso un padre bigger than life. Uno che dopo aver voltato le spalle alla piccola città e all’eroina per ritrovare la sua strada ha fatto il giro del mondo, si è fatto passare per un ex allenatore della Fiorentina nelle isole Fiji, poi è finito ad Amsterdam, è entrato in fabbrica, ha fatto il sindacalista e adesso alla fine del viaggio è uno come tanti altri, uno che nel grande Nord coltiva l’orto dove fa pomodori rossi come quelli mediterranei, uno che i bambini olandesi quando lo vedono con la vanga sotto il braccio chiamano Opa, che vuol dire nonno.

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